2022-06-09
Roma torna sul fronte Sud della Nato. Attriti in Libia con Putin e il sultano
Lorenzo Guerini (Imagoeconomica)
Lorenzo Guerini mira alla stabilità mediterranea, Ankara e Mosca a spartirsi il Paese africano.L’Italia deve rilanciare il suo ruolo nel bacino del Mediterraneo. È questo, in estrema sintesi, il succo della «Strategia di sicurezza e difesa per il Mediterraneo», recentemente presentata dal ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. Non a caso, il Mediterraneo Allargato viene definito nel documento come «la dimensione strategica di riferimento per la nostra nazione, entro la quale lo Stato esercita un’azione prioritaria, ma non esclusiva, al fine di perseguire gli interessi strategici nazionali». Interessi che sono principalmente rappresentati da commercio, disponibilità di materie prime, risorse energetiche e «posizionamento diplomatico». Il documento sottolinea inoltre come il Mediterraneo costituisca il «fianco meridionale» tanto della Nato quanto dell’Ue, passando inoltre in rassegna i principali problemi che affliggono quest’area: dalla crescente influenza sino-russa al terrorismo, fino agli ingenti flussi migratori. «L’aggressione russa all’Ucraina, che porta comprensibilmente il nostro sguardo a Est conferisce [...] una rinnovata centralità al Mediterraneo, mare caldo d’Europa e fianco Sud della Nato, avendo un’influenza significativa sulle sue dinamiche», ha dichiarato lo stesso Guerini, mettendo in correlazione le sfide che l’Alleanza atlantica deve affrontare a Est con quelle che deve gestire a Sud. Il governo italiano sembra quindi puntare a recuperare slancio politico e diplomatico nel Mediterraneo all’interno del perimetro atlantico. Una scelta che avviene, mentre si sta progressivamente costituendo un asse tra Russia e Turchia sul dossier libico. Un dossier che è stato non a caso affrontato ieri nel colloquio, svoltosi ad Ankara, tra Sergej Lavrov e Mevlut Cavusoglu. Quest’ultimo, in particolare, ha invocato una stabilizzazione del Paese nordafricano e un abbandono della «concorrenza» verificatasi in passato. Ciò vuol dire soltanto una cosa: esattamente come sulla Siria, Mosca e Ankara stanno predisponendo una cooperazione anche sulla Libia. Ricordiamo d’altronde che se i turchi mantengono una salda influenza nell’Ovest del Paese, i russi estendono la loro longa manus sulla parte orientale (anche attraverso i pericolosi mercenari del Wagner Group). Ebbene, non è affatto escludibile che Vladimir Putin e Tayyip Erdogan puntino a una spartizione definitiva del Paese, che sia in grado di tagliare irrimediabilmente fuori l’Occidente. Uno scenario, questo, che non sarebbe certo desiderabile né per l’Ue né per gli Stati Uniti: non solo Mosca e Ankara metterebbero le mani su ingenti riserve energetiche, ma la stabilità stessa del Mediterraneo ne risentirebbe. Basti del resto pensare al recente sequestro di due petroliere greche da parte di quell’Iran che della Russia è storicamente uno stretto alleato. Senza infine dimenticare che Putin ha schierato miliziani siriani e libici in Ucraina: miliziani che, a invasione terminata, finiranno prevedibilmente con l’accrescere l’instabilità del Nord Africa. Proprio ieri inoltre è tornato a parlare Khalifa Haftar, figura storicamente sostenuta dai russi (e anche dai francesi) che ha definito la Libia «un focolaio per mercenari». Tutto questo per dire che la situazione complessiva va peggiorando e che non bisogna farsi facili illusioni sul futuro. Un rilancio della leadership italiana nel Mediterraneo comporta sicuramente dei rischi notevoli, ma è altrettanto vero che, se non accettiamo di assumerci tali rischi, il nostro Paese proseguirà ineluttabilmente sulla via del declino internazionale. La strada tracciata da Guerini può quindi essere quella giusta. E Roma deve insistere con la Casa Bianca per ottenere un ruolo di primo piano nel consolidamento del fianco meridionale della Nato, approfittando del fatto che a Washington non si fidano né di Parigi né di Ankara (visti i rapporti ambigui che entrambe la capitali intrattengono col Cremlino). Il quieto vivere non ci porterà da nessuna parte. Lasciar fare a russi e turchi nel Mediterraneo non ci arrecherà alcun vantaggio. Finiremmo soltanto spolpati vivi.
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Dopo l'apertura dei lavori affidata a Maurizio Belpietro, il clou del programma vedrà il direttore del quotidiano intervistare il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, chiamato a chiarire quali regole l’Italia intende adottare per affrontare i prossimi anni, tra il ruolo degli idrocarburi, il contributo del nucleare e la sostenibilità economica degli obiettivi ambientali. A seguire, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, offrirà la prospettiva di un territorio chiave per la competitività del Paese.
La transizione non è più un percorso scontato: l’impasse europea sull’obiettivo di riduzione del 90% delle emissioni al 2040, le divisioni tra i Paesi membri, i costi elevati per le imprese e i nuovi equilibri geopolitici stanno mettendo in discussione strategie che fino a poco tempo fa sembravano intoccabili. Domande cruciali come «quale energia useremo?», «chi sosterrà gli investimenti?» e «che ruolo avranno gas e nucleare?» saranno al centro del dibattito.
Dopo l’apertura istituzionale, spazio alle testimonianze di aziende e manager. Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, dialogherà con Belpietro sulle opportunità di sviluppo del settore energetico italiano. Seguiranno gli interventi di Maria Rosaria Guarniere (Terna), Maria Cristina Papetti (Enel) e Riccardo Toto (Renexia), che porteranno la loro esperienza su reti, rinnovabili e nuova «frontiera blu» dell’offshore.
Non mancheranno case history di realtà produttive che stanno affrontando la sfida sul campo: Nicola Perizzolo (Barilla), Leonardo Meoli (Generali) e Marzia Ravanelli (Bf spa) racconteranno come coniugare sostenibilità ambientale e competitività. Infine, Maurizio Dallocchio, presidente di Generalfinance e docente alla Bocconi, analizzerà il ruolo decisivo della finanza in un percorso che richiede investimenti globali stimati in oltre 1.700 miliardi di dollari l’anno.
Un confronto a più voci, dunque, per capire se la transizione energetica potrà davvero essere la leva per un futuro più sostenibile senza sacrificare crescita e lavoro.
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