2025-06-21
Quella volta che dei meloni «uccisero» il Papa
Meloni (iStock). Nel riquadro, papa Paolo II
Il dolce frutto della pianta della famiglia delle cucurbitacee può essere retato, liscio o serpente. Veniva mangiato già nella Magna Grecia, Marco Aurelio lo accompagnava con il prosciutto. Paolo II era così ghiotto che ne divorò tre e poi morì (per la congestione).A prima vista lo diresti un cetriolo esageratamente cresciuto. Si mangia come un cetriolo, crudo in insalata. Ha le stesse venature verdi del cetriolo e appartiene alla stessa famiglia, le cucurbitacee. Ma non è un cetriolo. È un melone. Il melone serpente. È chiamato così per la lunghezza - arriva anche al metro e mezzo e più - e per le curve e controcurve sinuose di certi esemplari. Il melone serpente si crede un ortaggio, si comporta da ortaggio, si fa mangiare come un ortaggio, ma è un frutto. Paranoico, ma frutto. È fratello dei vari meloni sferici che in questo periodo dell’anno ci deliziano con la loro polpa dissetante o recitano da protagonisti in piatti estivi, leggeri ma gustosi. Il melone serpente porta lo stesso nome scientifico, Cucumis melo, dei parenti: il retato, il cantalupo, il gialletto a buccia liscia.Il melone serpente è un frutto antico. L’albero genealogico vanta parenti illustri lontanissimi nel tempo, coltivati e apprezzati in Sardegna ai tempi della civiltà nuragica (3-4.000 anni fa) e ai tempi della Magna Grecia quando il Sud d’Italia colonizzato da Achei, Ioni, Dori pullulava di filosofi, matematici, storici, artisti e di guerrieri con il fisico dei Bronzi di Riace. I meloni discendenti di quei «serpenti» tanto apprezzati allora, sono ancora in commercio e tuttora tenuti in pregio nelle Regioni del Sud, soprattutto in Puglia dove sono chiamati tortarelli, ma anche in Sicilia dove li chiamano cetrangoli. Un proverbio trinacrio spudoratamente maschilista recita: fimmina bona è comu li muluna, ’ntra centu ci nn’è bona una. Non c’è bisogno di traduzione. Li si affetta e si condiscono nell’insalatiera come 2.500 anni facevano metapontini, sibariti, crotonesi, locresi, siracusani.In questo articolo, s’è capito, parliamo di meloni con la «m» minuscola. Questi non sono meloni politici. L’unica ideologia che questi panciuti signorotti della gastronomia estiva praticano con successo è il gusto. Il melone che ci disseta nella stagione dei bollori è, nella maggior parte delle varietà, un retato o un cantalupo, nome prestato al frutto dalla cittadina in provincia di Rieti dove viene coltivato. Sono meloni sferici, polputi come le ciccione di Fernando Botero, pittore e scultore colombiano di taglia extraforte.L’atlante del melone italiano è ricco di siti: Casteldidone (Cremona), Viadana e Sabbioneta, nel Mantovano, Erbè, paesotto del Basso veronese dove i meloni, amabili, di profumo intenso, polpa morbida e dolce, color arancione, hanno trovato il loro angolo di paradiso. Ottimi i meloni siciliani e quelli sardi. Buonissime le rospe (o zatte) d’Emilia, Regione dove si coltivano da sei secoli, meloni brutti da vedere per la buccia cosparsa di verruche come un adolescente pustoloso, ma dolcissimi. Due rospe furono ingiustamente accusate di aver assassinato papa Paolo II nel XV secolo. Ma la loro unica colpa fu di essere troppo buone. Da quando in qua la bontà è un crimine? Non furono loro ad ammazzare papa Paolo II la notte del 26 luglio del 1471. Fu il pontefice stesso a peccare di imprudenza e di gola. Un peccato, quest’ultimo, scusabile se si sopravvive alle abbuffate esagerate. Il melone rospa, come detto sopra, è brutto come il peccato, ha la pelle piena di bitorzoli come Grimilde, la strega di Biancaneve, ma è infinitamente dolce. Così dolce che lo chiamavano il «melone dei Papi». In stagione non mancava mai nella dispensa vaticana. La fatidica notte di cinque secoli e mezzo fa il melone dei Papi causò la morte di Paolo II, il veneziano Pietro Barbo. Prima di andare a letto, gran goloso di meloni, il Papa ne pappò due - ma qualche storico afferma che fossero tre - della varietà zatta. L’improvvisa morte di Paolo II suscitò sospetti. Il pontefice veneziano aveva solo 54 anni e il giorno che precedette la morte, ai cardinali che aveva convocato in concistoro, apparve in gran forma.Quando lo trovarono defunto nel letto, circolò il dubbio che fosse stato avvelenato, ma alla fine, saputo quello che aveva mangiato, i sospetti si dissolsero: il Papa era morto per una congestione. Le due (o tre) rospe mangiate avidamente gli erano rimaste sullo stomaco pesanti come una lapide tombale. Il melone sale sul palcoscenico del gusto da solo o in ottima compagnia.Il classico che resiste a tutte le mode è il sempiterno prosciutto e melone. L’abbinamento torna a ogni inizio estate come le braghette alla pescatora degli uomini, le canotte delle ragazze che lasciano in mostra l’ombelico e le canzoni-tormentone: «Per quest’anno non cambiare/ stessa spiaggia stesso mare…». Ugo Tognazzi, il grande attore con la passione per la cucina, suggeriva di sposare melone mantovano e crudo di Parma in un bel risotto di vialone nano. Il melone è prim’attore anche in una terrina di macedonia con altra frutta estiva o in insalata con verdure di stagione o negli immancabili spiedini dell’happy hour con cubetti di mortadella e dadi di pecorino, in pinzimonio da intingere in una mousse di tonno. Vogliamo mettere il figurone che si fa presentando agli amici fette di melone grigliate con i gamberoni rossi di Mazara del Vallo? Il melone ha tanta storia da vendere. Era conosciuto già in tempi remoti dai Sumeri, in Egitto, nella Grecia antica, a Roma. È certo che lo sposalizio tra melone e prosciutto crudo si celebrava anche nel triclinio - la sala da pranzo - dell’imperatore Marco Aurelio nel secondo secolo dopo Cristo. All’imperatore-filosofo l’abbinamento fu raccomandato da Galeno, suo medico personale e teorico dei quattro umori corporali. Riassumiamoli così: per mantenere l’equilibrio interno al corpo ci deve essere armonia tra caldo e freddo: vuoi mangiare il melone? Abbinalo al prosciutto e starai bene. Il consiglio, oltre che goloso, è saggio. Se il povero Paolo II l’avesse saputo e messo in pratica 13 secoli dopo, probabilmente, vista la giovane età, avrebbe retto la cattedra di San Pietro ancora per molto tempo. Il melone piace ai profeti. Nei racconti medioevali e post medioevali (l’episodio non è nella Bibbia) si narra la leggenda dei meloni del profeta Elia. Il grande profeta un giorno, assetato per il caldo e il lungo cammino, passando vicino a un campo di meloni maturi chiese al coltivatore di averne uno. L’altro non solo rifiutò di darglielo, ma lo prese pure in giro: «Non vedi che non sono meloni, ma pietre?». E pietre quei meloni diventarono: per punire quell’uomo malvagio, Dio trasformò i meloni in sassi rotondi.Anche Pellegrino Artusi è il profeta, sia pure laico, della cucina italiana unitaria. Ne La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene caldeggia il melone col prosciutto nelle pagine dedicate ai menu stagionali. Nella lista di agosto lo suggerisce come «principio», cioè come antipasto: «Popone col prosciutto e vino generoso». Popone è la versione fiorentina del melone. L’Artusi, romagnolo di nascita, ma fiorentino di residenza, giustifica così l’abbinamento piatto-vino: «Dice il proverbio: Quando sole est in leone/ pone muliem in cantone/ bibe vinum cum sifone». In parole povere: quando fa un caldo bestia, metti la donna da parte e bevi vino a volontà. Il consiglio, pur venendo dal sommo pontefice della cucina italiana, dallo scrittore che dal 1891 a oggi, vendendo un milione e mezzo di copie del suo libro, si fa un baffo di tutti gli influencer moderni, ci trova d’accordo solo a metà: su prosciutto e melone sì, ma in quanto a bere vino «cum sifone» nei giorni più caldi dell’anno, ci pare un incitamento al suicidio più che un consiglio enologico. Quando le temperature viaggiano verso i 40 gradi, troppo alcool manda la cabeza in tilt.Il melone più costoso al mondo è stato venduto giusto un anno fa da Christie’s a Parigi per 26,7 milioni di euro. È Le Melon entamé, il Melone iniziato, natura morta del pittore francese Jean Siméon Chardin. È rimasto anonimo il misterioso collezionista che ha fatto battere per tre volte il martelletto.
Iil presidente di Confindustria Energia Guido Brusco
Alla Conferenza annuale della federazione, il presidente Guido Brusco sollecita regole chiare e tempi certi per sbloccare investimenti strategici. Stop alla burocrazia, realismo sulla decarbonizzazione e dialogo con il sindacato.
Visione, investimenti e alleanze per rendere l’energia il motore dello sviluppo italiano. È questo il messaggio lanciato da Confindustria Energia in occasione della Terza Conferenza annuale, svoltasi a Roma l’8 ottobre. Il presidente Guido Brusco ha aperto i lavori sottolineando la complessità del contesto internazionale: «Il sistema energetico italiano ed europeo affronta una fase di straordinaria complessità. L’autonomia strategica non è più un concetto astratto ma una priorità concreta».
La transizione energetica, ha proseguito Brusco, deve essere affrontata con «realismo e coerenza», evitando approcci ideologici che rischiano di danneggiare la competitività industriale. Decarbonizzazione, dunque, ma attraverso strumenti efficaci e con il contributo di tutte le tecnologie disponibili: dal gas all’idrogeno, dai biocarburanti al nucleare di nuova generazione, dalle rinnovabili alla cattura e stoccaggio della CO2.
Uno dei nodi principali resta quello delle autorizzazioni, considerate un vero freno alla competitività. I dati del Servizio Studi della Camera dei Deputati parlano chiaro: nel primo semestre del 2025, la durata media di una Valutazione di Impatto Ambientale è stata di circa mille giorni; per ottenere un Provvedimento Autorizzatorio Unico ne servono oltre milleduecento. Tempi incompatibili con la velocità richiesta dalla transizione.
«Non chiediamo scorciatoie — ha precisato Brusco — ma certezza del diritto e responsabilità nelle decisioni. Il Paese deve premiare chi investe in innovazione e sostenibilità, non ostacolarlo con inefficienze che non possiamo più permetterci».
Per superare la frammentazione normativa, Confindustria Energia propone una legge quadro sull’energia, fondata sui principi di neutralità tecnologica e sociale. Uno strumento che consenta una pianificazione stabile e flessibile, in linea con l’evoluzione tecnologica e con il coinvolgimento delle comunità. Una recente ricerca del Censis evidenzia infatti come la dimensione sociale sia cruciale: i cittadini sono disposti a modificare i propri comportamenti, ma servono trasparenza e dialogo.
Altro capitolo centrale è quello delle competenze. «Non ci sarà transizione energetica senza una transizione delle competenze», ha ricordato Brusco, rilanciando la necessità di investire nella formazione e nel rafforzamento della collaborazione tra imprese, università e scuole.
Il presidente ha infine ringraziato il sindacato per il rinnovo del contratto collettivo nazionale del settore energia e petrolio, definendolo un esempio di confronto «serio, trasparente e orientato al futuro». Un modello, ha concluso, «basato sul dialogo e sulla corresponsabilità, capace di conciliare la valorizzazione del lavoro con la competitività delle imprese».
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