2023-09-29
Regeni, la Consulta è ad personam
In attesa delle motivazioni, la scelta della Corte di riaprire il processo per l’omicidio è «rivendicata» come un provvedimento «ad hoc»: l’opposto esatto del suo compito.Alcuni imputati sono meno uguali degli altri. In attesa della pubblicazione della sentenza della Corte costituzionale sul cosiddetto caso Regeni, l’impressione difficile da togliersi è esattamente questa. Vista la delicatissima complessità del procedimento in corso, vale la pena un breve riassunto di cronaca. Giulio Regeni, dottorando italiano a Cambridge, scompare il 25 gennaio di sette anni fa al Cairo, dove si trovava per ricerche presso l’Università americana della Capitale egiziana.Il 3 febbraio il suo cadavere, sfigurato e con plurimi segni di tortura, viene rinvenuto in un fosso lungo la strada per Alessandria. Un fascicolo sulla morte del ragazzo viene aperto presso la Procura di Roma: vengono iscritti quattro membri della National security agency del Paese africano. A fine 2020 la chiusura delle indagini preliminari prelude al rinvio a giudizio degli agenti dei servizi. L’Egitto non fornisce gli indirizzi di residenza degli imputati e si oppone alle rogatorie chieste dalla nostra Procura: pertanto, come prevedono le nostre norme e come certificano Appello e Cassazione, il processo non può avere inizio in quanto non è possibile effettuare le notifiche. Il gup e il procuratore di Roma si rivolgono a questo punto alla Corte costituzionale, che dopo tre sofferti giorni, come spiegato ieri su queste colonne, emette un comunicato in cui dichiara «l’illegittimità costituzionale dell’art. 420-bis, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura».Cosa significa? In attesa di leggere la sentenza (che nei fatti sembra più un provvedimento, il che già è quantomeno curioso), l’impressione è che la Corte abbia ritagliato su misura per il «caso Regeni» una fattispecie di sospensione temporanea delle garanzie per l’imputato, consentendo la prosecuzione di questo (e solo questo) processo: in sostanza, l’esatto opposto di un intervento generale che si suppone essere la ratio della Consulta stessa. A confermare questa impressione è un’intervista, dal tono festevole, apparsa su Repubblica di ieri. Il quotidiano dedicava l’apertura e le prime pagine alla faccenda, corredandole con un colloquio con il professor Gian Luigi Gatta, già consigliere giuridico dell’ex ministro della Giustizia Marta Cartabia, come noto presidente emerito della Consulta stessa. Con commendevole sprezzo del pericolo, Gatta esulta: «Dalla Consulta una sentenza ad regenim, e ben venga perché consente di proseguire il processo in Italia. Senza, lo stop sarebbe stato definitivo». Qui la curiosità del lettore fa un salto quantico e diviene sconcerto, perché viene spiegato che il comma dichiarato incostituzionale era stato riscritto dalla stessa Cartabia. «Attenzione», spiega Gatta, «la Corte non ha dichiarato incostituzionale la regola sul processo in assenza introdotta da Cartabia, che ha carattere generale. Ha scritto una regola ad hoc per il caso Regeni, consentendo di proseguire il processo in Italia». Occorre rileggere tre volte per essere sicuri, ma è proprio scritto così: Repubblica, che non troppo tempo fa esultava quando la Consulta stroncava le leggi ad personam ritenute pro Berlusconi sta manifestando gaudio sfrenato per una legge ad personam scritta non dal Parlamento ma dalla Corte costituzionale, il cui compito diventa così rivendicatamente politico e «particolare». Peraltro la Corte si attribuisce questa funzione da legislatore dichiarando incostituzionale una parte di una legge riscritta da un ministro che ha guidato la stessa Corte fino a poco prima. Dice Gatta: «Cartabia non poteva scrivere una legge ad personam - ad regenim - per quanto in bonam partem. Lo ha fatto la Corte». In pagina appare un virgolettato della stessa Cartabia: «Mi pare che la Corte abbia fatto una sentenza “additiva”, creando una regola ad hoc. Spero sia di sollievo ai genitori».E qui veniamo al cuore del problema. Claudio e Paola Regeni meritano solo rispetto per la coraggiosa scelta di esposizione pubblica e civile di una battaglia per ottenere giustizia sullo scempio immondo fatto sul corpo del figlio, in circostanze tuttora oscure. Tuttavia dovrebbe essere ancora possibile trovare uno spazio di raziocinio per osservare, senza mancare di compassione per due genitori straziati, che il loro sollievo non può essere il fine di un organo di garanzia costituzionale. Esattamente come non può esserlo l’equilibrio geopolitico del Paese (è probabile infatti che la prosecuzione del processo rappresenti una grana per l’esecutivo).Il punto, sempre in attesa delle parole della sentenza, è l’abbassamento arbitrario delle garanzie per reati gravi, per quanto limitato di fatto a questo processo: accade che, siccome il reato è grave, l’imputato ha meno garanzie. Peggio ancora: intanto la garanzia è tolta e gli imputati sono processati in assenza. E poi? Se venissero in futuro notificati loro gli atti? Si riprocessano da capo? Il rischio di un pasticcio pare elevato.Certo, dopo il fiato dato alle trombe della festa per la giustizia in marcia sui carnefici di Giulio Regeni grazie a una sentenza simile sarà un po’ più difficile rimproverare, citando i patri costituenti, il «panpenalismo» delle iperdecretazioni del governo (rave, immigrati, eccetera), perché l’esempio fornito dalla Corte ha dell’incredibile. Toghe supreme e politici ricordano sempre più il finale della Fattoria degli animali di George Orwell: tra mediatizzazione degli atti e finalità esplicite, distinguere gli uni dagli altri diventa sempre più complicato.
Chiara Appendino (Imagoeconomica)