2018-04-04
Il piano di Renzi per risorgere (fregando i voti a Forza Italia)
In una riunione segreta con i fedelissimi l'ex premier ha dettato la linea: me ne frego del governo, rinasceremo alle europee 2019. Primo passo l'addio ai socialisti europei, poi virata al centro tentando di nuovo l'Opa sui moderati. Con il Ppe o Macron? Si vedrà, di certo puntando a svuotare gli azzurri.I presidenti delle Camere e i capigruppo, il segretario dimissionario del Partito democratico ha riunito i fedelissimi al Bernini Bristol di Roma, l'unico «cinque stelle» che gli va a genio. Nell'albergo di lusso dell'amico Bernabò Bocca, ad ascoltare Renzi c'erano il neo vicepresidente della Camera, Ettore Rosato, l'amico di sempre Luca Lotti e poi tutti i principali esponenti dell'ala «lealista» del Nazareno. Assente (giustificata, pare) soltanto Maria Elena Boschi. Chi pensava che Renzi fosse depresso, come a dicembre del 2016, quando la disfatta del referendum gli fece perdere Palazzo Chigi, è rimasto piacevolmente sorpreso. A parte qualche battutaccia sui «traditori», ovvero gli esponenti del Pd che sarebbero pronti a «tradire il risultato delle elezioni» andando a offrirsi come stampelle a un governo «di chi ci odia» come il Movimento 5 stelle, Renzi ha mostrato di avere strategie di breve e medio periodo. Chi c'era racconta che ha così riassunto la partita del governo: «Non ci riguarda, noi stiamo all'opposizione. E se qualcuno la pensa diversamente, si accomodi perché tanto abbiamo saldamente in pugno i gruppi parlamentari». E senza citarlo espressamente, Renzi ha fatto capire che c'è ancora un asse con Silvio Berlusconi e Forza Italia che, alle brutte, è in grado di far saltare parecchi giochi. Come le nomine nelle autorità di garanzia e al Consiglio superiore della magistratura, tanto per fare qualche esempio di poltrone che spesso contano come e più di un ministero. Ma poi, questo il ragionamento renziano più sorprendente, «per noi sarebbe un errore concentrarsi sulle contingenze e perdere di vista il nostro vero obiettivo». Un rapido ritorno al voto, come accadrebbe nel caso in cui il presidente Sergio Mattarella non vedesse alcuna maggioranza stabile in grado di sostenere decentemente un governo? No, ecco la sorpresa è che per Renzi il voto italiano conta poco. «Dobbiamo guardare alle elezioni europee della prossima primavera e prepararci al meglio, perché la nostra prima, autentica, riscossa sarà quella», ha detto l'ex premier a chi lo stava ascoltando. Il suo piano è questo: Matteo Salvini, Luigi Di Maio e chi ne ha voglia si danni pure l'anima per formare un governo e provare a tirare a campare con l'incubo di qualunque voto di fiducia; Renzi e il suo partito verranno rivalutati dall'elettorato «che aprirà presto gli occhi» e lo farà a maggio del 2019.Certo, in questa suggestione, pesa anche una certa auto poetica renziana (lui direbbe «narrazione») del grande trionfo personale messo a segno alle Europee del maggio 2014, quando il Pd raccolse oltre il 40% dei consensi. Adesso che è sprofondato al 18% tocca inventarsi qualcosa di nuovo perché non è detto che tutti i cerchi si chiudano ma un qualcosa di nuovo, va detto, Renzi ce l'ha eccome in mente. Ai fedelissimi del Bernini lo ha detto chiaro e tondo, lasciandoli leggermente basiti: «È chiaro che se non vogliamo essere spazzati via, non possiamo che uscire dal Partito socialista europeo», dipinto come un malato grave e una mezza garanzia di sconfitta. Questa storia del mollare i socialisti europei non ha convinto proprio tutti i renziani, che si ricordano i toni trionfalistici con i quali lo stesso Renzi annunciò il sodalizio nel 2014. Alcuni temono che mollare il Pse a soli quattro anni dall'adesione possa rivelarsi una mezza figuraccia, un segnale di inaffidabilità tipicamente italiana. Ma Renzi in questo è percepito dai suoi come un leader vero, capace di prendere dei rischi in prima persona. E poi, nel summit alle spalle di via Veneto, è stato molto attento a non sbilanciarsi sulla strada da imboccare dopo l'addio agli eurocompagni. Da una parte ha fatto capire che il Ppe, dove risiede ancora Forza Italia, sarebbe anche una destinazione naturale, anche perché Renzi è convinto che di qui a un anno di Fi rimarrà ben poco e di Silvio Berlusconi ancor meno perché la Lega di Salvini ha un altro passo. Certo, ci saranno i voti azzurri da raccogliere. Dall'altra non ha smentito che il progetto di seguire anche in Europa il premier francese Emmanuel Macron, e la sua marcia un po' centrista e un po' terzista, possa alla fine risultare quello più in linea con il nuovo Pd. In ogni caso, se la rotta di Renzi è ormai decisa, restano alcuni aspetti a dir poco singolari. Il primo è che bisognerebbe fare un monumento a Giuseppe Fioroni, che nel 2014 fu l'unico a opporsi all'entrata del Pd nella famiglia del socialismo europeo. Ma andrebbe reso onore anche al renziano Matteo Richetti, che alla fine si astenne, ma non prima di affermare pubblicamente che era «un passo indietro» e «la fine di un'ambizione». I tempi, però cambiano, e quel furbone di Sandro Gozi, in un colloquio con Il Foglio del 22 marzo scorso l'aveva detto chiaro: «Vogliamo riformare l'Europa in marcia con Macron e i nuovi progressisti, come Albert Rivera in Spagna. Di fronte a una socialdemocrazia classica che è sempre più in difficoltà e deve reinventarsi, il progressismo di En Marche! deve essere un riferimento per la ripresa del cammino del Pd». Se poi a uscire dal Pse sarà il Pd, o solo Renzi e i renziani con un nuovo partito, è un'altra storia.
Jose Mourinho (Getty Images)