2025-10-19
La Appendino sbatte la porta, il M5s trema
Chiara Appendino (Imagoeconomica)
L’ex sindaco di Torino si dimette da vicepresidente: «Questa è e resterà sempre la mia casa, per suo amore rinuncio all’incarico. Solo con le mani libere e una forte identità possiamo cambiare le cose». Ma c’è chi maligna: «Una mossa per anticipare Conte».«Le dimissioni di Chiara Appendino non cambiano il destino di un Movimento 5 stelle ormai snaturato e politicamente finito, ma hanno almeno il merito di rompere il silenzio. Il vero punto è un altro: il Movimento è stato svuotato quando Giuseppe Conte ha cancellato Beppe Grillo dallo statuto e lo ha spostato stabilmente nel campo del centrosinistra, trasformandolo in un partito come tutti gli altri»: per comprendere la gravità delle condizioni in cui versa il M5s, basta constatare che l’analisi più lucida sulle dimissioni di Chiara Appendino da vicepresidente (ma precisando che «il M5s è e resterà sempre la mia casa politica, per suo amore rimetto l’incarico»), ufficializzate ieri, è opera di Danilo Toninelli, indimenticato e indimenticabile ministro delle Infrastrutture ai tempo del governo Lega-M5s. «Il gesto di Appendino», sottolinea Toninelli, «arriva tardi, ma conferma che qualcosa dentro il M5s si è rotto e che molti non si riconoscono più nel progetto personale di Conte. Ora bisogna dirlo con chiarezza: questa creatura non è più il M5s. L’unica scelta onesta è restituire il simbolo e la storia al suo fondatore Beppe Grillo, perché solo lui può decidere se dargli una fine dignitosa». La Appendino aveva annunciato il suo dissenso rispetto alla linea di Conte, «troppo appiattita sul Pd». Ieri ha precisato: «Solo un Movimento 5 stelle con le mani libere, con una forte identità, può essere davvero parte di un fronte progressista capace di cambiare le cose e battere la destra di Meloni». E viene da ridere considerato che i dem che criticano Elly Schlein lo fanno argomentando che il Pd sarebbe troppo appiattito su Conte. La realtà, triste ma incontrovertibile, è che a furia di appiattirsi l’uno sull’altro il Pd e il M5s sono diventati due sogliolette elettorali, e che il sogno di costituire un’alleanza che possa essere competitiva con il centrodestra alle prossime politiche si trasforma giorno dopo giorno e urna dopo urna in un miraggio: «Stiamo diventando», dice alla Verità un parlamentare pentastellato che la pensa come la Appendino, «un cespuglietto del Pd. Il 25 novembre, dopo le elezioni in Veneto, Campania e Puglia, ci vorrà una spietata analisi del voto, considerato i risultati ridicoli che abbiamo ottenuto in Toscana, Marche e Calabria. Col Pd siamo distanti su troppi temi, il nostro elettorato rifiuta questa alleanza, bisogna prenderne atto». Ok, ma se vi dividete alle politiche non avete scampo… «Non abbiamo scampo nemmeno uniti», aggiunge il nostro interlocutore, «il campo largo è solo una somma di numeri ma non di contenuti. Se ci presentiamo alle elezioni alleati di Schlein e Renzi quel poco di consenso che ci resta evaporerà come neve al sole. Dobbiamo riprendere i nostri temi identitari, altrimenti per noi è finita». Intanto è quasi finita: l’unica speranza del M5s, pensate un po’ il dramma politico, è riposta infatti in Roberto Fico. Solo una vittoria alle regionali in Campania dell’ex presidente della Camera potrebbe dare un po’ di ossigeno a Giuseppe Conte, il quale neanche si capisce bene cosa voglia fare da grande: il vassallo del Pd? Il candidato premier passando per le primarie? La sua strategia resta un mistero, e neppure buffo: l’avvocato del popolo verrà riconfermato a capo del M5s la prossima settimana, unico candidato, e sceglierà i suoi vice (circostanza che fa malignare qualcuno: «La Appendino si è dimessa perché già sapeva che non sarebbe stata riconfermata», sussurra un malizioso esponente di spicco dei pentastellati). Riconfermato presidente, ma con quale mandato? Quello di commissario liquidatore di una esperienza politica ormai alla frutta, o con l’obiettivo di rinvigorire il M5s? La seconda ipotesi appare francamente utopistica: il M5s è nato come movimento trasversale, né di destra né di sinistra, Beppe Grillo trascinava folle, Gianroberto Casaleggio dipingeva il futuro, e le urne restituivano risultati di tutto rispetto, fino al 32% del 2018, primo partito italiano. Sembra passato un secolo: ora il M5s in doppia cifra non ci arriva praticamente mai, ed è tra l’altro un partito che ha un profondissimo squilibrio di consensi tra i Nord e il Centro, dove praticamente appesa esiste, e il Sud, dove ancora conserva un discreto bacino elettorale. E torniamo a Roberto Fico: una sua sconfitta in Campania significherebbe la morte politica dell’attuale centrosinistra. Se il centrodestra a guida Edmondo Cirielli dovesse prevalere, Elly Schlein e Giuseppe Conte dovrebbero dimettersi la sera stessa. Dunque meglio turarsi il naso che tirare le cuoia, e così Fico, pur assediato dalle polemiche del suo elettorato, si è alleato con Clemente Mastella, Vincenzo De Luca, Matteo Renzi e tutti quelli che fino a qualche mese fa il M5s criticava (eufemismo) ogni 5 minuti. Del resto, che gli vuoi dire, a «Robertino caggia fa», come lo etichettò Beppe Grillo? Lui ci prova a far trapelare sui quotidiani locali qualche dissenso, ad esempio per le ultime nomine deluchiane, ma neanche può segare il ramo sul quale è seduto: così si barcamena, un colpo al cerchio e uno alla botte, si affida al sindaco di Napoli Gaetano Manfredi, maestro della mediazione, e incrocia le dita sperando che la coalizione che lo sostiene riesca a sopperire alle evidenti lacune politiche dell’alleanza con i risultati dei portatori di voti (o cacicchi, fate voi).
La sede della Corta penale internazionale dell’Aia (Ansa)
Volodymyr Zelensky (Getty Images)