
Il social network chiude 23 pagine su indicazione dell’Ong Avaaz. I dem esultano: «Senza fake news come sarebbero andate le elezioni?». L’ex premier chiede la commissione d’inchiesta. Ma gruppi milionari privati possono vigilare sull’informazione?«Contenuti divisivi contro i migranti». Una delle motivazioni con cui, su indicazione della Ong Avaaz, Facebook ha chiuso 23 pagine in Italia è legata alla presenza di questo tipo di argomenti, da esse veicolati.Già una frase di questo tipo, tratta dal comunicato stampa di Avaaz (non esattamente un gruppo di sprovveduti volontari), dovrebbe far sollevare un sopracciglio, o almeno far dubitare del tono tra il conciliante e il soddisfatto con cui media e politica paiono aver accolto la notizia dello «spegnimento» delle pagine.Prima però è giusta una premessa. La diffusione massiccia di bugie consapevoli attraverso mezzi di comunicazione cosiddetti disintermediati, cioè fuori da un codice di senso, da criteri di verificabilità condivisa, è un problema reale delle nostre democrazie, a maggior ragione se questa diffusione nasce con espliciti intenti di influenza sul voto. Fatta questa premessa, c’è un «però» grande come una casa. Da Eva che mentì ad Adamo fino alle leggendarie scarpe promesse da Achille Lauro, le balle si dicono in ogni ordine e grado, e quella forma meno smaccata di menzogna che passa con il nome di propaganda è una cosa legittima. E in sé legale. Come accettare senza un plissé che, su segnalazione di un’organizzazione privata milionaria, un’organizzazione privata miliardaria sancisca la legittimità o meno di un flusso di comunicazione in assenza di un vaglio di un’autorità giudiziaria del nostro Paese? Questo a prescindere dal fatto che, obiettivamente, molte delle pagine segnalate abbiano indubbiamente divulgato falsità. Con che criteri si interviene? Che controllo democratico è possibile ottenere in merito a questi criteri? Bisogna fidarsi perché lo fanno per il nostro bene?Non sono domande oziose. Il possibile rimbalzo politico della vicenda Facebook (il cui peso elettorale è impossibile da calcolare, così come è impalpabile l’effetto delle fake news) è evidente. Ieri, per esempio, il dem Luigi Marattin notava: «Il Pd ha perso il 4 marzo per errori politici e guerre interne. Punto. Tuttavia ieri Facebook ha chiuso pagine con 2,4 milioni di follower che veicolavano fake news per M5s (10,7 milioni di voti) e Lega (5,7). Interessante sapere come sarebbe andata se fossero state chiuse prima». Il suo ex leader, Matteo Renzi, in partenza per Seul, ha dedicato parte della sua e-news allo stesso caso, giudicato «un grande passo avanti ma ancora del tutto insufficiente. Facebook diventerà un posto civile solo quando ciascuno potrà commentare solo con il proprio nome e cognome, non nascondendosi dietro a profili falsi e pagine finte. Nel frattempo credo che sarebbe interessante capire come i social hanno inciso nelle ultime campagne elettorali e nel clima d’odio che cresce nel nostro Paese». L’ex premier ha ribadito un’accusa pesante: «Per me la Lega ha usato parte dei 49 milioni di euro che deve restituire allo Stato per creare la macchina della propaganda su Facebook». Che un partito usi i rimborsi elettorali per pagarsi la propaganda pare, in effetti, piuttosto normale. Ma il passaggio che si crea è efficace e immediato: ci sono formazioni che rubano i soldi, li spendono in fake news, e senza le fake news non ci sarebbero stati la Brexit, Donald Trump e altri spiacevoli «incidenti di percorso» tra cui, in questa prospettiva, l’attuale incerto governo italiano.Qui la faccenda si fa più complessa. È difficile non notare il tempismo sospetto con cui si è passati dal magnificare l’immensa macchina social messa in piedi nella prima elezione di Barack Obama, descritta come un gioiello in grado di mettersi in contatto diretto con ogni singolo elettore, a tacciare di circonvenzione di incapace l’uso della stessa pratica, poi divenuta comune a tutte le latitudini politiche. Così alimentando l’illusione che, non ci fossero queste forze oscure in azione, tutto andrebbe secondo i piani. Non è un caso che Emmanuel Macron, alfiere globale della lotta ai cosiddetti populismi, abbia appena ricevuto - dopo Mark Zuckerberg - la premier neozelandese per discutere del ruolo dei social network nel bloccare i messaggi di odio dopo la strage nella moschea di Christchurch.La strada che i maggiori responsabili delle democrazie liberali propongono per resistere al presunto assedio populista è infatti un’intesa - mediata dalla leva fiscale - con i colossi del Web. In ossequio alle linee guida dell’Ue, per esempio, l’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando aveva stilato un elenco di Ong europee cui affidare il compito di spazzini della Rete, segnalando a Facebook & C. i contenuti da eliminare. È un quarto grado di giudizio che salta i primi tre e agisce più in fretta. È quello che il politologo Lorenzo Castellani ha chiamato efficacemente «tecnopopulismo», cioè l’alleanza tra pulsioni tecnocratiche e messaggi imbonitori, tipici dei «populisti». Una crasi che fonde l’inquietudine per l’algoritmo che invade la politica e la demagogia che si vorrebbe combattere, ma con armi identiche. Il problema sottostante è: siamo sicuri che Zuckerberg, Avaaz e gli altri, schierino questo armamentario d’emergenza perché sono buoni e preoccupati per le democrazie? Caduta l’illusione per cui il Web è territorio libero, senza vincoli, le prime reazioni sembrano dare ragione a George Orwell, che in una lettera esplicativa su 1984 diceva al destinatario: «Gli intellettuali hanno una tendenza totalitaria più marcata rispetto alla gente comune. La maggior parte di loro è perfettamente pronta ai metodi dittatoriali, alla polizia segreta, alla sistematica falsificazione della storia, eccetera, almeno fino a quando pensano che ad attuare queste cose sia la “nostra” parte».
Robert Redford (Getty Images)
Incastrato nel ruolo del «bellone», Robert Redford si è progressivamente distaccato da Hollywood e dai suoi conformismi. Grazie al suo festival indipendente abbiamo Tarantino.
Leone XIV (Ansa)
Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.