2022-05-14
Riscoperta del biricoccolo e dell’azzeruolo
Pennabilli (Rimini). «L'orto dei frutti dimenticati» in memoria di Tonino Guerra (Istock)
L’eredità di Tonino Guerra è «l’orto dei frutti dimenticati» di Pennabilli (Rimini), dove lo sceneggiatore e poeta ha recuperato i gusti dell’infanzia. La Romagna era dove ritrovava «il profumo della vita»: dalla vestale delle tagliatelle ai divoratori seriali.La Romagna era il suo mondo anche se il lavoro lo aveva portato in Paesi diversi. Una cucina della memoria, quella di Tonino Guerra, arricchita da episodi, aneddoti e leggende che hanno contribuito a renderla più viva che mai, senza retorica. Un esempio il salame matto, una goduria di avanzi diversi, in quella filosofia del «non si butta via niente» troppo spesso rimossa dalla memoria del tempo presente. Si assemblavano assieme avanzi di pane vecchio, formaggio, resti di lessi e salumi, un po' di noce moscata e qualche buccia di limone. Si avvolgeva il tutto in un panno legato e si metteva a sobbollire nel brodo. Dopo di che veniva tagliato a fette e messo a far companatico con il buon lesso della domenica. Tra le vare storie presenti nel suo arsenale di aneddoti Tonino si divertiva a citare il lesso di Giulio, un vicino di casa, di professione stagnino. Un menù senza fronzoli, che regolarmente gli preparava Gelda, la moglie devota. Tagliolini in brodo e l’immancabile lesso, con il quale doveva fare i conti con il gatto di casa. Altro evergreen della cucina guerresca le involtine della mamma, volutamente declinate al femminile, in omaggio alla regina del focolare. Fettine di fesa di vitello avvolte con prosciutto, cotte pazientemente nel tegame di terracotta con olio e conserva di pomodoro. Per non parlare della scalogna (ovvero lo scalogno romagnolo). Un prodotto dalle mille virtù. Un buon disinfettante naturale quando la conservazione del cibo non godeva ancora delle basse temperature frigorifere, ma anche utile quale «carica batterie», in quanto «le nonne lo mettevano dentro il mangiare in modo che l’uomo non fosse un fuoco di paglia quando la luna era alla finestra». Qua si sente la mano dello sceneggiatore vincitore di svariati David di Donatello e innumerevoli altri riconoscimenti. Non gli mancava la fantasia, anche in fatto di neologismi. Fu così che battezzò pianeti i formaggi di fossa di Sogliano «mi ricordavano piccoli pianeti sotterranei», e ambra invece il gemello di Talamello. «Ero reduce da un viaggio sulle spiagge del mar Baltico, l’acqua dai riflessi d’ambra per la resina che usciva dai pini sepolti sotto le acque», da qui l’analogia con il cromatismo del formaggio romagnolo. Si divertiva anche a disegnare le etichette del suo amato sangiovese. Celebre quella dedicata allo «Sburoun», una figura umana semplice e ironica presente nelle piccole comunità di collina. Tonino cominciò in età adulta a frequentare le osterie fuori porta. Fu molto legato alla Trattoria della Peppa, a Pennabilli. La regista dei fornelli aveva uno stile di fidelizzazione dei palati devoti assai singolare. Quando qualcuno metteva il naso in cucina era molto pratica «qua non c’è niente da mangiare». Tonino era particolarmente legato ai cannelloni con ragù e besciamella e alle lasagne al forno. Quando la Peppa venne a mancare e si abbassò la serranda per sempre, lo sceneggiatore di Antonioni le dedicò una lapide «Quasi per cent’anni il profumo della cucina della Peppa si mescolava all’aria della valle ed era il richiamo per forestieri golosi che avevano gli occhi pieni di mare». Altra tavola fidelizzata da Zaghini, a Sant’Arcangelo. Era il regno di Lucia Velia, considerata la vestale delle tagliatelle, di cui andava pazzo Marcello Mastroianni. Talmente perfezionista che se le pareva di aver sbagliato qualcosa con il mattarello era capace di ricominciare da capo con uova e farina. Qui venivano a staccare la spina Giuseppe Tornatore, Ugo Tognazzi, Renato Pozzetto, tanto che, un giorno, le fecero una sorpresa assegnandole l’Oscar della tavola. Una cucina che, parola di un altro romagnolo verace, il gastronauta Davide Paolini, meriterebbe non una, ma almeno due stelle gommate. Una collaborazione ben oltre i fornelli quella con l’imprenditore Manlio Maggioli. Nasce così la Sangiovesa, a Sant’Arcangelo, un locale posto dentro un palazzo rinascimentale. Qui Guerra scatenò il talento eclettico, di arredatore, artista, architetto. Ogni sala diversa dall’altra. Lo ha ricordato così, con parole impresse sulla pietra, il suo collega dopo la scomparsa nel 2012. «La Sangiovesa è stata riempita della fantasia, le invenzioni, la generosità di Tonino Guerra che amava questo luogo dove si mangia anche con gli occhi e si ritrovano i sapori e i profumi dell’infanzia e di questa terra». Una Romagna felix dalle mille tentazioni che coinvolgevano quanti, nel mondo dello spettacolo, salivano fin quassù. Anche se Tonino era un goloso moderato. Ne sapeva qualcosa Renato Pozzetto, che a tavola viaggiava con l’acceleratore a manetta. Spesso, quando vedeva che il boccone alla forchetta era fuori misura, Tonino lo bloccava quando il nostro era oramai con la salivazione a mille. Ma c’è sempre il tempo della rivalsa. Fedele alla sua terra, Tonino Guerra si prese qualche licenza, come quella volta a Roma, ospite del ferrarese Michelangelo Antonioni, che volle a tutti i costi fargli provare la salama da sugo. Questo poi annotò nel suo diario di bordo. «Per i suoi forti sapori e afrore di spezie ho sempre avuto l’impressione che fosse la salama a mangiare me, e non io lei… mi aveva posseduto al punto che, per qualche momento, mi sono sentito un ferrarese bastardo». Immaginarsi l’espressione soddisfatta di Antonioni. A proposito di divoratori seriali uno dei grandi classici con cui Tonino Guerra amava intrattenere i suoi compagni di spizzichi e bocconi era tale Brusaporci, nella vita precedente capitano di navi mercantili. Ne tratteggiava la figura con accenti che ricordavano il miglior Fellini. Si aggirava con cappellaccio e tabarro d’ordinanza «con taglie abbondanti tali da prevedere ed accogliere adeguamenti di volume della pachidermica corporatura». Spettacolare la cronaca in diretta delle sue performance, ben registrata da Graziano Pozzetto. «Aveva un metabolismo a prova di bomba, con una produzione di biogas degna di una moderna porcilaia», con emissioni orali «tonanti, da rinoceronte, che accompagnavano come una banda musicale le sue performances» con il gran finale in diretta, senza filtri «chinato sul tavolo dell’osteria, con un russare quasi musicale, intervallato a fischi, soffocamenti, spostamenti improvvisi della faccia, realizzando uno spettacolo imperdibile per chi si riuniva attorno». Ma Tonino Guerra, come tutti i maestri senza tempo, ha voluto lasciare un’eredità al mondo, che non sono solo le sue innumerevoli opere in arti diverse. Gli ultimi anni della sua vita li ha voluti passare a Pennabilli, legato ai ricordi d’infanzia. Qui si trova l’orto dei frutti dimenticati, avviato nel 1990, ovvero il recupero di quelle piccole coltivazioni della sua Romagna che rischiavano di andare perdute, per sempre. Era stato per secoli l’orto di un convento poi abbandonato. Qui si può trovare il biricoccolo, una susina blu dalla buccia vellutata come l’albicocca, oppure l’azzeruolo, piccole bacche rosse dai sentori di mela. L’idea gli venne assaggiando una piccola pera che lo sbalordì per i sentori quasi di un limone. Quando l’agronomo gli spiegò la sua vera natura, la riflessione conseguente «siamo talmente abituati ai prodotti moderni, ricchi d’acqua» (per fare velocemente peso, vuoi mai) «che i profumi e i sapori si squagliano in bocca» senza identità. «Il profumo della vita» è anche questo, e non solo un fortunato jingle che ha contribuito a rendere immortale la figura di Guerra Tonino.
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