
L'ex premier ha chiuso in diretta tv il dialogo con il M5s, mettendo all'angolo il leader provvisorio. E ora punta a eleggere un segretario di partito manovrabile. Ma c'è il piano B: fondare un movimento con i suoi pasdaran.Vi sembra possibile che un «semplice senatore di Scandicci», come aveva promesso di diventare, abbia potuto dare la linea al secondo partito italiano proprio alla vigilia della direzione nazionale? Penserete: o è un megalomane o è un fenomeno. No. È semplicemente Matteo Renzi. Una parte dei suoi amici, diciamo le colombe, ci sono rimasti male. Si aspettavano una «strambata» che lo avrebbe potuto rimettere al centro dei giochi, consentendogli di giocare un ruolo tipo quello che ebbe Craxi nella Prima Repubblica, nei confronti della Dc. Cioè un elastico da tendere e rilasciare per dare e togliere ossigeno all'esecutivo a trazione grillina. Invece, parole loro, Matteo Renzi ha scelto la linea «muoia Sansone con tutti i filistei». Non è necessario essere antirenziani per comprendere la tesi secondo cui la sentenza di Renzi esibita nella trasmissione Che tempo che fa, ha tagliato le gambe a chi vedeva nell'intesa con il M5s un possibile ritorno alla vita per un Pd tramortito dagli elettori. I falchi, invece (che come si dice in Toscana «quando il capo fa la pipì a letto vuol dire che suda», cioè i pasdaran) giudicano il «mai con Di Maio» un esempio di coerenza anche per rimettere al centro la riforma costituzionale. Tra i falchi, caparbiamente protesi a testa bassa verso il baratro, e le riflessive colombe spaventate dall'ignoto, francamente nessuno ha capito quale sia la linea di Renzi, se non «il partito è mio e faccio come mi pare». E perfino l'idea di poter tornare al «dove eravamo rimasti», cioè alle riforme, le sue, che il Paese gli ha già bocciato il 4 dicembre 2016. Se ne infischia che il segretario reggente Maurizio Martina abbia proposto un referendum sull'intesa con il M5s. Non ce n'è bisogno, la decisione l'ha già presa Renzi per tutti. A che titolo non si sa, visto che in teoria non sarebbe più il segretario. In teoria, perché non gli ho mai sentito pubblicamente pronunciare la parola «dimissioni», se non subordinata temporalmente a una serie di piccoli eventi come la formazione di un governo, che ancora non c'è e - nella sua logica - lo mantiene in carica. Renzi è l'unico uomo in grado di dare dimissioni a orologeria: è ancora segretario quando gli fa comodo; non lo è, se capisce che è meglio tirarsi fuori da imbarazzanti presenze, come fare una relazione sullo stato del partito da lui guidato in un organismo dirigente. Con buona pace del mite Martina. Che ieri, dopo una notte amarissima, non poteva ingoiare l'ultimo sgarbo e si è indignato: «Ritengo ciò che è accaduto in queste ore grave, nel metodo e nel merito. Così un partito rischia solo l'estinzione e un distacco, sempre più marcato, con i cittadini e con la società». I medesimi pasdaran renziani, quelli che giustificano anche la pipì a letto, ripetono: «Bisogna smettere di dividerci tra di noi, nel Pd, sono 5 anni che accade. Questa è stata una nostra grande debolezza su cui tutti hanno giocato per i propri tornaconto». Che vuol dire? Non spiegano che cosa dovrebbero fare quelli che non sono d'accordo con Renzi, se non abbassare la testa e obbedire. Cioè siamo punto e a capo: c'è un solo padrone. Poco importa che gli elettori lo abbiano distrutto, che gli abbiano di fatto strappato lo scettro del comando. Si ricomincia, con gli stessi metodi e gli stessi toni che hanno provocato la clamorosa sconfitta. Nei giorni scorsi, durante il tira e molla con i 5 stelle, Matteo Renzi ha pensato bene a quale potesse essere la via d'uscita per salvare la faccia. La sua faccia, non quella del Pd. Di tenere unito il partito a lui non importa un fico secco. Gli importa continuare a essere il protagonista della politica italiana, così come lo è stato negli ultimi 5 anni. E sta cercando la strategia più conveniente, compresa quella di passare sul cadavere del suo Pd. Certo, potrebbe aver annusato che più la tira per le lunghe, più il Movimento 5 stelle si logorerà e perderà consensi, come hanno già dimostrato i numeri delle elezioni regionali in Friuli. E di fronte alla conclamata incapacità dei grillini, tanti voti democratici in libera uscita verso Di Maio potrebbero rientrare all'ovile alla prossima prova elettorale. Renzi però non fa i conti con quanti hanno smesso di votare Pd perché c'era lui, per bastonare la sua arroganza e la sua protervia. Ma questo non rientra nel suo Dna. Dunque è ripartita la rumba, destinata forse a un'altra scissione. Giovedì in direzione si misurerà la forza che hanno Delrio, Franceschini, Emiliano, lo stesso Cuperlo di rompere il silenzio. Fino ad oggi ne hanno avuta poca. E non è mai accaduto, nemmeno, che un partitone duramente sconfitto alle elezioni, dopo due mesi non abbia mai affrontato una discussione sulle ragioni della batosta, benché all'orizzonte ci siano altre importanti competizioni elettorali amministrative da affrontare. Le uniche concessioni che Renzi ha fatto al confronto con la gente, ben pubblicizzate anche da acconcia documentazione fotografica, sono le esibizioni nel centro di Firenze, con le terga appoggiate su una elegante city bike viola regalatagli da Colnago, per condurre i suoi sondaggi privati e personali: «Come reagirà il popolo se per l'ennesima volta farò il contrario di quello che ho annunciato, cioè mi rimangerò la promessa di non allearmi con Di Maio»? Il popolo (?), ha raccontato diligentemente, lo ha confortato sul fatto che sia meglio non immischiarsi. E lui ha obbedito. Ma ci credete che sia andata così? Il Pd ora è nel caos assoluto, mentre Renzi, ieri, se n'è andato con la famiglia a fare il boy scout. Se in direzione, giovedì, qualcuno avrà il coraggio di rinfacciare a Renzi le sue oggettive responsabilità nella sconfitta elettorale, infischiandosene dei ricatti a cui andrà incontro, forse ci sarà un dibattito vero. Sennò ascolteremo la consueta messa cantata, officiata dai renziani che magnificano le meraviglie compiute dai due governi del centrosinistra. Anche se c'è il rischio che l'attenzione e lo scontro si spostino sulla elezioni del nuovo reggente, in sostituzione di Maurizio Martina. Renzi vorrebbe Lorenzo Guerrini. Un maggiore equilibrio sarebbe garantito invece da Graziano Delrio, renziano della prima ora ma dotato di autonomo senso critico. Se a Renzi stesse a cuore il Pd e se lui avesse un cuore per il Pd, forse tornerebbe a fare il segretario. Sarebbe più chiaro e più onesto. Invece di continuare con questa pantomima che, al netto dei giochi di potere fra i notabili, specula sulla buona fede di tanta gente semplice, aggrappata alla storia nobile e controversa della sinistra, più che mai oggi che si celebra il Primo maggio. Un popolo del 18% che ignora il piano B di Matteo Renzi: il partito macroniano, imbottito di pasdaran ed ex berlusconiani, diverso e contrapposto al Partito democratico. Giudicate voi se somiglia o no a un tradimento.
(IStock)
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