2023-01-07
Quei dolci segreti delle suore di clausura
Durante le feste non si vive di solo panettone. Da Nord a Sud esistono coccole golose che sono preziose tradizioni. Come le copate senesi, nate nei conventi, il bonet piemontese, il bocconotto abruzzese o i tronchetti lombardi. Ognuno con una propria leggenda.Sui titoli di coda al termine delle due settimane di festività natalizie non poteva mancare il cenno a piccole Cenerentole che meritano di essere conosciute, pur se abbiamo ambasciatori indiscussi come il panettone, che dal Gran Milan vola ora in tutta Italia e anche fuori delle feste comandate (pensiamo del panettone di ferragosto ideato dal gastronauta Davide Paolini). Coccole golose con le loro salde radici di tradizione, alcune presenti tutto l’anno, ma premiate come protagoniste alla tavola delle feste. Di alcune ne abbiamo già parlato, per altre partiamo alla scoperta. Inevitabile iniziare dalle terre del barolo, Langhe e Monferrato. Qui troviamo il bonet, una storia che affonda le radici nel XIII secolo. Latte, uova, amaretti e zucchero, il cioccolato che gli ha dato il colore bruno che oggi conosciamo è arrivato dopo. Ancora adesso, in versione bianca, è chiamato «alla monferrina» come certificato dal cuoco reale di Casa Savoia, Giovanni Vialardi, che nel suo Trattato di cucina e pasticceria moderna, uscito nel 1854, lo differenzia da quello alla sabauda, a base di cioccolato. Divertente la ricerca dell’etimo nativo. In langarolo bonet sta per cappello, in questo caso dalla forma simile a quello dello stampo a tronco di cono in cui veniva messo il composto, come indicato nel vocabolario piemontese italiano di Vittorio di Sant’Albino, pubblicato nel 1859. Qualcuno aveva suggerito che, per cappello, si intendeva anche l’ultimo capo indossato prima di uscire dopo una lauta cena, di cui il bonet era degna conclusione, ipotesi difficile da suffragare, visto che il bonet era umile copricapo degli anziani che difficilmente uscivano di casa per cene di gala o dei lavoratori dei campi. Sugli ingredienti classici non poteva mancare qualche variazione locale, ad esempio con le nocciole tonde delle Langhe o con aromatizzazioni a base di vaniglia o scorzette di limone, ma la storia curiosa è altra. L’ingrediente base era il rum, per dargli quel tocco in più, ma nella seconda metà dell’Ottocento le campagne piemontesi vennero devastate da ripetute epidemie di colera. Allora non vi erano acquedotti e l’acqua piovana veniva raccolta direttamente entro vasche in cui l’igiene era difficilmente controllabile. Nel 1845 un droghiere milanese di origine piemontese, Bernardino Branca, con la passione per l’erboristeria, si inventa un distillato di varie erbe e aromi, il Fernet Branca, cui vennero attribuite anche proprietà antibatteriche e quindi utile a combattere pure il colera. Conseguente il suo uso mirato anche nelle modeste cucine rurali. Un sogno che durò fino al 1893, quando l’Università di Pavia, dati microbiologici alla mano, ne dimostrò l’inefficacia. Ma certi sogni sono duri a morire e il suo uso continuò nei piccoli paesi per molti anni ancora. Questo ovviamente senza togliere nulla alla pregevole e meritoria opera dell’azienda che è uno dei marchi del made in Italy più conosciuti ed apprezzati a livello internazionale, grazie anche al marchio geniale, un’aquila che vola sulla terra, con regolare bottiglia tra gli artigli, inventata nel 1895 del triestino Leopoldo Metlicovitz. Bonet non solo coccola golosa delle cene borghesi, ma anche preziosa tradizione familiare, il sabato pomeriggio, dopo che si era finito di infornare il pane della settimana. Si usava il calore residuo per i vari passaggi, tra cui quello finale di cottura a bagnomaria, con l’attenzione che l’acqua non dovesse mai bollire. Siena, per tutti, è patria riconosciuta di cavallucci, ricciarelli e panforte, ma pochi sanno la trama storica che accompagna le copate. Avrebbe affascinato anche l’Umberto Eco de Il nome della rosa. Una vicenda che scorre tra i monasteri del tempo, autentico spionaggio gastronomico tra devote suore di clausura. La versione attuale vede due cialde (al tempo ostie preparate nei forni monacali) che racchiudono un composto di mandorle e noci, tostate e tritate, unite dal miele. Già sull’etimo gli storici di gola hanno dibattuto a lungo. Per alcuni il termine copate deriva da accoppiate, riferite alle ostie. Per altri, come Giovanni Righi Parenti, l’origine è più lontana, addirittura araba, posto che con «qubbaita» si intendevano impasti simili di frutta secca e miele, quali la cubbaita siciliana o la cupeta calabrese. Ma qua il tocco monastico ha fatto la differenza, come ben ne racconta la presidente delle Donne del vino, la senese Donatella Cinelli Colombini. Nel XIV secolo le monache del convento di San Baronto, nella pistoiese Lamporecchio, nota anche come patria dei brigidini, ammorbidivano le ostie prima di renderle pronte per la sacra benedizione con qualche goccia di miele. La badessa del vicino convento di Santa Brigida ne trae spunto per unirle tra loro, il miele come collante. Nascono così le «nebulae», nuvolette golose molto ricercate nelle festività locali. Le copate potevano essere scure, posto che il miele veniva reso bruno dalla cottura, ma con l’aggiunta dell’albume d’uovo, altra intuizione delle monachelle di Santa Brigida, il tutto diveniva più chiaro, secondo la ricetta documentata da Paolo Petroni, presidente dell’Accademia italiana della cucina. Un impasto che, così schiarificato, poteva anche essere laico, senza l’astuccio ostiense tanto che, sempre secondo Parenti, creò le basi per il torrone senese, battezzato turron, nel 1547, dallo spagnolo Diego Hurtado de Mendoza, nominato governatore da Carlo V. Un’altra chicca che merita visibilità nazionale è il bocconotto, presente in varie versioni lungo la costa adriatica, e ben descritto ne Il cuoco galante, uno dei primi codici di cucina nazionale, pubblicato nel 1773 dal napoletano Vincenzo Corrado. La storia parte da Castel Frentano, piccolo Comune abruzzese. Nella dispensa della nobiltà erano appena arrivate curiose golosità dalle Americhe, caffè e cioccolato su tutti. La cuciniera del marchese Crognale di Castelnuovo decide di dar sfogo alla sua fantasia. Con della pasta frolla richiama la forma di una tazza e la riempie con un mix di caffè e cioccolato. Tuttavia, dopo la prima infornata, il composto all’interno è ancora troppo liquido. Si inventa un astuccio con mandorle e tuorlo d’uovo. Altra informata. A prodotto pronto una spolverata di zucchero a velo. Diventa un instant classic nella cucina del nobile locale. Alla domanda come si poteva chiamare questo dolce delizioso, la risposta da donna pratica «bocconotto, perché si mangia in un sol boccone». Ne esistono diverse versioni, quella ora più apprezzata è con la «scrucchiata» una confettura di uva di Montepulciano che, da sola, vale la storia. Si prendono chicchi maturi. Nella lavorazione non si usa zucchero. Si «scrucchiano», ovvero con l’abilità delle sole dita della mano si separa la buccia dalla polla che viene sottoposta a lenta cottura, fino a che i semini non escono da soli. Si uniscono poi polpa e buccia sino a dare un composto cremoso. Il tutto in barattoli posti in un forno spento dopo essere portato a cento gradi. Da qui la lenta cottura finale, che regala un’originale confettura magicamente in equilibrio tra punta dolce e sottofondo amarognolo. Il viaggio si conclude in terra lombarda, patria del panettone, dove nelle vetrine delle pasticcerie l’occhio viene attirato da piccole sculture edibili, i tronchetti di Natale (ora diffusi un po’ ovunque), un’altra storia nella storia… i cui riti trovano radici in antiche usanze quando, la sera dell’Epifania, si spargevano le ceneri di un tronco acceso con del ginepro benedetto, rito propiziatorio per i futuri raccolti e le fertilità di donne e animali…