2020-03-11
In Italia il virus uccide di più perché mancano i posti letto
Seul ha poche decine di decessi sebbene abbia quasi i nostri contagi, ma nel Paese c'è il quadruplo dei presidi ospedalieri per abitante. In Germania il doppio. Dopo anni di tagli siamo indietro pure sulle terapie intensive.La Germania ignora le vittime se presentano altre patologie. Italia, Cina e Corea cercano invece di identificare tutti i positivi.Allo Spallanzani esiste una struttura ad alto isolamento, nuova di zecca, costruita apposta per queste emergenze. Voluta da Guido Bertolaso, mai attivata a causa delle inchieste sulla Protezione civile.Lo speciale contiene tre articoli.Paese che vai, mortalità del coronavirus che trovi. Su questo specifico punto l'Organizzazione mondiale della sanità è stata piuttosto chiara fin dall'inizio: la gravità del contagio dipenderà in buona parte anche dal livello di preparazione del sistema sanitario di ciascuno Stato, e dunque dalla sua capacità di assorbire il colpo dell'epidemia. Stando agli ultimi dati, il tasso di mortalità per Covid-19 in Italia è decisamente più alto rispetto agli altri Paesi del mondo. Si parla di differenze non trascurabili, che pongono interrogativi seri e delicati, e sui quali solo una conoscenza approfondita e prolungata nel tempo del virus e del suo comportamento potrà fornire una risposta. Tuttavia, osservando i numeri nudi e crudi non si può fare a meno di notare uno scostamento notevole. Nel nostro Paese, ormai stabilmente al secondo posto per numero di casi nel mondo, il tasso di mortalità si attesta addirittura al 6,22% (631 decessi su 10.149 casi totali). Occorre tuttavia specificare che i dati di ieri sono viziati dal fatto che la Lombardia ha comunicato il numero dei decessi, ma non quello dei contagi. Fino a lunedì, comunque, il tasso di mortalità viaggiava allo 5,05%, un valore molto più elevato di quello del resto del mondo, che invece si ferma al 3,48%. Parlando della Cina, luogo dal quale il patogeno si è diffuso per poi contagiare il mondo intero, occorre fare una distinzione: la maggior parte dei decessi (circa il 96%) si trova nella provincia di Hubei, epicentro dell'epidemia, dove la percentuale di decessi è paragonabile alla nostra (4,43%), mentre nel resto del Dragone è decisamente più bassa, addirittura inferiore all'1% (0,88%). Positivo l'andamento della mortalità anche in Corea del Sud, che pure si aggiudica il terzo gradino del podio per numero di casi (7.513), e nella quale il tasso si attesta allo 0,72%. Dati inferiori all'Italia anche in Francia (1,16% per 949 casi) e, soprattutto, in Germania, dove si contano appena 2 decessi su 1.139 contagi.Quali possono essere le cause che hanno portato a queste differenze tanto marcate? Ovviamente non si può non tenere conto delle diverse modalità di conteggio dei decessi e delle tempistiche di avanzamento dell'epidemia, fattore quest'ultimo che fa presagire come negli altri Paesi la diffusione del virus sia ancora ben lungi dall'aver espresso il massimo potenziale. Senza contare le abitudini di vita, compresa una maggiore inclinazione alle relazioni sociali, e la composizione demografica della popolazione. Tutti elementi che, almeno sulla carta, giocano a nostro sfavore. Ma al netto di questi importantissimi caveat, è possibile identificare un comune denominatore in grado di giustificare, almeno parzialmente, un andamento tanto sfavorevole nel nostro Paese?Senza dubbio la resilienza del sistema sanitario di fronte a uno choc di questa portata diventa determinante. Non si può tenere in considerazione solo la gratuità dei servizi e la (sacrosanta) universalità di accesso alle cure: in situazioni di crisi come quella che stiamo affrontando in queste settimane, uno degli elementi in grado di mitigare gli effetti risulta senza dubbio la capacità di accoglienza delle strutture sanitarie. E da questo punto di vista, gli altri Stati ci fanno le scarpe. Prendiamo il dato dei posti letto, un marker infallibile per valutare la qualità del sistema salute di un Paese. Negli ultimi tre decenni, dati Ocse alla mano, in Italia si è assistito a una lenta ma costante diminuzione della disponibilità per abitante: si è passati infatti dai 6,8/1.000 abitanti del 1991 ai 3,18 del 2017. Tradotto in parole semplici, meno della metà. Nello stesso periodo la Germania è passata da 10,1 a 8 posti ogni 1.000 abitanti. Dunque, nonostante la lieve flessione, Berlino ci surclassa in termini assoluti. Quello che impressiona è la cavalcata trionfale della Corea del Sud, risalita dai 2,48 di trent'anni fa ai 12,27 posti odierni, vale a dire quasi il quadruplo di quelli italiani. Una progressione che ha permesso a Seul di guadagnarsi il secondo gradino del podio a livello mondiale dopo il Giappone. Paradossalmente, queste cifre hanno suscitato più di una polemica nella penisola coreana, dal momento che un così grande numero di strutture necessita di essere adeguatamente approvvigionato di personale medico, al fine di garantire elevati standard qualitativi. Parlano da soli anche i numeri della terapia intensiva, la cui robustezza gioca oggi un ruolo fondamentale nella sfida contro il coronavirus. Qua la fa da padrona la Germania, la quale può contare su 28.000 posti letto (34 ogni 100.000 abitanti) a disposizione degli ammalati più gravi. Poco più indietro la Corea, con 10.000 posti letto che si traducono in 20 ogni 100.000 abitanti. Distante anni luce l'Italia, che dispone di appena 5.100 posti, cioè 8 ogni 100.000 abitanti. Un gap imbarazzante dovuto in gran parte dai tagli alla sanità dell'ultimo decennio, e in assenza del quale il nostro Paese sarebbe stato in grado di affrontare l'epidemia con armi ben più efficaci. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/pero-in-italia-abbiamo-piu-morti-anche-per-carenza-di-posti-letto-2645453863.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="miracolo-tedesco-occhio-berlino-non-conta-i-decessi-come-facciamo-noi" data-post-id="2645453863" data-published-at="1757938940" data-use-pagination="False"> Miracolo tedesco? Occhio, Berlino non conta i decessi come facciamo noi Il virus ha reso l'Italia come una zona di guerra. In Francia, minaccia la classe dirigente. In Germania, invece, nonostante il contagio inizi a galoppare, l'allarme è rimasto contenuto. Soprattutto, il Paese registra un numero di vittime esiguo: due (la terza era un pompiere tedesco di 60 anni morto in Egitto) su 1.457 infetti. Ma fu vera gloria, direbbe Alessandro Manzoni? Forse no. Forse anche i teutonici hanno un problema, ma l'hanno gestito all'anglosassone: sobrietà e scarsa enfasi, finché possibile. È vero che in Germania, dopo una partenza timida, la frequenza dei tamponi è cresciuta. Non v'è però certezza sul totale: i negativi non vengono comunicati. Le casse mediche Kbv parlano di 35.000 test. Eppure, nessun accertamento è stato compiuto sui 202 pazienti morti per influenza. Non è da escludere, dunque, che qualcuno di loro avesse contratto il coronavirus. Peraltro, stando al racconto di una donna tedesca rientrata dall'Italia, riportato da Berlino magazine, farsi esaminare, nel Paese, non è affatto facile. La signora dichiara di avere accusato sintomi da Covid-19, ma di non essere riuscita a mettersi in contatto con un medico né tramite i numeri verdi per l'emergenza, né raggiungendo di persona il tendone allestito da un ospedale berlinese: si somministrano 60 tamponi al giorno nonostante le file di centinaia di persone (e privatamente, il test costa 300 euro, «ma nessuno sa come si faccia»). Inoltre, segnalava giorni fa Sky Tg24, chi è stato colpito dal coronavirus, ma al momento del decesso soffriva di patologie più gravi, è stato incluso nel conteggio dei morti a causa di quelle altre malattie. Pertanto, le cosiddette «comorbidità» contribuirebbero a diminuire la portata del fenomeno. Più o meno, è lo stesso (mezzo) tentativo fatto in Italia: dopo aver scatenato il panico, il governo aveva avallato l'idea che si muore «con» il coronavirus e non «per» il coronavirus. Da noi, alla fine, ha prevalso l'approccio alla cinese o alla coreana: cercare, attraverso i tamponi, tutti i positivi e quindi associare al Covid-19 i 631 morti registrati fino a ieri. Non significa per forza che siamo più trasparenti: dipende da che via è stata scelta - e perché: meno caos significa meno danni economici. Per di più, in Germania i Länder godono di ampia autonomia in ambito sanitario: è possibile che alcuni utilizzino metodi di calcolo che sottostimano la diffusione del virus. Ufficialmente, i tedeschi attribuiscono i pochi decessi (un'ottantanovenne di Hessen e un settantottenne di Heisenberg) all'età media dei contagiati. Secondo Lothar Wieler, presidente del Robert Koch Institute, l'organizzazione responsabile per il controllo e la prevenzione delle malattie infettive, i positivi, in Germania, «nel 70% dei casi» hanno tra i 20 e i 50 anni. L'età media lì è di 40 anni, in Italia è di 60. Lo studioso, tuttavia, ha precisato che «nelle prossime settimane e mesi» i dati dei due Paesi tenderanno ad allinearsi. È in questo solco che, «per tranquillizzare complottisti scemi e idioti d'ogni genere», s'è mosso il corrispondente eurolirico Udo Gümpel: «Dopo il morto vigile di fuoco amburghese deceduto in Egitto», ha twittato in italiano teutonicizzato, «anche due malati di coronavirus in Germania sono deceduti [...]. Due focolai. Dunque: niente immunità crucca». I tedeschi «sono mortali». Lo stesso Gümpel, in un altro ameno cinguettio, aveva spiegato che gli anziani tedeschi si ammalano di meno perché «hanno molto meno socialità, per esempio bar e ritrovi: socialmente più isolati ma protetti». Più laicamente, il vicepresidente di International Sos, la principale azienda di servizi di sicurezza medica del mondo, interpellato da Fox news, aveva osservato che «il distanziamento sociale potrebbe essere più complicato in culture avvezze al contatto intimo». Se c'è un'epidemia e una nazione algida ne incontra una di baci e abbracci, quella di baci e abbracci è morta... Non si possono non prendere sul serio, però, i riscontri sulle dotazioni del servizio sanitario tedesco. L'ha ricordato il ministro della Salute, Jens Spahn: la Germania dispone di 28.000 posti in terapia intensiva, il dato più alto d'Europa, anche se i letti totali risultano già occupati per l'80%. L'Italia è entrata nel pieno dell'emergenza con 5.100 unità di rianimazione. Probabilmente è questo il superpotere teutonico, che consente una relativa tranquillità, nonostante l'esecutivo di Berlino abbia ammesso l'esistenza di focolai locali (ci sono casi in tutti i 16 Länder), abbia attivato il Piano nazionale antipandemia, abbia richiesto la sospensione degli eventi con più di 1.000 partecipanti, abbia deciso che il match di Champions League, Bayern-Chelsea, si giocherà a porte chiuse e sia orientato a limitare l'accesso agli stadi pure in Bundesliga, con buona pace della Federcalcio tedesca. Nel frattempo, musei, teatri e discoteche restano aperti. E il ministro dell'Economia, Peter Altmaier, ha forse lasciato intendere qual è lo scenario che la Germania, tenendo i toni bassi, vuole fugare: «Quanto più lentamente si diffonde il virus, tanto più è probabile che possiamo prevenire una recessione economica». Essere «appestati» costa. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/pero-in-italia-abbiamo-piu-morti-anche-per-carenza-di-posti-letto-2645453863.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="a-roma-un-altro-centro-anti-epidemie-il-problema-e-che-e-chiuso-da-15-anni" data-post-id="2645453863" data-published-at="1757938940" data-use-pagination="False"> A Roma un altro centro anti epidemie. Il problema è che è chiuso da 15 anni Negli ospedali della Lombardia ormai prossimi al collasso si creano reparti di terapia intensiva perfino nei corridoi per cercare di fermare il coronavirus? A Roma, facendo tutti gli scongiuri possibili, si sta cercando, in poche ore, di allestire un circuito parallelo per i malati con Covid-19 per non allargare il contagio e garantire l'assistenza anche ai pazienti delle «normali» patologie? Allo Spallanzani, il centro romano specializzato per le malattie infettive, esiste un ospedale «ad alto isolamento», nuovo di zecca, costruito apposta per affrontare le nuove pesti del terzo millennio. Ma da quindici anni, impeccabile nella sua struttura modernissima, è inutilizzato. Ultimato ma assolutamente, irrimediabilmente, lasciato a fare solo da monumento a se stesso. Le vetrate impeccabili che lo avvolgono riflettono le nuvole e il verde dei giardini. Soprattutto sono lo specchio della strana sindrome da cupio dissolvi, o semplicemente taffaziana, più pericolosa di ogni infezione che da tempo ammorba l'Italia. Un esempio di come pastoie burocratiche insieme a furori giustizialisti riescano ad ingoiare tutto nella pubblica amministrazione ed in particolare nella sanità, malefatte o presunte tali ed eccellenze. La storia è molto semplice. La struttura viene concepita e realizzata nel 2003-2004 ai tempi della Sars sotto l'egida di Guido Bertolaso, sottosegretario al governo Berlusconi con delega alla Protezione civile, che oltre ad essere un grande organizzatore ed essere circondato da un team di prim'ordine, è, combinazione, anche un medico. La Sars, l'altra infezione da coronavirus dilagata dalla Cina dal 2002 al 2004, fortunatamente non ha lo sviluppo da pandemia che si temeva. Ma la struttura ormai c'è. Anche l'ospedale «anti-epidemie» viene inghiottito nell'indagine contro Bertolaso e quella che noi della grancassa mediatica abbiamo chiamato la «cricca». Ma, piaccia o no, si tratta di una grande intuizione scientifico-operativa. Come stiamo scoprendo a costi altissimi in questi giorni le nuove pesti richiedono di avere strutture dedicate, riservate solo a questi malati per evitare il collasso dell'intero sistema sanitario. Così ad esempio nel Lazio, che, Dio non voglia, potrebbe essere investito in pieno dallo «sciame infettivo» del Covid-19, in tutta fretta si sta cercando di allestire un circuito parallelo che fa capo ai tre poli ospedalieri universitari (Umberto I, Tor Vergata, Gemelli) e che non metta a contatto i contagiati con altri, malati per altre patologie o sani che siano. In tutta la sua splendida solitudine di vetrocemento questo fantasma delle buone intuizioni sta lì, 200-300 metri al massimo dallo Spallanzani dove medici, infermieri, pazienti da settimane sono in prima linea sul fronte di questa guerra contro il nemico invisibile. Costato a quanto pare intorno ad una trentina di milioni, chi l'ha visitato dice che ha 10 posti letto di terapia intensiva «ad altissimo isolamento» e 20 posti «ad alto isolamento». Mancano solo le macchine e le attrezzature. «Anche se l'epidemia da coronavirus penso finisca prima, almeno lo spero, che possa essere resa funzionante», dice una fonte medica, «è evidente che una struttura così potrebbe essere molto utile nell'emergenza attuale». A quanto è dato sapere mancano i collaudi: l'opera formalmente non è ancora stata collaudata. Insomma, passaggi burocratici. Chi scrive nel 2014 ai tempi di Ebola per il Tg5 realizzò un servizio nel quale l'allora responsabile della Protezione civile (competente sulla struttura) assicurò: entro sei mesi l'ospedale ad alto isolamento sarà perfettamente funzionante. «La verità è che è finito nel tritatutto della Protezione civile», dichiara una fonte medica che vuole restare anonima, «non sono passati sei mesi ma sei anni e non è stato fatto nulla». «È una struttura di assoluta eccellenza, all'avanguardia in Europa e nel mondo», riconoscono alla Protezione civile. E dunque? «Da un po' è partito il collaudo tecnico-amministrativo ovvero la verifica degli atti. Il collaudo funzionale lo abbiamo completato, l'ultimo step è stato il collaudo dei reflui», fanno sapere. Insomma è stata realizzata a regola d'arte. «Le lungaggini? Sono dovute al fatto che dopo l'emergenza del 2003 si sono seguite le procedure ordinarie». Ah beh… «Nel Milleproroghe», continuano, «sono già stanziate le risorse perché la Regione Lazio la faccia funzionare». Tempo previsto per il trasferimento dalla Protezione civile alla Regione: settembre. Speriamo non del 2035.
Il presidente di Generalfinance e docente di Corporate Finance alla Bocconi Maurizio Dallocchio e il vicedirettore de la Verità Giuliano Zulin
Dopo l’intervista di Maurizio Belpietro al ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, Zulin ha chiamato sul palco Dallocchio per discutere di quante risorse servono per la transizione energetica e di come la finanza possa effettivamente sostenerla.
Il tema centrale, secondo Dallocchio, è la relazione tra rendimento e impegno ambientale. «Se un green bond ha un rendimento leggermente inferiore a un titolo normale, con un differenziale di circa 5 punti base, è insensato - ha osservato - chi vuole investire nell’ambiente deve essere disposto a un sacrificio più elevato, ma serve chiarezza su dove vengono investiti i soldi». Attualmente i green bond rappresentano circa il 25% delle emissioni, un livello ritenuto ragionevole, ma è necessario collegare in modo trasparente raccolta e utilizzo dei fondi, con progetti misurabili e verificabili.
Dallocchio ha sottolineato anche il ruolo dei regolamenti europei. «L’Europa regolamenta duramente, ma finisce per ridurre la possibilità di azione. La rigidità rischia di scoraggiare le imprese dal quotarsi in borsa, con conseguenze negative sugli investimenti green. Oggi il 70% dei cda delle banche è dedicato alla compliance e questo non va bene». Un altro nodo evidenziato riguarda la concentrazione dei mercati: gli emittenti privati si riducono, mentre grandi attori privati dominano la borsa, rendendo difficile per le imprese italiane ed europee accedere al capitale. Secondo Dallocchio, le aziende dovranno abituarsi a un mercato dove le banche offrono meno credito diretto e più strumenti di trading, seguendo il modello americano.
Infine, il confronto tra politica monetaria europea e americana ha messo in luce contraddizioni: «La Fed dice di non occuparsi di clima, la Bce lo inserisce nei suoi valori, ma non abbiamo visto un reale miglioramento della finanza green in Europa. La sensibilità verso gli investimenti sostenibili resta più personale che istituzionale». Il panel ha così evidenziato come la finanza sostenibile possa sostenere la transizione energetica solo se accompagnata da chiarezza, regole coerenti e attenzione al ritorno degli investimenti, evitando mode o vincoli eccessivi che rischiano di paralizzare il mercato.
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Intervistato da Maurizio Belpietro, direttore de La Verità, il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto Fratin non usa giri di parole: «Io non sono contro l’elettrico, sono convinto che il motore elettrico abbia un futuro enorme. Ma una cosa è credere in una tecnologia, un’altra è trasformarla in un’imposizione politica. Questo ha fatto l’Unione Europea con la scadenza del 2035». Secondo Pichetto Fratin, il vincolo fissato a Bruxelles non nasce da ragioni scientifiche: «È come se io oggi decidessi quale sarà la tecnologia del 2040. È un metodo sovietico, come le tavole di Leontief: la politica stabilisce dall’alto cosa succederà, ignorando il mercato e i progressi scientifici. Nessuno mi toglie dalla testa che Timmermans abbia imposto alle case automobilistiche europee – che all’epoca erano d’accordo – il vincolo del 2035. Ma oggi quelle stesse industrie si accorgono che non è più sostenibile».
Il motore elettrico: futuro sì, imposizioni no. Il ministro tiene a ribadire di non avere pregiudizi sulla tecnologia: «Il motore elettrico è il più semplice da costruire, ha sette-otto volte meno pezzi, si rompe raramente. Pensi al motore del frigorifero: quello di mia madre ha funzionato cinquant’anni senza mai guastarsi. È una tecnologia solida. Ma da questo a imporre a tutti gli europei di pagare la riconversione industriale delle case automobilistiche, ce ne corre». Colonnine e paradosso dell’uovo e della gallina. Belpietro chiede conto del tema infrastrutturale: perché le gare per le colonnine sono andate deserte? Pichetto Fratin replica: «Perché non c’è il mercato. Non ci sono abbastanza auto elettriche in circolazione, quindi nessuno vuole investire. È il classico paradosso: prima l’uovo o la gallina?». Il ministro racconta di aver tentato in tutti i modi: «Ho fatto bandi, ho ripetuto le gare, ho perfino chiesto a Rfi di partecipare. Alla fine ho dovuto riconvertire i 597 milioni di fondi europei destinati alle colonnine, dopo una lunga contrattazione con Bruxelles. Ma anche qui si vede l’assurdità: l’Unione Europea ci impone obiettivi, senza considerare che il mercato non risponde».
Prezzi eccessivi e mercato bloccato. Un altro nodo è il costo delle auto elettriche: «In Germania servono due o tre annualità di stipendio di un operaio per comprarne una. In Italia ce ne vogliono cinque. Non è un caso che fino a poco tempo fa fossero auto da direttori di giornale o grandi manager. Questo non è un mercato libero, è un’imposizione politica». L’errore: imporre il motore, non le emissioni. Per Pichetto Fratin, l’errore dell’Ue è stato vincolare la tecnologia, non il risultato: «Se l’obiettivo era emissione zero nel 2035, bastava dirlo. Ci sono già veicoli diesel a emissioni zero, ci sono biocarburanti, c’è il biometano. Ma Bruxelles ha deciso che l’unica via è l’elettrico. È qui l’errore: hanno trasformato una direttiva ambientale in un regalo alle case automobilistiche, scaricando il costo sugli europei».
Bruxelles e la vicepresidente Ribera. Belpietro ricorda le dichiarazioni della vicepresidente Teresa Ribera. Il ministro risponde: «La Ribera è una che ascolta, devo riconoscerlo. Ma resta molto ideologica. E la Commissione Europea è un rassemblement, non un vero governo: dentro c’è di tutto. In Spagna, per esempio, la Ribera è stata protagonista delle scelte che hanno portato al blackout, puntando solo sulle rinnovabili senza un mix energetico». La critica alla Germania. Il ministro non risparmia critiche alla Germania: «Prima chiudono le centrali nucleari, poi riaprono quelle a carbone, la fonte più inquinante. È pura ipocrisia. Noi in Italia abbiamo smesso col carbone, ma a Berlino per compiacere i Verdi hanno abbandonato il nucleare e sono tornati indietro di decenni».
Obiettivi 2040: «Irrealistici per l’Italia». Si arriva quindi alla trattativa sul nuovo target europeo: riduzione del 90% delle emissioni entro il 2040. Pichetto Fratin è netto: «È un obiettivo irraggiungibile per l’Italia. I Paesi del Nord hanno territori sterminati e pochi abitanti. Noi abbiamo centomila borghi, due catene montuose, il mare, la Pianura Padana che soffre già l’inquinamento. Imporre le stesse regole a tutti è sbagliato. L’Italia rischia di non farcela e di pagare un prezzo altissimo». Il ruolo del gas e le prospettive future. Il ministro difende il gas come energia di transizione: «È il combustibile fossile meno dannoso, e ci accompagnerà per decenni. Prima di poterlo sostituire servirà il nucleare di quarta generazione, o magari la fusione. Nel frattempo il gas resta la garanzia di stabilità energetica». Conclusione: pragmatismo contro ideologia. Nelle battute finali dell’intervista con Belpietro, Pichetto Fratin riassume la sua posizione: «Ridurre le emissioni è un obiettivo giusto. Ma un conto è farlo con scienza e tecnologia, un altro è imporre scadenze irrealistiche che distruggono l’economia reale. Qui non si tratta di ambiente: si tratta di ideologia. E i costi ricadono sempre sugli europei.»
Il ministro aggiunge: «Oggi produciamo in Italia circa 260 TWh. Il resto lo importiamo, soprattutto dalla Francia, poi da Montenegro e altri paesi. Se vogliamo davvero dare una risposta a questo fabbisogno crescente, non c’è alternativa: bisogna guardare al nucleare. Non quello di ieri, ma un nuovo nucleare. Io sono convinto che la strada siano i piccoli reattori modulari, anche se aspettiamo i fatti concreti. È lì che dobbiamo guardare». Pichetto Fratin chiarisce: «Il nucleare non è un’alternativa alle altre fonti: non sostituisce l’eolico, non sostituisce il fotovoltaico, né il geotermico. Ma è un tassello indispensabile in un mix equilibrato. Senza, non potremo mai reggere i consumi futuri». Gas liquido e rapporti con gli Stati Uniti. Il discorso scivola poi sul gas: «Abbiamo firmato un accordo standard con gli Stati Uniti per l’importazione di Gnl, ma oggi non abbiamo ancora i rigassificatori sufficienti per rispettarlo. Oggi la nostra capacità di importazione è di circa 28 miliardi di metri cubi l’anno, mentre l’impegno arriverebbe a 60. Negli Usa i liquefattori sono in costruzione: servirà almeno un anno o due. E, comunque, non è lo Stato a comprare: sono gli operatori, come Eni, che decidono in base al prezzo. Non è un obbligo politico, è mercato». Bollette e prezzi dell’energia. Sul tema bollette, il ministro precisa: «L’obiettivo è farle scendere, ma non esistono bacchette magiche. Non è che con un mio decreto domani la bolletta cala: questo accadeva solo in altri regimi. Noi stiamo lavorando per correggere il meccanismo che determina il prezzo dell’energia, perché ci sono anomalie evidenti. A breve uscirà un decreto con alcuni interventi puntuali. Ma la verità è che per avere bollette davvero più basse bisogna avere energia a un costo molto più basso. E i francesi, grazie al nucleare, ce l’hanno a prezzi molto inferiori ai nostri».
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