2020-06-22
Rocco Forte: «Rivogliamo i turisti in Italia? Finiamola di gonfiare le paure»
Il re degli hotel extralusso reduce dal Covid: «Ora paventano nuove ondate epidemiche pur di non ammettere che il lockdown è stato esagerato. Invece serve un clima diverso».Non capita tutti i giorni di vedere decine e decine di dipendenti radunarsi a sorpresa, avendo saputo dell'arrivo dall'estero del loro datore di lavoro, per accoglierlo e festeggiarlo con un enorme applauso e con parole di sincera emozione. È la scena a cui ho assistito incontrando Sir Rocco Forte in una delle gemme del suo regno: l'Hotel de Russie a Roma, a un passo da piazza del Popolo, che ha ripreso le attività nel weekend appena trascorso. Nel periodo più duro del coronavirus (che ha personalmente contratto e superato a marzo), Sir Rocco ha anticipato la cassa integrazione ai dipendenti, ne ha aumentato il trattamento economico e ha pure previsto buoni pasto per i lavoratori stagionali. Rocco Forte è il re dell'hotellerie ultralusso: da Roma a Firenze, dalla Sicilia alla Puglia, da Berlino a Londra, da Edimburgo a Bruxelles, passando per Francoforte e Monaco di Baviera, e arrivando sino a San Pietroburgo. Ho letto che lei ama parlare di sé e dei suoi cari, anche sul lavoro, come di una famiglia, prim'ancora che come un gruppo di azionisti. «La mia famiglia è ormai da generazioni in questo settore: anche i miei figli sono entusiasti di lavorare con me e negli alberghi, e sono molto bravi. E un senso di famiglia c'è anche con i miei dipendenti: quando sono stato male per il Covid, erano tutti molto preoccupati. E quando abbiamo deciso di adottare una serie di misure a favore dei nostri collaboratori, ho ricevuto lettere e testimonianze di ringraziamento molto commoventi». Il primo della sua famiglia ad avventurarsi lontano da casa fu suo nonno.«Andò da solo negli Stati Uniti a 14 anni, poi tornò a 21 a Monforte, vicino ad Atina (in provincia di Frosinone, ndr) e si costruì una famiglia. Poi decise di trasferirsi in Scozia».L'avventura imprenditoriale ebbe poi suo padre Charles come protagonista.«Dalla Scozia si spostò nel Sud dell'Inghilterra, a Brighton, e poi a Londra. Quando scoppiò la seconda guerra mondiale, aveva ancora il passaporto italiano e fu internato per qualche mese come tanti italiani nell'Isola di Man».Non dev'essere stato facile allora nel Regno Unito essere un imprenditore e al tempo stesso essere un italiano, quindi dalla parte sbagliata della guerra.«È quello che gli chiedevo anch'io da piccolo. Lui mi diceva sorridendo che aveva puntato sul suo lato scozzese… Quando c'era la partita di calcio Scozia-Inghilterra, lui andava a vederla con il tipico cappello scozzese».E lei come si trovò a lavorare con lui? «Ho cominciato a 14 anni, collaborando durante le vacanze scolastiche, e poi via via per anni durante le vacanze universitarie, facendo tutti i lavori che si possono svolgere in un albergo: in cucina, lavapiatti, cameriere. Ho imparato e mi sono appassionato nello stesso tempo». Poi toccò a lei assumere le redini dell'impresa. «Prima sono divenuto commercialista, ho acquisito dimestichezza con i numeri, ho imparato a leggere i bilanci: in questo modo i commercialisti non potevano raccontarmi troppe storie… Poi ho lavorato per 20-25 anni con mio padre, piano piano arrivando al vertice. L'azienda era quotata sul mercato. Poi mio padre decise di andare in pensione a 83 anni e io assunsi la guida».Nella sua cavalcata non è mancato un momento delicato, quando foste oggetto di un'Opa ostile.«Dalla crisi degli anni Novanta il settore alberghiero uscì tardi. Nel 1996 il gruppo Granada lanciò un'Opa ostile per assumere il controllo della nostra catena: nel Regno Unito non hai molti strumenti per difenderti in questo caso. Noi forzammo gli acquirenti ad alzare molto il prezzo. In ogni caso l'Opa riuscì».In quel momento il vostro gruppo era enorme.«Centomila dipendenti: erano circa 1.000 ristoranti e 800 alberghi. Loro comprarono ma poi vendettero per meno di quanto avevano pagato…».Ci fu un'enorme attenzione mediatica per quell'affare.«Mi ricordo che quando si concretizzò la loro Opa, mi ritrovai davanti una folla di televisioni, di reporter, di microfoni. E io dissi: “I'll be back". Mi venne, non so bene perché, la celebre frase del generale MacArthur».Beh, la promessa di tornare la mantenne presto, perché da quel momento - lei all'epoca aveva circa 50 anni - rilanciò un'idea imprenditoriale e un marchio.«Ero giovane, avevo voglia e ambizione. C'era stata una trattativa con Leonardo Ferragamo che voleva comprare il Savoy a Firenze e desiderava che lo gestissi io, ma non andò subito in porto. Il primo albergo che comprai fu il Balmoral a Edimburgo. Poi la seconda operazione fu a San Pietroburgo, e molti pensarono che fossi impazzito per fare un investimento del genere in Russia in quel momento. Invece…».Da quel momento è stata una cavalcata.«In Italia il de Russie e il Savoy a inizio Duemila. Con un'idea: oltre alla posizione geografica dell'albergo, puntare su uno stile, fare una scelta diversa dagli alberghi di lusso tradizionali».Mi pare che, contro le logiche di omogeneità e ripetizione, la cifra stilistica dei suoi alberghi sia la differenza di ogni singola struttura, un tocco di arredamento specifico, singolarissimo, adatto al luogo dove ci si trova.«Questo si deve molto a mia sorella Olga, che ha sempre lavorato intensamente sulla parte dell'arredamento. Puntavamo e puntiamo sul design, su uno stile diverso per ogni posto, su una grande attenzione agli elementi locali, alle caratteristiche di quel posto. E poi sul servizio».In che senso?«La mia impressione è che negli alberghi di lusso vecchio stile il servizio fosse troppo pomposo, con i clienti trattati quasi dall'alto in basso. Noi invece abbiamo sempre voluto un servizio professionale, ma pure più intimo e amichevole. Ci siamo riusciti, ed è ciò che mi rende orgoglioso». Veniamo a questo 2020 maledetto. Ci si può riprendere, economicamente parlando, dalla botta del lockdown e dalla successiva crisi economica? «La prima cosa è cambiare la cultura e l'informazione che sono state alimentate, un'atmosfera da peste medievale. Un po' tutti i governi nel mondo (tranne la Svezia e in parte il Giappone) hanno purtroppo reagito così. Intendiamoci bene: ogni morte è un dramma, ci mancherebbe. Ma si è esagerato nella reazione e con le chiusure, a mio avviso. Vedo che ora anche in Germania un rapporto di un gruppo di esperti, che non avrebbe dovuto diventare pubblico, ha criticato la chiusura eccessiva e generalizzata».Lei ora che segnali vede? Si riesce a voltare pagina rispetto a questa atmosfera troppo cupa?«È sempre difficile per i governi in tutto il mondo ammettere di aver esagerato e forse sbagliato. Allora si tende ad alimentare la paura della cosiddetta seconda ondata, senza che ci siano evidenze scientifiche».In concreto, che cosa si può fare per il turismo e il settore alberghiero? «Ripeto, la prima cosa è un'informazione diversa. Certo, occorre proteggere gli anziani e i più deboli. Ma per il resto bisogna convincere le persone ad accettare una piccola quota di rischio, è la vita. Poi c'è da accelerare la questione dei voli internazionali: sa che per venire in Italia in questi giorni ho fatto molta fatica? Non c'erano molti voli».L'immagine dell'Italia come si può rilanciare? Si potrebbe immaginare un lavoro con testimonial stranieri pronti a dire: «Eccomi, vengo in Italia, voglio passare le vacanze da voi»?«Intanto bisogna spiegare che l'Italia non è stato il Paese più colpito. Nel Centro e al Sud di fatto non è successo nulla. Quanto ai testimonial, non è una cattiva idea, ma purtroppo in diversi Paesi c'è ancora la quarantena per chi parte e poi ritorna. Quindi molti non sanno ancora se potranno spostarsi e quando».Quindi lei insiste su un clima più disteso.«È stata una gioia vedere ieri questa terrazza piena di persone. Mi sono sembrate più rilassate, finalmente un po' di normalità. Penso che con un paio di settimane si possano incoraggiare le persone a uscire, a riprendere la loro vita».In tutti i settori imprenditoriali, ciò che le aziende dicono è: servono più soldi a fondo perduto in questo momento, altro che prestiti bancari. La decisione del governo italiano al riguardo è purtroppo molto limitata. Lei come la pensa? «Sì certo, ovviamente sarebbe importante. Si tratta però di trovare le risorse. Già prima del Covid l'Italia discuteva con l'Unione europea su uno 0,2%… Vedo che ancora i soldi europei non sono stati stanziati… Sa, nel Regno Unito è tutto più facile: hanno la loro moneta, hanno la loro banca centrale. Penso che alla fine il loro stanziamento sarà nell'ordine dei 300 miliardi di sterline».Dia ai decisori politici qualche consiglio. «L'Italia ha bisogno di un grande taglio di tasse, quindi di una politica economica espansiva. E poi di investimenti in infrastrutture. Si tratta di capire se si potrà fare o no».Che consiglio darebbe agli albergatori di fascia diversa dalla sua? «Guardi che anche nel lusso, tra gli alberghi a cinque stelle, ci sono molti piccoli imprenditori. Pensi alla Costiera amalfitana: è stata creata da tante realtà anche familiari. Questi imprenditori hanno capito l'essenziale: l'individualità del loro albergo, il fatto che i clienti non vogliono sempre la stessa struttura fatta con lo stampino, ma desiderano esperienze tutte diverse e particolari».