2022-01-31
Pesce di lago, questo sconosciuto. Gusto delicato e poche calorie
Carpe, anguille, coregoni, trote, lucci, carpioni: le specie di acqua dolce ora vengono rivalutate. Fanno bene al portafogli perché costano meno del pescato fresco di mare. Ricche di proteine nobili e molto digeribili per lo scarso contenuto di grassi saturi, giovano anche alla corretta alimentazione.Lo chef Matteo Scibilia ha aperto un locale nel centro di Milano: il menù è a base delle prede catturate nei bacini della Lombardia.Lo speciale contiene due articoli.Lo diciamo subito. Il pesce di lago è il nuovo sushi. Sì, è una tesi un po’ pubblicitaria, nel senso di affermata con enfasi, ma la valutazione di base è vera. L’ultima volta che il pesce ci ha ipnotizzato è stato con l’avvento del sushi, così diverso dalla concezione nostrana dei succulenti spaghetti alle vongole o della golosa frittura fumante. La penultima volta, che poi è stata anche la prima, è stata quando il pesce di mare è arrivato in città, non nella forma del filetto affumicato ma di quella, freschissima, del risotto alla pescatora o delle linguine allo scoglio, quando in città tutto c’era e c’è tranne che pescatori e scogli. Freschezza che, quando il commercio era ben più stanziale di oggi, era soggetta al determinismo alimentare del territorio (mangio solo ciò che cresce letteralmente a zero chilometri da me): solo chi viveva al mare mangiava quotidianamente pesce fresco. Oggi, la più grande novità relativa al mondo acquatico è il suo avvento nel ristorante urbano nella forma del pesce di lago. Conosciuto da chi vive in zona lacustre, mistero per chi vive altrove e non ha mai fatto nemmeno una gita al lago, il pesce di lago ha varie specie. Sovente sono diffuse in tutti i laghi, come la carpa comune; talvolta sono endemiche di precisi specchi d’acqua, come il carpione del Fibreno, del lago di Posta Fibreno, o il carpione del Garda. pochi allevamentiI tre pesci di lago che tutti conosciamo almeno di nome sono l’anguilla, la trota e il persico. Troviamo la prima in alcuni supermercati, ma non dappertutto perché non può essere allevata a ritmi industriali. Ogni esemplare di questo pesce, che sembra un serpentone, nasce nel mar dei Sargassi: è lì che le anguille di tutto il mondo migrano per riprodursi. Depositate le uova, muoiono. Dopo la schiusa, i piccoli si rimettono in viaggio verso l’Europa, impresa che dura circa 3 anni. È a questo punto che le giovani anguille vengono catturate e poste in allevamento, ma certamente non si tratta di allevamenti simili a quelli di altri pesci che nascono direttamente in cattività. Di solito, si mangia l’anguilla grande (il capitone) alla griglia, mentre quelle piccole sono molto apprezzate fritte. Anche la trota si pesca, ma è soprattutto allevata: c’è quella iridea e quella salmonata, alimentata con farina di crostacei e perciò rosa come il salmone pescato che mangia gamberetti e krill (a quello di allevamento si somministrano anche cantaxantina e astanxantina, non sempre di origine naturale, per «arrosarne» le carni). Molto simile alla trota è il salmerino. Attenzione al persico che troviamo al supermercato, in primo luogo surgelato: è il persico africano, meno costoso e meno pregiato del nostro. C’è poi il coregone, anche detto lavarello, adatto anche a chi non sa spinare il pesce perché non ha spine; c’è il luccio, il corrispondente lacustre dello squalo, detto infatti anche squalo di lago per la voracità. C’è la tinca e c’è la carpa, la quale avrebbe anche dato il nome alla preparazione «in carpione», con il quale si indica un cibo messo sott’aceto aromatizzato come si fa con tanti pesci, carpa in primis (no, non deriva da carpa anche «carpaccio», lo stesso Giuseppe Cipriani proprietario dell’Harry’s Bar di Venezia spiegò di aver inventato il piatto di sottili fettine crude, in quell’originario caso di carne, nel 1950 per la contessa Amalia Nani Mocenigo che non poteva mangiare carne cotta «e in onore del pittore di cui quell’anno a Venezia si faceva un gran parlare per via della mostra e anche perché il colore del piatto ricordava certi colori dell’artista, lo chiamai carpaccio», raccontò nel libro del 1978 L’angolo dell’Harry’s Bar). Barbo e cavedano sono pesci di lago pressoché sconosciuti e carpione, oltre che nome della preparazione, è anche il nome di un pesce a rischio di estinzione (si sono già estinte le aole, dette alborelle, di cui il Garda, per esempio, era ricco).rischio estinzioneIl pesce di lago fa bene al portafogli, perché costa meno di un pesce fresco e locale di mare. Ma fa bene soprattutto alla salute. Innanzitutto perché è ricco di proteine nobili, cioè quelle animali, che contengono tutti gli amminoacidi che il nostro organismo non è in grado di assimilare e deve acquisire tramite l’alimentazione. Teniamolo presente come ottima alternativa alle altre fonti proteiche, dal pesce di mare alla carne passando per formaggi, uova e legumi. Un altro aspetto che rende il pesce di lago un competitor molto interessante delle precedenti proteine è poi l’alta digeribilità, dovuta anche alla sua leggerezza, e lo scarso contenuto di grassi (e di colesterolo) e di conseguenza di calorie. Generalmente, nel pesce di lago prevalgono i grassi insaturi e questo è un altro punto a suo favore: contrariamente ai grassi saturi, quelli insaturi non causano patologie cardiovascolari, anzi proteggono da esse. Il pesce di lago è anche amico di umore e cervello: i grassi insaturi favoriscono l’efficienza delle cellule del sistema nervoso, diminuiscono il rischio di demenza senile e di morbo di Alzheimer e, in particolare gli acidi grassi insaturi omega 3, hanno anche effetto antinfiammatorio e - parrebbe - antitumorale. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/pesce-di-lago-questo-sconosciuto-gusto-delicato-e-poche-calorie-2656516768.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="basta-con-il-sushi-avanti-con-i-missoltini-le-sarde-che-sanno-di-tradizione-locale" data-post-id="2656516768" data-published-at="1643628471" data-use-pagination="False"> «Basta con il sushi: avanti con i missoltini, le sarde che sanno di tradizione locale» Si fa un gran parlare a Milano del ristorante Piazza Repubblica che da qualche mese ospita Matteo Scibilia (chef già molto noto per l’Osteria della buona condotta di Ornago), perché nessuno, prima, aveva pensato di incentrare un ristorante in città - una città, poi, come Milano - sul pesce di lago, scelta di assoluta controtendenza rispetto al dominio su suolo milanese del pesce di mare o del sushi. Dal menù: trittico del lago, ossia trota salmonata affumicata e perlage di mango; missoltino con polenta di Storo; salmerino in carpione; spaghetti di Gragnano alla maniera del lago, con missoltini, finocchietto selvatico, pinoli e uva passa; risotto con pesce persico, la ricetta tradizionale con riso in cagnone, burro e grana padano Dop; tagliolini al profumo di tartufo, crema di cavolfiori e bottarga di lavarello; filetto di anguilla arrosto e affumicata con polenta e verza stufata. C’è anche un po’ di carne, come i tortellini di Valeggio sul Mincio con triplo burro e grana, le lasagne con ragù di oca, la scaloppa di foie gras di anatra arrosto con pan brioche e cipolla caramellata, la trippa e lampredotto in umido alla milanese, il piccolo bollito (guancia di manzo, lingua di vitello, cotechino lodigiano) con purea di patate, salsa verde e mostarda. Infine i dolci, come la charlotte di mele e pere candite o lo strachin gelad, il semifreddo invernale di Lodi preparato lasciando gelare naturalmente la panna nella giasera (dei dolci si occupa Nicoletta Rossi, moglie di Scibilia e sommelier). Chef, è come se lei avesse trasportato l’Osteria della buona condotta di Ornago a Milano. Come le è venuta l’idea di portare un ristorante quasi monotematico di pesce di lago nel centro di Milano? «La risposta è molto articolata. Sono a Milano da 7-8 mesi e nell’affrontare questa avventura mi sono chiesto come attrarre la clientela milanese che, soprattutto qui in centro, è molto particolare, uomini d’affari e stranieri, perché i più begli alberghi della città sono qui, oltre alla gente locale. Mi ricordo il profumo delle cime di rapa che cucinava mia nonna. Il ricordo di un gusto, di un profumo è qualcosa che ci appartiene. Parlando con alcuni amici, venne fuori che a Milano mancava qualcosa che si potesse introiettare verso il futuro e che fosse una memoria collettiva. Il pesce di lago per me è stato ed è questa sorpresa. Io sono di Bari, anche se sono qui da 45 anni. Amo molto il lago di Como, dove ho sempre avuto casa: Domaso, Gravedona, Lierna, Perledo. Il lago è rilassante, se è bello nebbioso ancora di più. Abbiamo imparato a mangiare, a degustare la cucina del lago. Anche lì fanno il sushi, adesso, è la cucina globalizzata. Ma mangiare un buon lavarello, una buona trota, un pesce persico, il coregone... Rientra nel nostro passato. Mi sono domandato se questo a Milano ci fosse. A parte l’anguilla, che c’è su 3-4 ristoranti su oltre 3.500 locali, e qualche collega che fa qualcosa di lago, come la trota affumicata che si avvicina molto al concetto del salmone, tutto il resto era inesistente. La scelta del pesce di lago è la risposta da imprenditore a un’esigenza imprenditoriale, come attrarre clienti. Scelta di mercato, quindi, ma anche scelta quasi romantica. Mi sono chiesto perché un milanese per mangiare il risotto con il pesce persico deve andare fino a Como, dove è già difficile trovare colleghi che lo facciano? Milano ha l’acqua dolce nel suo Dna, è sottoterra, è coperta. L’altro giorno, con mia moglie Nicoletta, eravamo in via del Laghetto, che si chiama così perché lì c’era il lago. Milano è sopra i Navigli. I famosi marmi del Duomo arrivavano con le barche in via Larga. La memoria storica, e anche romantica, di Milano ha dentro di sé l’acqua dolce. Era normale mangiare tinche, pesce gatto e lavarelli a Milano. Poi, hanno coperto i fiumi, la città è cambiata, sono arrivati i meridionali tra cui il sottoscritto e noi mangiamo le cozze...». Non c’è più a Milano, ma c’è il lago in Lombardia. «Il lago Maggiore è a pochi chilometri da noi, e così il lago di Como, con le ali famose per il Manzoni, il lago di Iseo, qui dietro. E tanti altri piccoli bacini, come il lago di Èndine, un gioiello sulla strada di Bergamo, verso le Valli. Oppure il lago di Pusiano nell’incavo tra Como e Lecco. E in tutti questi laghi c’è tanto pesce... All’inizio, non è stato facile proporlo. Facendo una scelta, bisogna proporre una varietà. Offrire il pesce di lago sotto i vari aspetti, sia di cucina, sia di tipologia. Sfilettato, cotto, nei primi piatti, negli antipasti, nei secondi... Si è rivelata la scelta vincente». Si dice di lei che cerchi il nuovo nella tradizione. Quando si impone il conformismo della novità, che è quanto succede soprattutto a Milano, città più europea e forse anche più americana d’Italia, continuare a essere tradizionalisti vuol dire offrire una nuova originalità? «Assolutamente sì». È quello che lei sta facendo: non cucina soltanto il pesce di lago ai suoi clienti, ma «insegna» loro che esiste... «È proprio così. La cucina, in fondo, anche in questo momento di crisi post pandemica, necessita di questo. Noi andiamo a mangiare nei posti dove ci raccontano qualcosa. Il cibo è racconto». Ma noi lo avevamo dimenticato perché non ci avevano più raccontato niente sul cibo, né noi avevamo più chiesto niente. «Io racconto. La cucina ha sempre due aspetti, uno romantico, uno storico-scientifico. Prendiamo i missoltini. Qui nell’antichità c’era il mare. I missoltini sono le vecchie sarde di mare che sono rimaste intrappolate quando, milioni di anni fa, un ghiacciaio si spostò scivolando verso la Brianza e formando i laghi che oggi conosciamo. Dal punto di vista anatomico, il missoltino è identico alla sarda, tanto che sul lago d’Iseo, dove ci sono molti artigiani che lavorano questo pesce, lo chiamano ancora sarda di lago, mentre sul lago di Como, Lecco e sul Maggiore lo chiamano agone. Quanto alla parte romantica, missoltino deriva da “messo nel tino”: una volta si usavano le piccole botti di legno per essiccare e conservare questo pesce. Ma da più parti ho letto che un principe di Varenna, borgo sul lato lecchese del lago, che si era innamorato di una turista svedese che sembra si chiamasse Miss Holden, chiamò così quel tipo di pesce. Poi, con il tempo, “missolden” è diventato “missoltino”. Io sono anche un po’ siciliano, perché mio padre è di Milazzo. La pasta con le sarde siciliana è un fantastico piatto, i suoi ingredienti sono un buon olio, finocchietto selvatico, uva passa e sarde. Siccome noi abbiamo le sarde di lago, ho pensato di ricostruire quel piatto qui e l’ho chiamato Spaghetti alla maniera del lago, con le sarde del lago. Ogni tanto devo toglierlo dal menù, altrimenti i clienti mangiano solo quello e gli altri piatti si fermano. La tradizione è questo. Una memoria che ci lega al passato. Poi, c’è l’aspetto della sostenibilità. Più che letteralmente a chilometro zero, parliamo di qualche chilometro (da qui a Lecco sono 36 chilometri), ma certamente questi pesci non sono i tonni che arrivano dall’Est asiatico. Proporre pesce di lago vuol dire che c’è un pescatore che sta vivendo grazie alla mia scelta». Mangiare il pesce di lago vuol dire portare in tavola la tradizione, ma anche la produzione artigianale, che sta scomparendo anch’essa... «Qualche giorno fa sono andato a Bellagio a trovare un pescatore, Igor, famoso sul territorio. Ha 3 barche, fa questo lavoro. Fare il pescatore sul lago non è una cosetta da niente, i missoltini, per esempio, si pescano di notte. Ci sono altri pescatori oltre Igor. Sono sempre stupito e incuriosito da queste realtà. La sua bottarga di lavarello, che non è quella del tonno, quasi sempre proveniente dell’Est asiatico, né quella di muggine, sarda, mi dà la certezza di arrivare da Bellagio e da un artigiano vero. Parlando da un punto di vista etico, questa cosa mi rende orgoglioso, perché sto dando una mano a queste persone. Ogni settimana o due, vado a prendere il pesce al lago. Questo è molto importante in termini di attenzione e aiuto al territorio, in questo caso lombardo». Perché il pesce di lago è una buona alternativa a quello di mare? «Perché ha un costo più basso, oggi anche questo è importante. Poi, è ricco di proteine nobili. Ed è anche una carne digeribilissima, è come se fosse il vitello rispetto al manzo. Salmerini, trote, anguille iniziano ad apparire nella grande distribuzione. Anche il baccalà, che non è di lago ma è anch’esso antico. Questi pesci sono diversi».
Toto ha presentato il progetto di eolico offshore galleggiante al largo delle coste siciliane, destinato a produrre circa 2,7 gigawatt di energia rinnovabile. Un’iniziativa che, secondo il direttore di Renexia, rappresenta un’opportunità concreta per creare nuova occupazione e una filiera industriale nazionale: «Stiamo avviando una fabbrica in Abruzzo che genererebbe 3.200 posti di lavoro. Le rinnovabili oggi sono un’occasione per far partire un mercato che può valere fino a 45 miliardi di euro di valore aggiunto per l’economia italiana».
L’intervento ha sottolineato l’importanza di integrare le rinnovabili nel mix energetico, senza prescindere dal gas, dalle batterie e in futuro anche dal nucleare: elementi essenziali non solo per la sicurezza energetica ma anche per garantire crescita e competitività. «Non esiste un’economia senza energia - ha detto Toto - È utopistico pensare di avere solo veicoli elettrici o di modificare il mercato per legge». Toto ha inoltre evidenziato la necessità di una decisione politica chiara per far partire l’eolico offshore, con un decreto che stabilisca regole precise su dove realizzare i progetti e investimenti da privilegiare sul territorio italiano, evitando l’importazione di componenti dall’estero. Sul decreto Fer 2, secondo Renexia, occorre ripensare i tempi e le modalità: «Non dovrebbe essere lanciato prima del 2032. Serve un piano che favorisca gli investimenti in Italia e la nascita di una filiera industriale completa». Infine, Toto ha affrontato il tema della transizione energetica e dei limiti imposti dalla legislazione internazionale: la fine dei motori a combustione nel 2035, ad esempio, appare secondo lui irrealistica senza un sistema energetico pronto. «Non si può pensare di arrivare negli Usa con aerei a idrogeno o di avere un sistema completamente elettrico senza basi logiche e infrastrutturali solide».
L’incontro ha così messo in luce le opportunità dell’eolico offshore come leva strategica per innovazione, lavoro e crescita economica, sottolineando l’urgenza di politiche coerenti e investimenti mirati per trasformare l’Italia in un hub energetico competitivo in Europa.
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A condurre, il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin. In apertura, Belpietro ha ricordato come la guerra in Ucraina e lo stop al gas russo deciso dall’Europa abbiano reso evidenti i costi e le difficoltà per famiglie e imprese. Su queste basi si è sviluppato il confronto con Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, società con 70 anni di storia e oggi attore nazionale nel settore energetico.
Cecconato ha sottolineato la centralità del gas come elemento abilitante della transizione. «In questo periodo storico - ha osservato - il gas resta indispensabile per garantire sicurezza energetica. L’Italia, divenuta hub europeo, ha diversificato gli approvvigionamenti guardando a Libia, Azerbaijan e trasporto via nave». Il presidente ha poi evidenziato come la domanda interna nel 2025 sia attesa in crescita del 5% e come le alternative rinnovabili, pur in espansione, presentino limiti di intermittenza. Le infrastrutture esistenti, ha spiegato, potranno in futuro ospitare idrogeno o altri gas, ma serviranno ingenti investimenti. Sul nucleare ha precisato: «Può assicurare stabilità, ma non è una soluzione immediata perché richiede tempi di programmazione lunghi».
La seconda parte del panel è stata guidata da Giuliano Zulin, che ha aperto il confronto con le testimonianze di Maria Cristina Papetti e Maria Rosaria Guarniere. Papetti ha definito la transizione «un ossimoro» dal punto di vista industriale: da un lato la domanda mondiale di energia è destinata a crescere, dall’altro la comunità internazionale ha fissato obiettivi di decarbonizzazione. «Negli ultimi quindici anni - ha spiegato - c’è stata un’esplosione delle rinnovabili. Enel è stata tra i pionieri e in soli tre anni abbiamo portato la quota di rinnovabili nel nostro energy mix dal 75% all’85%. È tanto, ma non basta».
Collegata da remoto, Guarniere ha descritto l’impegno di Terna per adeguare la rete elettrica italiana. «Il nostro piano di sviluppo - ha detto - prevede oltre 23 miliardi di investimenti in dieci anni per accompagnare la decarbonizzazione. Puntiamo a rafforzare la capacità di scambio con l’estero con un incremento del 40%, così da garantire maggiore sicurezza ed efficienza». Papetti è tornata poi sul tema della stabilità: «Non basta produrre energia verde, serve una distribuzione intelligente. Dobbiamo lavorare su reti smart e predittive, integrate con sistemi di accumulo e strumenti digitali come il digital twin, in grado di monitorare e anticipare l’andamento della rete».
Il panel si è chiuso con un messaggio condiviso: la transizione non può prescindere da un mix equilibrato di gas, rinnovabili e nuove tecnologie, sostenuto da investimenti su reti e infrastrutture. L’Italia ha l’opportunità di diventare un vero hub energetico europeo, a patto di affrontare con decisione le sfide della sicurezza e dell’innovazione.
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