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2019-05-04
Per un seggio Juncker dice il vero su Berlino
Ansa
Jean Claude Juncker è un avvocato lussemburghese. Dal 1995 al 2013 è stato primo ministro del piccolo Granducato, ministro del Tesoro e del Lavoro. La sua costante è sempre stata la capacità di cambiare forma. Per anni ha costruito schemi fiscali iper incentivanti per le aziende multinazionali a discapito degli altri Paesi Ue e poi, con il cappello della Commissione (dopo aver archiviato la strategia in patria), ha bastonato le nazioni più furbette. D'altronde gestire un piccolo Paese necessita di velocità politica e capacità di essere camaleonti se almeno si vuole restare in sella così tanto. Ora che il suo mandato di presidente della Commissione volge al termine le capriole aumentano.
«Anche la Germania, come l'Italia, ha più volte sforato il patto di stabilità», ha detto Juncker in occasione di un'intervista al quotidiano tedesco Handelsblatt, «e Berlino continua a farlo». Secondo Juncker, la Germania - sempre critica nei confronti della politica di bilancio italiana - avrebbe violato l'accordo ben 18 volte. Il riferimento è al rapporto tra debito e Pil e al tetto del 3% di deficit superato ben sette volte. Senza dimenticare il surplus costantemente sopra il 6%.
«Non ci sono progressi sull'approfondimento dell'unione monetaria perché Olanda, Austria e troppo spesso la Germania si mettono in mezzo sulla solidarietà e la responsabilità congiunta. Tuttavia sono ancora speranzoso. La Germania non è ancora pronta, ma molti politici tedeschi vogliono avanzare», ha aggiunto ancora il presidente della Commissione. «Ci sono due problemi sull'eurozona», ha aggiunto, «ogni Stato vede solo sé stesso. E l'eurozona in generale non riesce a guardare al resto del mondo. Queste due cose portano alle conclusioni sbagliate». Dopo anni di scherni e attacchi all'Italia questa giravolta contro le politiche di Angela Merkel suona molto strana. Juncker si è redento? Ha cambiato veramente idea? Perchè adesso dice la verità su Berlino? Vale la sua costante politica.
La risposta è: pur di mantenere un seggio sta cambiando schieramento. Così va letto anche il suo approccio al dopo Mario Draghi. «Non mi preoccuperebbe affatto se il presidente della Bce fosse un tedesco», ha aggiunto sempre nel corso dell'intervista. «Jens Weidmann è un convinto europeista e un banchiere centrale di grande esperienza, per cui sarebbe adatto a quel ruolo. Non mi sto esprimendo a favore o contro di lui. Ma decisamente non condivido il punto di vista che è prevalente in alcune parti dell'Europa meridionale per cui un tedesco non debba essere il presidente della Bce», ha concluso. In realtà Juncker sa benissimo che la candidatura di un tedesco al vertice della Bce va benissimo a Paesi del Mediterraneo, come l'Italia, perché ostacolerebbe l'ascesa della Merkel al vertice della Commissione. Lo stesso Juncker preferisce in questo preciso momento storico stoppare la Cancelliera. Ha bisogno di nuove alleanze elettorali se vuole salvare il proprio partito e ricavarsi almeno un ruolo dentro i Cristiano sociali. Se, invece, si accoda alla Merkel e a Emmanuel Macron la sua possibilità di sparire è molto elevata.
Lo scorso mese di novembre, erano state proprio Francia e Germania a siglare un accordo in merito al rispetto delle regole del patto stabilità. I Paesi che violano i vincoli, avevano stabilito i due Stati membri, non beneficeranno dei fondi sul prossimo bilancio dell'eurozona. Ecco questo patto per Juncker adesso è un ferro incandescente da gettare via il più possibile lontano per cercare di ricavare una nicchia dentro un Partito popolare europeo riformato. Chi deve stare all'interno perché avvenga il giochino di Juncker? Proprio quel Victor Orbán fondatore del partito Fidesz che è stato sospeso un tempo dal Ppe per una serie di cartelloni elettorali in cui si accusava Juncker di complottare con il milionario ungherese George Soros per far entrare in Europa più migranti. L'altro giorno, in occasione dell'anniversario dei 15 anni dall'allargamento a Est, il presidente della commissione europea ha invece definito Orbán un eroe: «Sì, per anni ho definito privatamente Orbán un dittatore, ma lui ha sempre riso di questa cosa. Ho il massimo riguardo per Viktor».
Se la giravolta non fosse abbastanza chiara, Juncker ha aggiunto - in occasione di un'intervista al giornale ungherese Hvg anche un passaggio sulle recenti modifiche di legge compiute da Polonia e Ungheria: «Di tanto in tanto, alcuni Paesi si concedono un certo grado di insubordinazione, a seconda di chi è al potere e della fase del ciclo politico in cui si trovano. Ma sono fiducioso che questi problemi non ci preoccuperanno più». Come dire, le paginate sui quotidiani di sinistra contro la dittatura di Orbàn erano fuffa. Adesso, si fa sul serio. Bisogna conquistare seggi all'europarlamento a qualunque costo e con ogni alleato.
Bruxelles benedice il patto delle batterie franco-tedesco
Francia e Germania continuano a gettare le basi di un futuro comune, con la benedizione di Bruxelles. Sta per nascere infatti un consorzio industriale, composto da società dei due Paesi attive nel settore delle batterie per auto elettriche. Tra queste ci saranno le tedesche Opel (controllata dalla francese Psa) e Siemens, oltre al produttore francese di batterie Saft (controllata dal gruppo Total). A esse dovrebbe affiancarsi anche il gigante della chimica belga, Solvay. La stampa transalpina ha battezzato questo nuovo soggetto economico franco-tedesco l'«Airbus delle batterie». Il riferimento al gigante dei cieli, fiore all'occhiello dell'alleanza economica tra Parigi e Berlino è chiaro. E l'intenzione, nemmeno troppo taciuta da Francia e Germania, è quella di far nascere un colosso. Un soggetto che renderà ancora più concreto il trattato di Aquisgrana, che mira alla convergenza tra le nazioni sulle due sponde del Reno.
Nella conferenza stampa del 2 maggio, alla quale hanno partecipato il ministro francese dell'economia e delle finanze, Bruno Le Maire, il suo omologo tedesco, Peter Altmaier, e il Commissario europeo all'energia, Maros Sefcovic, sono già state annunciate delle cifre che parlano chiaro. «Per costruire le prime linee di produzione verranno investiti 5 o 6 miliardi di euro», ha spiegato il ministro francese, aggiungendo che «1,2 miliardi di euro al massimo» saranno rappresentati da sovvenzioni pubbliche. Circa 4 miliardi di euro saranno invece costituiti da fondi privati. La Francia investirà circa 700 milioni di euro su cinque anni. La Germania invece ha previsto di versare al massimo 1 miliardo di euro.
La presenza del Commissario Ue (che su Twitter si è complimentato con i «campioni europei, leader di un settore strategico») mostra che la Commissione ha steso il tappeto rosso davanti a questa alleanza economica. Per ora c'è un «accordo di principio», ma entro la fine del mandato della compagine guidata da Jean Claude Juncker - previsto per ottobre - dovrebbe arrivare anche un'approvazione definitiva. Nell'attesa, come ha confermato Sefcovic, «la Commissione europea continuerà a giocare il ruolo di facilitatore».
Ma per l'Ue in generale, e per l'Italia in particolare, le ricadute legate alla creazione del consorzio saranno molto meno importanti di quelle generate per Francia e Germania. Anche se nella conferenza stampa si è detto che il consorzio servirà a ridurre il ritardo produttivo tra l'Ue e la Cina, e nonostante Le Maire abbia dichiarato che «altri Stati membri, tra cui l'Italia, hanno già manifestato la propria volontà di unirsi al progetto», il nostro Paese rischia di divenire solo un mercato di consumo, con zero posti di lavoro creati dal nuovo consorzio. È già chiaro invece che la prima «fabbrica pilota», con 200 dipendenti, sorgerà in Francia, anche se Le Maire non ha detto dove. Inoltre entro il 2022-2023, dovrebbe essere costruita una fabbrica in ciascun Paese. Secondo quanto dichiarato nella conferenza stampa, ognuna impiegherà 1.500 persone «come minimo». Mica male per chi si presenterà alle prossime elezioni legislative tedesche e per le presidenziali francesi, previste rispettivamente per il 2021 e il 2022. Se Angela Merkel sembra essere arrivata a fine carriera, Emmanuel Macron appare determinato a restare in sella, anche a costo di passare sopra i gilet gialli e il malcontento che cova in Francia. L'ideologia dell'ecologia a tutti i costi risponde a logiche di realpolitik piuttosto che alla volontà di ridurre realmente l'inquinamento. In Francia, l'ala sinistra della maggioranza macronista, vive male la scarsa attenzione del presidente e del governo ai temi ambientali. Per questo un'iniziativa come quella del consorzio torna estremamente utile all'inquilino dell'Eliseo e a Edouard Philippe.
Il sostegno di Bruxelles all'«Airbus delle batterie» viene giustificato anche con la tendenza al «gretinismo» tanto in voga in questo momento nelle istituzioni Ue. Da più parti si afferma che l'auto elettrica è una soluzione ecologica ai problemi di inquinamento e di consumo di carburante. Il problema è che questo è parzialmente vero solo quando l'auto è pronta a circolare sulla strada. Invece, per produrre l'auto, le batterie o ancora, per trasportare l'energia necessaria a caricare queste ultime, l'impatto ambientale è tutt'altro che pari a zero. Inoltre non bisogna dimenticare che la durata delle batterie è estremamente limitata nel tempo e il loro smaltimento è molto complicato.
A pagare questa conversione verde, solo di facciata, sono sempre gli ultimi anelli della catena. Cioè i consumatori o i contribuenti. Lo hanno ricordato più volte anche i gilet gialli dicendosi pronti ad acquistare auto elettriche, ma di non poterlo fare, vista la sproporzione tra i loro stipendi e il costo di queste vetture.
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Il presidente della Commissione in scadenza ammette che la Germania ha fatto peggio dell'Italia: «Ha sforato e violato i patti dell'Unione la bellezza di 18 volte, le ho contate». A muoverlo è comunque il tentativo di trovare nuove alleanze a Est con Victor Orbán.Bruxelles benedice il patto delle batterie franco-tedesco. Alla faccia del mercato, la Commissione Ue dà l'ok al colosso che vuole il monopolio dell'elettrico. A discapito dell'Italia.Lo speciale comprende due articoli.Jean Claude Juncker è un avvocato lussemburghese. Dal 1995 al 2013 è stato primo ministro del piccolo Granducato, ministro del Tesoro e del Lavoro. La sua costante è sempre stata la capacità di cambiare forma. Per anni ha costruito schemi fiscali iper incentivanti per le aziende multinazionali a discapito degli altri Paesi Ue e poi, con il cappello della Commissione (dopo aver archiviato la strategia in patria), ha bastonato le nazioni più furbette. D'altronde gestire un piccolo Paese necessita di velocità politica e capacità di essere camaleonti se almeno si vuole restare in sella così tanto. Ora che il suo mandato di presidente della Commissione volge al termine le capriole aumentano. «Anche la Germania, come l'Italia, ha più volte sforato il patto di stabilità», ha detto Juncker in occasione di un'intervista al quotidiano tedesco Handelsblatt, «e Berlino continua a farlo». Secondo Juncker, la Germania - sempre critica nei confronti della politica di bilancio italiana - avrebbe violato l'accordo ben 18 volte. Il riferimento è al rapporto tra debito e Pil e al tetto del 3% di deficit superato ben sette volte. Senza dimenticare il surplus costantemente sopra il 6%. «Non ci sono progressi sull'approfondimento dell'unione monetaria perché Olanda, Austria e troppo spesso la Germania si mettono in mezzo sulla solidarietà e la responsabilità congiunta. Tuttavia sono ancora speranzoso. La Germania non è ancora pronta, ma molti politici tedeschi vogliono avanzare», ha aggiunto ancora il presidente della Commissione. «Ci sono due problemi sull'eurozona», ha aggiunto, «ogni Stato vede solo sé stesso. E l'eurozona in generale non riesce a guardare al resto del mondo. Queste due cose portano alle conclusioni sbagliate». Dopo anni di scherni e attacchi all'Italia questa giravolta contro le politiche di Angela Merkel suona molto strana. Juncker si è redento? Ha cambiato veramente idea? Perchè adesso dice la verità su Berlino? Vale la sua costante politica. La risposta è: pur di mantenere un seggio sta cambiando schieramento. Così va letto anche il suo approccio al dopo Mario Draghi. «Non mi preoccuperebbe affatto se il presidente della Bce fosse un tedesco», ha aggiunto sempre nel corso dell'intervista. «Jens Weidmann è un convinto europeista e un banchiere centrale di grande esperienza, per cui sarebbe adatto a quel ruolo. Non mi sto esprimendo a favore o contro di lui. Ma decisamente non condivido il punto di vista che è prevalente in alcune parti dell'Europa meridionale per cui un tedesco non debba essere il presidente della Bce», ha concluso. In realtà Juncker sa benissimo che la candidatura di un tedesco al vertice della Bce va benissimo a Paesi del Mediterraneo, come l'Italia, perché ostacolerebbe l'ascesa della Merkel al vertice della Commissione. Lo stesso Juncker preferisce in questo preciso momento storico stoppare la Cancelliera. Ha bisogno di nuove alleanze elettorali se vuole salvare il proprio partito e ricavarsi almeno un ruolo dentro i Cristiano sociali. Se, invece, si accoda alla Merkel e a Emmanuel Macron la sua possibilità di sparire è molto elevata. Lo scorso mese di novembre, erano state proprio Francia e Germania a siglare un accordo in merito al rispetto delle regole del patto stabilità. I Paesi che violano i vincoli, avevano stabilito i due Stati membri, non beneficeranno dei fondi sul prossimo bilancio dell'eurozona. Ecco questo patto per Juncker adesso è un ferro incandescente da gettare via il più possibile lontano per cercare di ricavare una nicchia dentro un Partito popolare europeo riformato. Chi deve stare all'interno perché avvenga il giochino di Juncker? Proprio quel Victor Orbán fondatore del partito Fidesz che è stato sospeso un tempo dal Ppe per una serie di cartelloni elettorali in cui si accusava Juncker di complottare con il milionario ungherese George Soros per far entrare in Europa più migranti. L'altro giorno, in occasione dell'anniversario dei 15 anni dall'allargamento a Est, il presidente della commissione europea ha invece definito Orbán un eroe: «Sì, per anni ho definito privatamente Orbán un dittatore, ma lui ha sempre riso di questa cosa. Ho il massimo riguardo per Viktor». Se la giravolta non fosse abbastanza chiara, Juncker ha aggiunto - in occasione di un'intervista al giornale ungherese Hvg anche un passaggio sulle recenti modifiche di legge compiute da Polonia e Ungheria: «Di tanto in tanto, alcuni Paesi si concedono un certo grado di insubordinazione, a seconda di chi è al potere e della fase del ciclo politico in cui si trovano. Ma sono fiducioso che questi problemi non ci preoccuperanno più». Come dire, le paginate sui quotidiani di sinistra contro la dittatura di Orbàn erano fuffa. Adesso, si fa sul serio. 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A esse dovrebbe affiancarsi anche il gigante della chimica belga, Solvay. La stampa transalpina ha battezzato questo nuovo soggetto economico franco-tedesco l'«Airbus delle batterie». Il riferimento al gigante dei cieli, fiore all'occhiello dell'alleanza economica tra Parigi e Berlino è chiaro. E l'intenzione, nemmeno troppo taciuta da Francia e Germania, è quella di far nascere un colosso. Un soggetto che renderà ancora più concreto il trattato di Aquisgrana, che mira alla convergenza tra le nazioni sulle due sponde del Reno. Nella conferenza stampa del 2 maggio, alla quale hanno partecipato il ministro francese dell'economia e delle finanze, Bruno Le Maire, il suo omologo tedesco, Peter Altmaier, e il Commissario europeo all'energia, Maros Sefcovic, sono già state annunciate delle cifre che parlano chiaro. «Per costruire le prime linee di produzione verranno investiti 5 o 6 miliardi di euro», ha spiegato il ministro francese, aggiungendo che «1,2 miliardi di euro al massimo» saranno rappresentati da sovvenzioni pubbliche. Circa 4 miliardi di euro saranno invece costituiti da fondi privati. La Francia investirà circa 700 milioni di euro su cinque anni. La Germania invece ha previsto di versare al massimo 1 miliardo di euro. La presenza del Commissario Ue (che su Twitter si è complimentato con i «campioni europei, leader di un settore strategico») mostra che la Commissione ha steso il tappeto rosso davanti a questa alleanza economica. Per ora c'è un «accordo di principio», ma entro la fine del mandato della compagine guidata da Jean Claude Juncker - previsto per ottobre - dovrebbe arrivare anche un'approvazione definitiva. Nell'attesa, come ha confermato Sefcovic, «la Commissione europea continuerà a giocare il ruolo di facilitatore». Ma per l'Ue in generale, e per l'Italia in particolare, le ricadute legate alla creazione del consorzio saranno molto meno importanti di quelle generate per Francia e Germania. Anche se nella conferenza stampa si è detto che il consorzio servirà a ridurre il ritardo produttivo tra l'Ue e la Cina, e nonostante Le Maire abbia dichiarato che «altri Stati membri, tra cui l'Italia, hanno già manifestato la propria volontà di unirsi al progetto», il nostro Paese rischia di divenire solo un mercato di consumo, con zero posti di lavoro creati dal nuovo consorzio. È già chiaro invece che la prima «fabbrica pilota», con 200 dipendenti, sorgerà in Francia, anche se Le Maire non ha detto dove. Inoltre entro il 2022-2023, dovrebbe essere costruita una fabbrica in ciascun Paese. Secondo quanto dichiarato nella conferenza stampa, ognuna impiegherà 1.500 persone «come minimo». Mica male per chi si presenterà alle prossime elezioni legislative tedesche e per le presidenziali francesi, previste rispettivamente per il 2021 e il 2022. Se Angela Merkel sembra essere arrivata a fine carriera, Emmanuel Macron appare determinato a restare in sella, anche a costo di passare sopra i gilet gialli e il malcontento che cova in Francia. L'ideologia dell'ecologia a tutti i costi risponde a logiche di realpolitik piuttosto che alla volontà di ridurre realmente l'inquinamento. In Francia, l'ala sinistra della maggioranza macronista, vive male la scarsa attenzione del presidente e del governo ai temi ambientali. Per questo un'iniziativa come quella del consorzio torna estremamente utile all'inquilino dell'Eliseo e a Edouard Philippe. Il sostegno di Bruxelles all'«Airbus delle batterie» viene giustificato anche con la tendenza al «gretinismo» tanto in voga in questo momento nelle istituzioni Ue. Da più parti si afferma che l'auto elettrica è una soluzione ecologica ai problemi di inquinamento e di consumo di carburante. Il problema è che questo è parzialmente vero solo quando l'auto è pronta a circolare sulla strada. Invece, per produrre l'auto, le batterie o ancora, per trasportare l'energia necessaria a caricare queste ultime, l'impatto ambientale è tutt'altro che pari a zero. Inoltre non bisogna dimenticare che la durata delle batterie è estremamente limitata nel tempo e il loro smaltimento è molto complicato. A pagare questa conversione verde, solo di facciata, sono sempre gli ultimi anelli della catena. Cioè i consumatori o i contribuenti. Lo hanno ricordato più volte anche i gilet gialli dicendosi pronti ad acquistare auto elettriche, ma di non poterlo fare, vista la sproporzione tra i loro stipendi e il costo di queste vetture.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Getty Images
Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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