2023-08-31
Picca sui giovani del branco: «Una mutazione apocalittica ha tolto loro il piacere»
L’autore del documentario «Preghiera per Willy»: «I giovani sono inghiottiti dal virtuale, dalla pornografia. Ma è colpa anche dei genitori: la loro invadenza a scuola è letale, i docenti ormai hanno le mani legate».Venerdì 8 settembre, su Rai 3, andrà in onda Preghiera per Willy, un documentario dedicato alla terribile vicenda di Willy Monteiro, ucciso a botte il 6 settembre 2020 a Colleferro. Lo firma Aurelio Picca, scrittore di grande talento e notevole successo. «Vivendo ai Castelli romani, questa apertura verso la Ciociaria è per me naturale», ci dice Picca. «Il triangolo delle province del Lazio tra Latina e Frosinone l’ho qui a due passi, verso la Casilina, verso l’autostrada. Per cui è un territorio che frequento fin da quando ero ragazzo, l’ho visto crescere. Tre anni fa, il 6 settembre, rimasi colpito da questa storia: un ragazzo longilineo e molto magro, proveniente da Capo Verde, con due colpi di karate, o di kickboxing o di un’altra arte simile venne tragicamente ammazzato vicino a Piazza Italia, a Colleferro. Quella è un’ambientazione che ricorda un quadro di De Chirico. Mi sono messo ad approfondire la vicenda. Ho contattato un mio giovane amico e insieme abbiamo fatto un giro a Colleferro, un luogo in cui non andavo da una vita. Abbiamo fatto una sorta di Via Crucis, passo dopo passo, andando a vedere i luoghi della tragedia e cercando di comprendere che cosa fosse successo».E che cosa ha potuto comprendere?«Credo che questa sia la storia di una mutazione che non è più di natura antropologica. Qui si tratta di una mutazione, verificatasi anche in queste aree, che è post-apocalittica. Noi non ce ne siamo accorti, ma è accaduto. Colleferro una volta era una vivace cittadina alla moda situata a sud di Roma, ospitava la rinomata discoteca Living, in cui spesso mi recavo da giovane. Poi c’era la Smia, una fabbrica dove Cesare Romiti ricopriva il ruolo di direttore, prima di essere chiamato da Cuccia per passare alla Fiat. Una volta chiusa la Smia, al suo posto è sorta questa imponente struttura di cemento di Amazon. Con tutto il rispetto, ma sembra un luogo di trasformazione degli esseri, il simbolo di questa mutazione che descrivo». Lei ha indagato la vicenda di Willy. Ma di casi di violenza in qualche modo analoghi e forse altrettanto brutali ce ne sono molti. Pensiamo al bestiale stupro di gruppo a Palermo o a quelli di Caivano, dove andrà Giorgia Meloni. Questi fatti di cronaca sono semplicemente brutte cose che capitano come sono sempre capitare nella storia, oppure sono il segno di un cambiamento, di una violenza più diffusa rispetto al passato?«Sono il segno della trasformazione di cui parlavo. Sono tutti casi legati, di casuale non c’è nulla. Assistiamo a una totale mancanza di piacere. Non abbiamo più il piacere del corpo e della sessualità. Non c’è nemmeno libertà del corpo, tutto è diventato virtuale, meccanizzato. Siamo in un contesto pornografico, dove manca appunto il piacere e dunque c’è per forza violenza. La violenza non è collegata al piacere. Dieci persone con una ragazza - che si tratti di uno stupro oppure di una situazione in cui c’è consenso - non manifestano potenza, ma impotenza. Ecco, noi siamo in un momento di impotenza, che è sinonimo di violenza». È stata impotenza anche quella dei fratelli Bianchi e degli altri che hanno ucciso Willy? «In quel caso è successo tutto in un attimo: un parapiglia di 40 secondi. C’erano questi ragazzi che stavano limonando o facendo altro sotto i muri del cimitero di Colleferro, sono stati chiamati, sono arrivati di corsa e hanno preso a calci il ragazzino che si è trovato lì in mezzo. Si è trovato proprio in mezzo perché c’era un amico che bisticciava alle soglie del bar dove si svolge la movida». Movida è una parola che si sente spesso. Non sembra che le piaccia. «Ormai è una brutta parola. Io l’ho vista, la movida, dopo la morte di Franco a Madrid, e di certo non era quella che abbiamo qui adesso. Ora ci sono folle che si azzuffano, non so come chiamarla questa roba oscena. Io poi fin da ragazzo non sono mai stato uno da gruppo, ero un solitario, dunque questo movimento di folle non può piacermi». Torniamo al caso di Willy. Diceva che tutti. è avvenuto in pochi istanti. «Questi ragazzi con due colpi hanno fatto fuori un povero ragazzino in realtà senza motivo, solo per far vedere che sapevano usare gambe e braccia non per le attività fisiologiche, ma per far male. Willy è morto così».Lei ha passato anni nella scuola come insegnante. Forse è un ragionamento banale o scontato, ma viene da pensare che la mutazione che lei descrive inizi da lì, dalla scuola.«Assolutamente sì. Comincia da lì. Penso per esempio all’ingerenza delle famiglie che è stata letale. Credo anche che la riforma di Giovanni Berlinguer, del 1999-2000, abbia mandato la scuola a picco. Quanto ai docenti, come in tutti i luoghi, ce ne sono di più bravi e di meno bravi, però sono ormai allenati alla burocrazia, e la didattica è la quarta, la quinta cosa nell’ordine delle priorità. E poi c’è appunto l’intromissione dei genitori: controllano, mettono le mani…». E questo che cosa comporta?«A un ragazzo non puoi dire più nulla. L’autorevolezza passa anche per la fisicità del docente, per una forza insomma, che non è una forza bruta, ma è una forza naturale, come quella del falegname che piallava, come negli antichi mestieri. Ma adesso se a un ragazzo dici “girati che ti do un colpo” oppure “mettiti seduto” in una maniera appena più forte, a casa riferisce che tu volevi picchiarlo. Siamo in questo fraintendimento totale, nessuno parla più la stessa lingua. I ragazzi vengono tutti con i cellulari, stanno lì a fotografare, e i docenti rincorrono, rincorrono. E poi abbiamo queste classi dove sembra che ci siano solo disagiati (e io rispetto e bacio in fronte i disagiati, sia chiaro)».Che intende?«Ho fatto un esperimento qualche anno fa: ho fatto capoclasse un ragazzo che tutti mi avevano fatto intendere, con gli occhi, che avesse qualcosa “di strano”. In un mese si è risollevato. La sua situazione poteva essere affrontata non con l’insegnante di sostegno, ma mettendolo in mezzo alla realtà della classe. Certo, è ovvio: ci sono ragazzi che hanno problemi veri e seri, non lo metto in dubbio. Ma ce ne sono molti altri che hanno certificazioni e non si capisce bene perché. Ormai anche le famiglie, se un figlio ha un minimo di difficoltà a parlare o di vergogna a leggere in classe (cosa che non si fa più, ma io lo faccio ancora con i Promessi Sposi e tutti mi guardano con gli occhi sgranati), o magari ha un piccolo lieve disagio che viene anche da una mancata socializzazione, lo bollano come uno che ha un problema e gli affiancano l’insegnante di sostegno. È una follia, una perversione: non mi piace la parola perversione, ma questa è una perversione nei confronti dei ragazzi, per cui tante volte basterebbe solo un po’ di attenzione in più da parte dell’insegnante». Sembra che lei descriva due facce della stessa medaglia. Da una parte c’è brutalità diffusa con stupri, risse, violenza... E dall’altra parte c’è quest’idea buonista per cui i ragazzini vanno tenuti al riparo, come per un eccesso di protezione. «Si tratta, in qualche modo, di un’altra violenza. Questa protezione spasmodica è un’altra violenza e lo dico nel mio libro intitolato Contro Pinocchio». Sembra che lei descriva una totale disconnessione dalla realtà, una sorta di mondo al contrario. A tale proposito non posso non chiederle un parere sul libro del generale Vannacci che si intitola proprio così. «Non l’ho letto, mi sto depurando e non leggo nulla, se non i giornali, ma proprio per questo però conosco la vicenda. La trovo ridicola. Come la storia accaduta Spagna, quella del bacio alla calciatrice. Siamo proprio all’assurdo. Questo tizio ha dato un bacio e hanno fatto una rivoluzione, sostenendo che si trattasse di un abuso sessuale. Ma qui siamo nella follia, il mondo sta precipitando». Si è esagerato anche con il generale?«Ma certo che hanno esagerato con il generale. Ognuno può dire quello che vuole. Basta con queste accuse di razzismo e altro. Racconto una storia che mi riguarda. Sono stato denunciato per diffamazione a mezzo stampa per un articolo un po’ scellerato in cui ha scritto “quel gran pederasta di Eddy Monetti”. Monetti era uno stilista da cui io da ragazzino andavo a spendere un sacco di soldi. A Roma, poi, una volta si diceva vecchio pederasta (parola che viene dal greco, e che non significa affatto pedofilo) per indicare vecchi signori, anche asessuati, che avevano un certo atteggiamento. Ebbene sono stato denunciato anche se nell’articolo dicevo tante cose meravigliose di lui. Ma oramai si deve fare attenzione. Io nei miei libri, quando racconto gli anni Settanta, quando parlo di gay - parola orrenda - li chiamo come li chiamavano allora... Ma ora mi taccio che è meglio, non si può più parlare».In effetti si rischia. «I libri sono tutti piallati, tutti editati, non esprimono più nulla. La facoltà degli scrittori, ma anche dei giornalisti, di esprimersi è stata cancellata. Se ti leggi tutte le cronache degli anni Sessanta si trovano descrizioni bestiali, raccontavano i dettagli, anche quelli più duri. Ora c’è solo comunicazione controllata: dai libri al cinema fino al giornalismo. Ragazzi, non se ne può più. A questo punto non parliamo più. Anzi preferisco quasi tacere, ritirarmi da qualche parte e non essere coinvolto dalla volgarità».