
Bayrou ha attaccato gli avversari, ma il suo fallimento va ascritto a Macron, che per anni ha sostenuto tutte le politiche Ue su accoglienza e transizione green. Senza accorgersi che il resto del mondo andava avanti e lasciava Bruxelles indietro.Fuori uno, dentro un altro. Emmanuel Macron prova a salvarsi cercando qualcuno che prenda il posto di François Bayrou, la cui esperienza da primo ministro, con il voto di ieri dell’Assemblée Nationale è arrivata al capolinea. Per la Francia si tratterà del settimo premier da quando l’attuale inquilino dell’Eliseo si è insediato. Considerando che il portaborsette di Brigitte, come lo chiama sarcasticamente Dagospia, ha preso possesso del proprio incarico a metà maggio di otto anni fa, da quando c’è lui. Parigi ha bruciato all’incirca un esecutivo ogni 14 mesi. Mica male come media: nella prima Repubblica quasi nemmeno noi siamo arrivati a tanto. Gli effetti dell’instabilità politica francese, dovuta essenzialmente a un presidente della Repubblica che non si rassegna davanti alla propria inettitudine e rifiuta di farsi da parte, si vedono nella quotazione dei titoli di Stato. Lo spread, che per anni è stato il babau con cui si sono minacciati gli italiani, imponendo loro misure lacrime e sangue (di cui si fece interprete Mario Monti), oggi colpisce i bond emessi dai nostri cugini. Con una differenza sostanziale: il debito non è nelle mani dei francesi, mentre, per quanto ci riguarda, è nelle mani dei risparmiatori italiani. Bayrou, gettando la spugna prima del voto di sfiducia, ha fatto un discorso infuocato, accusando la politica e in particolare destra e sinistra, di irresponsabilità, e imputando all’una e all’altra parte di portare il Paese allo sfascio. Discorso prevedibile. Il primo ministro se l’è presa con il Rassemblement National e con il Fronte popolare, omettendo però di dire che se il debito della Francia è elevato e la situazione politica incandescente, la colpa non è certo di chi non ha mai governato, ma di chi, come lui, è stato ai vertici del potere, anche se con incarichi di tetza fila. Sì, Bayrou attacca gli avversari che contestano il suo governo, ma il fallimento va ascritto a chi come Macron per anni ha sostenuto le politiche dell’Unione europea, accettando passivamente le politiche di accoglienza, di inclusione e di transizione green. Se oggi la Francia è alla canna del gas non è certo colpa di Marine Le Pen, che non ha mai guidato neppure un consiglio di circoscrizione. Se il debito pubblico è esploso, le pensioni non reggono più e l’insoddisfazione per la gestione della sicurezza è ai massimi, la colpa è di chi ha governato e sostenuto le ricette dell’Unione europea. L’asse franco tedesco per anni a Bruxelles ha fatto il bello e il cattivo tempo, ma ora che si avvia ad un inevitabile declino l’Europa deve fare i conti con il brutto. Gli scenari sono cambiati: l’America va per la propria strada, come la Cina, la Russia e gran parte del mondo. L’unico a non essersene ancora accorto è Macron, che per sé sogna un ruolo nella Ue, magari lo stesso posto di Ursula von der Leyen. Purtroppo il presidente francese (in questo imitato da altri suoi pari) non ha capito che l’Europa non serve a risolvere una crisi profonda come quella che la Francia sta vivendo. Non basta rivendicare la supremazia della vecchia guardia, perché nuove formazioni politiche, ma soprattutto nuove aspettative da parte degli elettori incombono. La Ue così com’è non serve a nulla. Non conta dal punta di vista politico, non ha quasi più peso come forza economica e - come recitava un celebre motto - è un verme dal punto di vista militare. Ora si parla di riarmo, ma prima di comprare un solo fucile (e di imbracciarlo, come vorrebbe Macron) occorre restituire la parola agli elettori. Che siano francesi o italiani, tedeschi o spagnoli, ciò che li accomuna è un unico destino: di fronte a una classe politica compromessa e minoritaria condividono l’impossibilità di votare. In nome della democrazia gli alti papaveri dell’Unione si rifiutano di consentire al popolo di scegliere da chi farsi governare. E la chiamano libertà.
Stefano Boeri (Imagoeconomica)
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