2023-05-26
«Nella profezia di Bowie c’è il futuro del jazz»
Donny McCaslin (Getty Images)
Donny McCaslin, il sassofonista scelto dal Duca bianco per «Blackstar», il suo album testamento: «Non mi disse che stava morendo. E non mi spiegò perché nei testi parlasse di Lazzaro. Era colpito dal suono della mia band e riuscì a fondere le sue idee e le nostre improvvisazioni».Uno dei futuri possibili del jazz ha il suono della Los Angeles distopica di Blade Runner. Una metropoli dominata da musica elettronica, drum’n’bass, influenze post rock e cyber reggae, nella quale l’improvvisazione sopravvive per ricordare ai replicanti e ai robot che la fantasia umana non teme alcuna Intelligenza artificiale. Da un luogo (o da un tempo) simile è sbarcato in Italia in questi giorni il sassofonista californiano Donny McCaslin, affiancato dai suoi compagni di sperimentazione (Jason Lindner alle tastiere, Jonathan Maron al basso elettrico e Zach Danziger alla batteria). Una chicca della ventisettesima edizione appena conclusa del Vicenza jazz festival, la prima rassegna a riaprire al pubblico in tempo di Covid e l’unica a portare la musica anche in mezzo a chi non è più tra noi, con il suggestivo concerto di mezzanotte al cimitero. Il quartetto salito sul palco del Teatro comunale vicentino non è una band come tutte le altre, come sanno bene i fan di David Bowie. La leggenda narra infatti che il Duca bianco, nel 2014, capì di aver trovato il sound che cercava da anni ascoltando McCaslin e soci mimetizzato nel pubblico del 55 Bar, storico locale jazz (poi spazzato via dal coronavirus) nel West Village di New York. Due anni dopo, dalla collaborazione tra l’artista britannico e i magnifici quattro (tour a parte, la formazione originale prevede Mark Guiliana alla batteria e Tim Lefebvre al basso) nascerà Blackstar, album tenebroso uscito nel giorno del sessantanovesimo compleanno di Bowie. Anche se non ci sarà tempo per festeggiare. Dopo due giorni, il 10 gennaio 2016, la stella più visionaria del rock smetterà di brillare a causa di un tumore, fino ad allora tenuto segreto. E il mondo scoprirà di avere tra le mani il suo testamento artistico. «Fu uno choc anche per me», racconta McCaslin alla Verità, «sapevo che era malato e che si doveva curare, ma non mi aveva mai rivelato che il suo tempo stava finendo. Anzi, nella nostra ultima telefonata, a qualche settimana dall’uscita del disco, mi parlava dei progetti che avrebbe voluto realizzare. “Fra non molto”, diceva, “dobbiamo tornare in studio”».Partiamo dal suo primo incontro con David Bowie. Cosa accadde quella sera al 55 Bar?«Mi era giunta voce che fosse tra il pubblico, anche se a fine concerto si era dileguato. Era stata la compositrice Maria Schneider, che stava lavorando con lui a una canzone (Sue, ndr), a fargli avere il mio album Casting for gravity e a consigliargli di venire a sentire il mio gruppo dal vivo. Gli aveva detto che quello che stavamo combinando lo avrebbe incuriosito sicuramente. Nei giorni seguenti Bowie mi chiamò e mi propose di lavorare assieme a un brano. Ovviamente accettai e lui inviò il primo demo».Una canzone tira l’altra, fino a realizzare insieme l’intero disco. Con il senno di poi, si è mai chiesto come mai per Blackstar, l’album con il quale avrebbe detto addio al mondo, il Duca bianco abbia voluto al suo fianco dei jazzisti?«Se si tiene presente che stiamo parlando di un artista che per tutta la sua vita non ha mai smesso di evolvere questa scelta ci risulterà meno singolare. Anche il suo aspetto esteriore, se ci pensiamo, ha continuato a cambiare insieme alla sua musica. E poi Bowie ha saputo travalicare i generi come pochi, attraversandoli con il suo inconfondibile linguaggio musicale. Per questo non si è trattato di un incontro nato a tavolino o di un’operazione pianificata a partire dagli stili. È stato qualcosa di molto più naturale: stavamo percorrendo delle strade che inevitabilmente si sarebbero incrociate».In sala di registrazione vi siete sentiti più dei jazzisti o dei turnisti rock?«Blackstar non è un disco jazz, ma David ci ha lasciati liberi di creare all’istante e di proporre nuove idee, senza limiti. La cosa che più mi ha colpito quando ho ascoltato l’album per la prima volta è che la struttura dei brani era rimasta quella che lui aveva concepito all’inizio. Allo stesso tempo però Bowie era riuscito magicamente a tenere insieme tutti gli spunti nati dalle nostre improvvisazioni. Ed è ciò che ha reso l’album tremendamente complesso e ricco di livelli sovrapposti».Mi tolga una curiosità: Bowie era un appassionato di jazz?«Decisamente. Non abbiamo mai avuto un vero e proprio confronto in merito, ma ogni due per tre ci ritrovavamo a discutere di Charles Mingus, Eric Dolphy o John Coltrane. Come ha dichiarato Tony Visconti, il suo storico produttore, l’influenza del jazz su David Bowie è sempre stata presente, anche se nascosta. La sua musica è piena di intuizioni armoniche che poco hanno a che fare con il pop o con il rock».Qual è la lezione più importante che le ha lasciato il creatore di Ziggy Stardust, Space Oddity o Heroes?«David mi ha insegnato a credere nell’istinto e a lasciar viaggiare l’immaginazione, anche quando non è dato sapere dove ti potrà condurre. Dopo Blackstar ho pensato che tutto fosse possibile in un modo che prima sembrava impossibile».Questa collaborazione ha cambiato la sua visione del jazz e della musica in generale?«Senza dubbio, anche se i frutti li ho visti dopo qualche tempo. A un certo punto infatti mi sono reso conto che stavo andando esattamente nella direzione che lui aveva profetizzato».Cosa aveva capito prima di lei?«Un giorno mi disse che si era immaginato il mio futuro: “Prima o poi inizierai a manipolare elettronicamente il suono del tuo sassofono direttamente sul palco, in tempo reale, e la tua improvvisazione diventerà ancora più interessante”. È un dialogo che devo aver rimosso, ma che mi è tornato in mente quando questa visione si è avverata».E come ci è arrivato? «All’inizio ero l’unico a suonare in modo totalmente acustico in una band decisamente elettronica, tra le tastiere di Jason, gli effetti del basso di Tim e le sperimentazioni di Mark alla batteria. Poi ho cercato un modo molto personale di trasformare il timbro del mio sax senza che suonasse come un altro strumento e cercando di rimanere il più autentico possibile. Parallelamente ho modificato il mio linguaggio, liberandomi in parte del vocabolario bepop che mi portavo dietro. E lì ho capito che non si improvvisa solo con le note, ma anche con il suono».Secondo lei oggi il suo quartetto è ancora «la band di Blackstar» o avete voltato pagina?«Bella domanda…» (ride). «La verità è che dall’uscita di quel disco fino alla pandemia sono stato risucchiato, insieme ai miei compagni, in un tour senza pause. E solo il lockdown mi ha permesso di fermarmi e capire cos’è davvero significativo per me e cosa voglio comunicare a livello artistico. La risposta è contenuta nel nuovo disco, I want more, che uscirà il 16 giugno per Edition records. Quest’estate ripasseremo dall’Italia per farvelo ascoltare».Alla luce di questa sua evoluzione personale, oggi come descriverebbe la sua musica? «Mi sento un musicista ibrido che vuole esplorare l’intersezione tra improvvisazione jazz, elettronica, drum’n’bass, rock e suoni metropolitani. Resto un jazzista ma sento l’esigenza di spingere la musica in avanti, scavalcando i generi».A proposito della sua lunga carriera nel jazz, scegliendo solo una tappa del percorso: cosa significò per lei entrare negli Steps Ahead prendendo il posto di Michael Brecker, uno dei sassofonisti più stimati della sua generazione, scomparso prematuramente? «È stato uno dei passaggi chiave per trovare la mia identità. Lo adoravo e conoscevo i suoi assoli a memoria, ma non potevo certo limitarmi a essere la sua brutta copia. Per cui ho dovuto imparare velocemente a parlare con la mia voce».Un’ultima domanda su Blackstar prima di lasciarci. Grazie a lei la musica di quest’album pluripremiato è diventata anche una sinfonia, non ancora eseguita in Italia. Mentre i testi, a distanza di sette anni, continuano a interrogarci grazie ai simboli - dalla stella nera alla figura di Lazzaro - scelti da un artista che si stava confrontando con la morte. Lei ha elaborato una sua interpretazione?«David non mi ha mai spiegato il significato delle sue canzoni. E non credo che non l’abbia fatto solo perché non sapevo che stava morendo. Le risposte sono tutte nella sua musica e lì vanno cercate».
Thierry Sabine (primo da sinistra) e la Yamaha Ténéré alla Dakar 1985. La sua moto sarà tra quelle esposte a Eicma 2025 (Getty Images)
La Dakar sbarca a Milano. L’edizione numero 82 dell’esposizione internazionale delle due ruote, in programma dal 6 al 9 novembre a Fiera Milano Rho, ospiterà la mostra «Desert Queens», un percorso espositivo interamente dedicato alle moto e alle persone che hanno scritto la storia della leggendaria competizione rallystica.
La mostra «Desert Queens» sarà un tributo agli oltre quarant’anni di storia della Dakar, che gli organizzatori racconteranno attraverso l’esposizione di più di trenta moto, ma anche con memorabilia, foto e video. Ospitato nell’area esterna MotoLive di Eicma, il progetto non si limiterà all’esposizione dei veicoli più iconici, ma offrirà al pubblico anche esperienze interattive, come l’incontro diretto con i piloti e gli approfondimenti divulgativi su navigazione, sicurezza e l’evoluzione dell’equipaggiamento tecnico.
«Dopo il successo della mostra celebrativa organizzata l’anno scorso per il 110° anniversario del nostro evento espositivo – ha dichiarato Paolo Magri, ad di Eicma – abbiamo deciso di rendere ricorrente la realizzazione di un contenuto tematico attrattivo. E questo fa parte di una prospettiva strategica che configura il pieno passaggio di Eicma da fiera a evento espositivo ricco anche di iniziative speciali e contenuti extra. La scelta è caduta in modo naturale sulla Dakar, una gara unica al mondo che fa battere ancora forte il cuore degli appassionati. Grazie alla preziosa collaborazione con Aso (Amaury Sport Organisation organizzatore della Dakar e partner ufficiale dell’iniziativa, ndr.) la mostra «Desert Queens» assume un valore ancora più importante e sono certo che sarà una proposta molto apprezzata dal nostro pubblico, oltre a costituire un’ulteriore occasione di visibilità e comunicazione per l’industria motociclistica».
«Eicma - spiega David Castera, direttore della Dakar - non è solo una fiera ma anche un palcoscenico leggendario, un moderno campo base dove si riuniscono coloro che vivono il motociclismo come un'avventura. Qui, la storia della Dakar prende davvero vita: dalle prime tracce lasciate sulla sabbia dai pionieri agli incredibili risultati di oggi. È una vetrina di passioni, un luogo dove questa storia risuona, ma anche un punto d'incontro dove è possibile dialogare con una comunità di appassionati che vivono la Dakar come un viaggio epico. È con questo spirito che abbiamo scelto di sostenere il progetto «Desert Queens» e di contribuire pienamente alla narrazione della mostra. Partecipiamo condividendo immagini, ricordi ricchi di emozioni e persino oggetti iconici, tra cui la moto di Thierry Sabine, l'uomo che ha osato lanciare la Parigi-Dakar non solo come una gara, ma come un'avventura umana alla scala del deserto».
Continua a leggereRiduci