I dati della Corte dei conti dimostrano che gli accertamenti sintetici, nelle varie forme che si sono susseguite negli anni, hanno portato a incassi minimi. Urge voltare pagina per modificare il rapporto Stato-contribuenti.
I dati della Corte dei conti dimostrano che gli accertamenti sintetici, nelle varie forme che si sono susseguite negli anni, hanno portato a incassi minimi. Urge voltare pagina per modificare il rapporto Stato-contribuenti.Tanto rumore per nulla, o poco più di nulla. Perché quando si parla di redditometro il piatto per lo Stato piange, da sempre, a conferma della natura residuale di una norma che spaventa molto ma che morde poco. E che, in ogni caso, risponde a una logica del rapporto Stato-contribuente che sarebbe bene mandare definitivamente in soffitta.I numeri sono impietosi. La serie storica che ogni anno la Corte dei conti riporta nella relazione sul rendiconto generale dello Stato ci mostra una certa vivacità nei primi anni di applicazione post riforma voluta dal governo Berlusconi nel 2010 (nel 2011 ci furono 36.304 accertamenti con un incasso di 188 milioni) e un lento declino, fino a raggiungere i 352 casi del 2022 che hanno prodotto un incasso di 300.000 euro.Fu proprio la Corte dei conti già nel giugno 2015 a rilevare l’enorme differenza tra obiettivi e risultati, facendo notare che «dopo le modifiche introdotte dal dl numero 78 del 2010 al nuovo accertamento sintetico era stato collegato un maggior gettito per 741,2 milioni nel 2011, 708,8 milioni nel 2012 e 814,7 milioni nel 2013. […] Alla luce dei modesti e decrescenti risultati quantitativi conseguiti in questi anni e dei marginali introiti finora conseguiti (gli 8.678 accertamenti sintetici effettuati nel 2011 hanno dato luogo, fino al 31 dicembre 2014, a entrate per 188 milioni di euro), si può ritenere che l’accertamento sintetico del reddito complessivo Irpef conservi tuttora, nella strategia dei controlli fiscali, quel carattere complementare e di chiusura del sistema che già gli era proprio prima della modificazione legislativa del 2010».In poche parole, la montagna ha costantemente partorito un topolino. Data l’innegabile evidenza di una sequenza di incassi che si sono misurati, nel migliore dei casi, in decine di milioni, rispetto a previsioni di 700/800 milioni. Il redditometro (accertamento sintetico, per gli addetti ai lavori) esiste dalla riforma tributaria del 1973. La modifica del 2010 aveva l’obiettivo di rivitalizzarlo e di togliergli certi caratteri di barbarie giuridica che rendevano praticamente impossibile per il contribuente opporre una prova contraria alle presunzioni di reddito formulate dall’amministrazione finanziaria. Ma, dal 2014 in poi, gli accertamenti si sono sostanzialmente dimezzati anno dopo anno, di pari passo con gli introiti. A nulla è servito il decreto ministeriale del 2015, durante il governo Renzi. Quel decreto - dello stesso tipo di quello «sospeso» in questi giorni - aveva l’obiettivo di definire parametri relativamente certi entro i quali il Fisco poteva induttivamente trasformare fatti segnaletici di capacità contributiva in reddito presunto da imputare al contribuente. Il risultato fu comunque un crollo degli accertamenti, probabilmente imputabile anche al fatto che il decreto, bene o male, comunque poneva dei limiti al potenziale arbitrio del Fisco.Poi nel 2018 arrivò il governo Lega-M5s guidato da Giuseppe Conte che inflisse il colpo finale, abrogando il decreto del governo Renzi e depotenziando molto la concreta efficacia dello strumento del redditometro. Infatti, la norma primaria (commi da 4 a 8 dell’articolo 38 del Dpr 600/1973) non ha mai cessato di esistere ma, per funzionare pienamente, ha bisogno di un decreto ministeriale che specifichi quali siano i cosiddetti «fatti indice» di capacità contributiva, alcuni dei quali elencati nella tabella. Da allora, per sei anni, la norma è stata sostanzialmente dormiente, con il 2019 ultimo anno degno di nota con 1.850 accertamenti e 4,9 milioni di incassi. Una delle cause del declino è quella del progressivo stratificarsi di sentenze che, da un lato, hanno posto dei limiti all’intrusione del Fisco nella privacy del contribuente e, dall’altro, hanno messo in discussione proprio il ragionamento induttivo.Per avere un’idea dell’esiguità del peso dell’attività accertatrice da redditometro, basti pensare che nello stesso 2019 sono stati eseguiti 267.000 accertamenti con tutti gli altri metodi previsti dall’ordinamento, con una maggiore imposta accertata di 5,9 miliardi. E siamo a queste ultime convulse giornate. Il viceministro Maurizio Leo ha sostenuto che la presenza di un decreto serve a disciplinare il funzionamento di una norma senza la quale il redditometro funzionerebbe comunque, ma senza paletti. Ma è un argomento solo in parte fondato. Infatti, se la strategia in materia del governo è quella del «Fisco amico», mantenere in vita uno strumento, seppure come norma di chiusura residuale, che si fonda sullo Stato di polizia fiscale è un errore strategico.Aveva forse senso nel 1973 (ancor meno nel 2010) quando il Fisco era privo di informazioni e cercava di giungere al reddito del contribuente per vie traverse. Ma, dopo 50 anni, con il pieno accesso ai conti correnti, con la costante tracciabilità di ogni spesa, il Fisco non ha bisogno di presunzioni, peraltro generate da complessi algoritmi per conoscere il reddito. È comprensibile che al Mef ci sia il sogno di lasciar fare tutto agli algoritmi e ribaltare sul contribuente l’onere della prova e così abbiano spinto a favore del decreto, inorgogliti dalla raffinatezza delle segmentazioni delle tipologie di spesa e delle famiglie tipo consumatrici. Ma oggi ci sono tutti gli strumenti per scovare analiticamente redditi non dichiarati e imputarli al contribuente, senza necessità di ricorrere all’inversione dell’onere della prova. Che un elementare principio di civiltà giuridica vuole che sia a carico dello Stato. Il prossimo passo non può che essere l’abrogazione dell’accertamento sintetico, tout court.
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