
Messaggio rivolto a chi, anche nel nuovo governo, parla di debito comune europeo. Meglio prepararsi a contrapporre lo sbarramento.Sarà stata una coincidenza, ma giovedì, esattamente poche ore prima che il presidente Giorgia Meloni varcasse la soglia dei palazzi di Bruxelles per incontrare i vertici delle istituzioni della Ue, sul sito del Mes è apparso un breve, quanto incisivo, intervento. La finalità era quella di evidenziare l’opportunità che venga sfruttato come strumento centralizzato e comune per la stabilizzazione delle politiche fiscali degli Stati membri. In parole povere, chi ha problemi può sempre attingere, a certe condizioni, ai prestiti del Mes. Strumento che rivelerebbe la propria utilità proprio durante le crisi, quando le politiche fiscali espansive sono necessarie ma non tutti gli Stati hanno la possibilità di attuarle e finanziarle.Il messaggio appare chiaro. Rivolto a chi, anche nel nuovo governo, parla di debito comune europeo. Lo strumento c’è già, è di rapido e pronto impiego e, secondo gli autori che evitano di fare nomi, fa proprio al nostro caso. Si chiama Meccanismo europeo di stabilità ed esiste da circa 10 anni.Il ragionamento sviluppato da Nicola Giammarioli e da Martin Rey, il primo segretario generale e il secondo economista del Mes, è molto lineare e lucido e, se analizzato dal punto di vista dei nostri partner europei, non fa una piega.Secondo loro è il momento adatto per introdurre uno strumento che intervenga a migliorare e stabilizzare la capacità fiscale degli Stati membri. Proprio perché è in corso il processo di revisione del quadro delle regole di bilancio europee, tale percorso deve essere completato dalla disponibilità di un simile strumento, che potrebbe anche aiutare a sbrogliare la matassa delle trattative su una riforma che si presenta particolarmente ingarbugliata.È un fatto che gli ultimi shock esterni - dalla pandemia, alla guerra in Ucraina, al cambiamento climatico - hanno richiesto la disponibilità di strumenti per mitigare il loro impatto e la politica monetaria e fiscale non sempre possono fornire una risposta adeguata. Allora potrebbe intervenire il Mes con i suoi prestiti. Ottenendo un immediato effetto di stabilizzazione e, in ogni caso, non incentivando nei beneficiari alcun tipo di «azzardo morale» (facciamo come ci pare, tanto ci sono gli aiuti del Mes), perché quei prestiti andranno comunque restituiti e i criteri di ammissibilità - come l’analisi di sostenibilità del debito e le regole di bilancio - sono comunque stringenti.Starà al Mes ed alla Commissione, in collaborazione con la Bce, valutare l’esistenza delle condizioni per l’intervento del fondo. La cui introduzione e gestione all’interno dell’istituto con sede a Lussemburgo, non richiede particolari complesse formalità. C’è già tutto: capitale versato, garanzie, struttura amministrativa. Non serve richiedere agli Stati membri ulteriori versamenti.È essenziale legare questo fondo alle regole di bilancio in corso di revisione. Infatti svolgerebbe un ruolo anticiclico e sarebbe un efficace complemento per le regole oggi in discussione. Durante i periodi di crescita incentiverebbe politiche fiscali prudenti e durante i periodi di crisi fornirebbe stabilità, aiutando gli Stati che faticano a trovare spazio fiscale, pur avendo avuto comportamenti prudenti in passato. Infatti anche se le regole di bilancio consentono politiche espansive durante i periodi di crisi, non è detto che gli Stati siano capaci di finanziarle. Ecco che arriva il Mes con il suo fondo.Inoltre ci deve essere perfetta sincronia ed allineamento tra le regole di bilancio ed il fondo di stabilizzazione. Infatti non ha senso sospenderle se poi non c’è lo spazio fiscale a disposizione o, all’opposto, far sì che le regole siano talmente stringenti da impedire l’uso di quei fondi pur disponibili. Regole e fondo del Mes devono agire a fisarmonica. Le prime devono lasciare spazio al secondo. Ecco perché - concludono gli autori - è proprio ora il momento di discuterne ed introdurlo. Dal punto di vista economico servirebbe a neutralizzare l’impatto degli shock esogeni sempre più probabili. Dal punto di vista politico, aiuterebbe ad affrontare e risolvere efficacemente la riforma di alcuni aspetti chiave delle regole di bilancio europee.Ci permettiamo di ipotizzare che questa posizione - resa nota con un sospetto tempismo - sia condivisa da molti governi della Ue e, per questo motivo, debba suscitare una doverosa attenzione nel governo italiano. Attenzione che non ci è sembrato di cogliere nella conferenza stampa di venerdì, quando il presidente Meloni ha dichiarato che «il Mes non è stato oggetto di interlocuzione ieri e noi non abbiamo ancora aperto questo dossier», riferendosi ai colloqui avvenuti a Bruxelles. Ancora meno allarme, abbiamo colto nelle parole del ministro Giancarlo Giorgetti, quando ha aggiunto che «noi e la Germania siamo in buona compagnia, siamo gli unici Paesi che non l’hanno approvato. Aspettiamo con pazienza la decisione della Corte di Karlsruhe che rispettiamo moltissimo e che è già intervenuta ripetutamente sulle regole europee».È vero che ratificare la riforma del Trattato del Mes ovviamente non equivale a richiederne i prestiti. Inoltre, prescindiamo dall’aspetto formale non secondario che la riforma del Trattato deve essere solo «ratificata» dal Parlamento per l’entrata in vigore, mentre il governo italiano, a mezzo di un ministro plenipotenziario, l’ha già firmata il 27 gennaio 2021. Ma trincerarsi dietro Karlsruhe - che nel 2012 era intervenuta a Trattato già ratificato, ponendo delle condizioni che dettero vita a un obbrobrio giuridico secondo cui in Germania vige un Trattato dal testo diverso - potrebbe rivelarsi insufficiente.La salva d’avvertimento sparata giovedì dovrebbe servire a predisporre protezioni ben più robuste, perché chiedere alla seconda potenza manifatturiera d’Europa di seguire la sorte di Grecia, Portogallo, Irlanda, Cipro e Spagna (solo per le banche dissestate), minerebbe le fondamenta di questo governo.
Il tocco è il copricapo che viene indossato insieme alla toga (Imagoeconomica)
La nuova legge sulla violenza sessuale poggia su presupposti inquietanti: anziché dimostrare gli abusi, sarà l’imputato in aula a dover certificare di aver ricevuto il consenso al rapporto. Muove tutto da un pregiudizio grave: ogni uomo è un molestatore.
Una legge non è mai tanto cattiva da non poter essere peggiorata in via interpretativa. Questo sembra essere il destino al quale, stando a taluni, autorevoli commenti comparsi sulla stampa, appare destinata la legge attualmente in discussione alla Camera dei deputati, recante quella che dovrebbe diventare la nuova formulazione del reato di violenza sessuale, previsto dall’articolo 609 bis del codice penale. Come già illustrato nel precedente articolo comparso sulla Verità del 18 novembre scorso, essa si differenzia dalla precedente formulazione essenzialmente per il fatto che viene ad essere definita e punita come violenza sessuale non più soltanto quella di chi, a fini sessuali, adoperi violenza, minaccia, inganno, o abusi della sua autorità o delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa (come stabilito dall’articolo 609 bis nel testo attualmente vigente), ma anche, ed in primo luogo, quella che consista soltanto nel compimento di atti sessuali «senza il consenso libero e attuale» del partner.
Tampone Covid (iStock)
Stefano Merler in commissione confessa di aver ricevuto dati sul Covid a dicembre del 2019: forse, ammette, serrando prima la Bergamasca avremmo evitato il lockdown nazionale. E incalzato da Claudio Borghi sulle previsioni errate dice: «Le mie erano stime, colpa della stampa».
Zero tituli. Forse proprio zero no, visto il «curriculum ragguardevole» evocato (per carità di patria) dall’onorevole Alberto Bagnai della Lega; ma uno dei piccoli-grandi dettagli usciti dall’audizione di Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler in commissione Covid è che questo custode dei big data, colui che in pandemia ha fornito ai governi di Giuseppe Conte e Mario Draghi le cosiddette «pezze d’appoggio» per poter chiudere il Paese e imporre le misure più draconiane di tutto l’emisfero occidentale, non era un clinico né un epidemiologo, né un accademico di ruolo.
La Marina colombiana ha cominciato il recupero del contenuto della stiva del galeone spagnolo «San José», affondato dagli inglesi nel 1708. Il tesoro sul fondo del mare è stimato in svariati miliardi di dollari, che il governo di Bogotà rivendica. Il video delle operazioni subacquee e la storia della nave.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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Manifestazione ex Ilva (Ansa)
Ok del cdm al decreto che autorizza la società siderurgica a usare i fondi del prestito: 108 milioni per la continuità degli impianti. Altri 20 a sostegno dei 1.550 che evitano la Cig. Lavoratori in protesta: blocchi e occupazioni. Il 28 novembre Adolfo Urso vede i sindacati.
Proteste, manifestazioni, occupazioni di fabbriche, blocchi stradali, annunci di scioperi. La questione ex Ilva surriscalda il primo freddo invernale. Da Genova a Taranto i sindacati dei metalmeccanici hanno organizzato sit-in per chiedere che il governo faccia qualcosa per evitare la chiusura della società. E il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al nuovo decreto sull’acciaieria più martoriata d’Italia, che autorizza l’utilizzo dei 108 milioni di euro residui dall’ultimo prestito ponte e stanzia 20 milioni per il 2025 e il 2026.






