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2019-05-04
Per un seggio Juncker dice il vero su Berlino
Ansa
Jean Claude Juncker è un avvocato lussemburghese. Dal 1995 al 2013 è stato primo ministro del piccolo Granducato, ministro del Tesoro e del Lavoro. La sua costante è sempre stata la capacità di cambiare forma. Per anni ha costruito schemi fiscali iper incentivanti per le aziende multinazionali a discapito degli altri Paesi Ue e poi, con il cappello della Commissione (dopo aver archiviato la strategia in patria), ha bastonato le nazioni più furbette. D'altronde gestire un piccolo Paese necessita di velocità politica e capacità di essere camaleonti se almeno si vuole restare in sella così tanto. Ora che il suo mandato di presidente della Commissione volge al termine le capriole aumentano.
«Anche la Germania, come l'Italia, ha più volte sforato il patto di stabilità», ha detto Juncker in occasione di un'intervista al quotidiano tedesco Handelsblatt, «e Berlino continua a farlo». Secondo Juncker, la Germania - sempre critica nei confronti della politica di bilancio italiana - avrebbe violato l'accordo ben 18 volte. Il riferimento è al rapporto tra debito e Pil e al tetto del 3% di deficit superato ben sette volte. Senza dimenticare il surplus costantemente sopra il 6%.
«Non ci sono progressi sull'approfondimento dell'unione monetaria perché Olanda, Austria e troppo spesso la Germania si mettono in mezzo sulla solidarietà e la responsabilità congiunta. Tuttavia sono ancora speranzoso. La Germania non è ancora pronta, ma molti politici tedeschi vogliono avanzare», ha aggiunto ancora il presidente della Commissione. «Ci sono due problemi sull'eurozona», ha aggiunto, «ogni Stato vede solo sé stesso. E l'eurozona in generale non riesce a guardare al resto del mondo. Queste due cose portano alle conclusioni sbagliate». Dopo anni di scherni e attacchi all'Italia questa giravolta contro le politiche di Angela Merkel suona molto strana. Juncker si è redento? Ha cambiato veramente idea? Perchè adesso dice la verità su Berlino? Vale la sua costante politica.
La risposta è: pur di mantenere un seggio sta cambiando schieramento. Così va letto anche il suo approccio al dopo Mario Draghi. «Non mi preoccuperebbe affatto se il presidente della Bce fosse un tedesco», ha aggiunto sempre nel corso dell'intervista. «Jens Weidmann è un convinto europeista e un banchiere centrale di grande esperienza, per cui sarebbe adatto a quel ruolo. Non mi sto esprimendo a favore o contro di lui. Ma decisamente non condivido il punto di vista che è prevalente in alcune parti dell'Europa meridionale per cui un tedesco non debba essere il presidente della Bce», ha concluso. In realtà Juncker sa benissimo che la candidatura di un tedesco al vertice della Bce va benissimo a Paesi del Mediterraneo, come l'Italia, perché ostacolerebbe l'ascesa della Merkel al vertice della Commissione. Lo stesso Juncker preferisce in questo preciso momento storico stoppare la Cancelliera. Ha bisogno di nuove alleanze elettorali se vuole salvare il proprio partito e ricavarsi almeno un ruolo dentro i Cristiano sociali. Se, invece, si accoda alla Merkel e a Emmanuel Macron la sua possibilità di sparire è molto elevata.
Lo scorso mese di novembre, erano state proprio Francia e Germania a siglare un accordo in merito al rispetto delle regole del patto stabilità. I Paesi che violano i vincoli, avevano stabilito i due Stati membri, non beneficeranno dei fondi sul prossimo bilancio dell'eurozona. Ecco questo patto per Juncker adesso è un ferro incandescente da gettare via il più possibile lontano per cercare di ricavare una nicchia dentro un Partito popolare europeo riformato. Chi deve stare all'interno perché avvenga il giochino di Juncker? Proprio quel Victor Orbán fondatore del partito Fidesz che è stato sospeso un tempo dal Ppe per una serie di cartelloni elettorali in cui si accusava Juncker di complottare con il milionario ungherese George Soros per far entrare in Europa più migranti. L'altro giorno, in occasione dell'anniversario dei 15 anni dall'allargamento a Est, il presidente della commissione europea ha invece definito Orbán un eroe: «Sì, per anni ho definito privatamente Orbán un dittatore, ma lui ha sempre riso di questa cosa. Ho il massimo riguardo per Viktor».
Se la giravolta non fosse abbastanza chiara, Juncker ha aggiunto - in occasione di un'intervista al giornale ungherese Hvg anche un passaggio sulle recenti modifiche di legge compiute da Polonia e Ungheria: «Di tanto in tanto, alcuni Paesi si concedono un certo grado di insubordinazione, a seconda di chi è al potere e della fase del ciclo politico in cui si trovano. Ma sono fiducioso che questi problemi non ci preoccuperanno più». Come dire, le paginate sui quotidiani di sinistra contro la dittatura di Orbàn erano fuffa. Adesso, si fa sul serio. Bisogna conquistare seggi all'europarlamento a qualunque costo e con ogni alleato.
Bruxelles benedice il patto delle batterie franco-tedesco
Francia e Germania continuano a gettare le basi di un futuro comune, con la benedizione di Bruxelles. Sta per nascere infatti un consorzio industriale, composto da società dei due Paesi attive nel settore delle batterie per auto elettriche. Tra queste ci saranno le tedesche Opel (controllata dalla francese Psa) e Siemens, oltre al produttore francese di batterie Saft (controllata dal gruppo Total). A esse dovrebbe affiancarsi anche il gigante della chimica belga, Solvay. La stampa transalpina ha battezzato questo nuovo soggetto economico franco-tedesco l'«Airbus delle batterie». Il riferimento al gigante dei cieli, fiore all'occhiello dell'alleanza economica tra Parigi e Berlino è chiaro. E l'intenzione, nemmeno troppo taciuta da Francia e Germania, è quella di far nascere un colosso. Un soggetto che renderà ancora più concreto il trattato di Aquisgrana, che mira alla convergenza tra le nazioni sulle due sponde del Reno.
Nella conferenza stampa del 2 maggio, alla quale hanno partecipato il ministro francese dell'economia e delle finanze, Bruno Le Maire, il suo omologo tedesco, Peter Altmaier, e il Commissario europeo all'energia, Maros Sefcovic, sono già state annunciate delle cifre che parlano chiaro. «Per costruire le prime linee di produzione verranno investiti 5 o 6 miliardi di euro», ha spiegato il ministro francese, aggiungendo che «1,2 miliardi di euro al massimo» saranno rappresentati da sovvenzioni pubbliche. Circa 4 miliardi di euro saranno invece costituiti da fondi privati. La Francia investirà circa 700 milioni di euro su cinque anni. La Germania invece ha previsto di versare al massimo 1 miliardo di euro.
La presenza del Commissario Ue (che su Twitter si è complimentato con i «campioni europei, leader di un settore strategico») mostra che la Commissione ha steso il tappeto rosso davanti a questa alleanza economica. Per ora c'è un «accordo di principio», ma entro la fine del mandato della compagine guidata da Jean Claude Juncker - previsto per ottobre - dovrebbe arrivare anche un'approvazione definitiva. Nell'attesa, come ha confermato Sefcovic, «la Commissione europea continuerà a giocare il ruolo di facilitatore».
Ma per l'Ue in generale, e per l'Italia in particolare, le ricadute legate alla creazione del consorzio saranno molto meno importanti di quelle generate per Francia e Germania. Anche se nella conferenza stampa si è detto che il consorzio servirà a ridurre il ritardo produttivo tra l'Ue e la Cina, e nonostante Le Maire abbia dichiarato che «altri Stati membri, tra cui l'Italia, hanno già manifestato la propria volontà di unirsi al progetto», il nostro Paese rischia di divenire solo un mercato di consumo, con zero posti di lavoro creati dal nuovo consorzio. È già chiaro invece che la prima «fabbrica pilota», con 200 dipendenti, sorgerà in Francia, anche se Le Maire non ha detto dove. Inoltre entro il 2022-2023, dovrebbe essere costruita una fabbrica in ciascun Paese. Secondo quanto dichiarato nella conferenza stampa, ognuna impiegherà 1.500 persone «come minimo». Mica male per chi si presenterà alle prossime elezioni legislative tedesche e per le presidenziali francesi, previste rispettivamente per il 2021 e il 2022. Se Angela Merkel sembra essere arrivata a fine carriera, Emmanuel Macron appare determinato a restare in sella, anche a costo di passare sopra i gilet gialli e il malcontento che cova in Francia. L'ideologia dell'ecologia a tutti i costi risponde a logiche di realpolitik piuttosto che alla volontà di ridurre realmente l'inquinamento. In Francia, l'ala sinistra della maggioranza macronista, vive male la scarsa attenzione del presidente e del governo ai temi ambientali. Per questo un'iniziativa come quella del consorzio torna estremamente utile all'inquilino dell'Eliseo e a Edouard Philippe.
Il sostegno di Bruxelles all'«Airbus delle batterie» viene giustificato anche con la tendenza al «gretinismo» tanto in voga in questo momento nelle istituzioni Ue. Da più parti si afferma che l'auto elettrica è una soluzione ecologica ai problemi di inquinamento e di consumo di carburante. Il problema è che questo è parzialmente vero solo quando l'auto è pronta a circolare sulla strada. Invece, per produrre l'auto, le batterie o ancora, per trasportare l'energia necessaria a caricare queste ultime, l'impatto ambientale è tutt'altro che pari a zero. Inoltre non bisogna dimenticare che la durata delle batterie è estremamente limitata nel tempo e il loro smaltimento è molto complicato.
A pagare questa conversione verde, solo di facciata, sono sempre gli ultimi anelli della catena. Cioè i consumatori o i contribuenti. Lo hanno ricordato più volte anche i gilet gialli dicendosi pronti ad acquistare auto elettriche, ma di non poterlo fare, vista la sproporzione tra i loro stipendi e il costo di queste vetture.
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Il presidente della Commissione in scadenza ammette che la Germania ha fatto peggio dell'Italia: «Ha sforato e violato i patti dell'Unione la bellezza di 18 volte, le ho contate». A muoverlo è comunque il tentativo di trovare nuove alleanze a Est con Victor Orbán.Bruxelles benedice il patto delle batterie franco-tedesco. Alla faccia del mercato, la Commissione Ue dà l'ok al colosso che vuole il monopolio dell'elettrico. A discapito dell'Italia.Lo speciale comprende due articoli.Jean Claude Juncker è un avvocato lussemburghese. Dal 1995 al 2013 è stato primo ministro del piccolo Granducato, ministro del Tesoro e del Lavoro. La sua costante è sempre stata la capacità di cambiare forma. Per anni ha costruito schemi fiscali iper incentivanti per le aziende multinazionali a discapito degli altri Paesi Ue e poi, con il cappello della Commissione (dopo aver archiviato la strategia in patria), ha bastonato le nazioni più furbette. D'altronde gestire un piccolo Paese necessita di velocità politica e capacità di essere camaleonti se almeno si vuole restare in sella così tanto. Ora che il suo mandato di presidente della Commissione volge al termine le capriole aumentano. «Anche la Germania, come l'Italia, ha più volte sforato il patto di stabilità», ha detto Juncker in occasione di un'intervista al quotidiano tedesco Handelsblatt, «e Berlino continua a farlo». Secondo Juncker, la Germania - sempre critica nei confronti della politica di bilancio italiana - avrebbe violato l'accordo ben 18 volte. Il riferimento è al rapporto tra debito e Pil e al tetto del 3% di deficit superato ben sette volte. Senza dimenticare il surplus costantemente sopra il 6%. «Non ci sono progressi sull'approfondimento dell'unione monetaria perché Olanda, Austria e troppo spesso la Germania si mettono in mezzo sulla solidarietà e la responsabilità congiunta. Tuttavia sono ancora speranzoso. La Germania non è ancora pronta, ma molti politici tedeschi vogliono avanzare», ha aggiunto ancora il presidente della Commissione. «Ci sono due problemi sull'eurozona», ha aggiunto, «ogni Stato vede solo sé stesso. E l'eurozona in generale non riesce a guardare al resto del mondo. Queste due cose portano alle conclusioni sbagliate». Dopo anni di scherni e attacchi all'Italia questa giravolta contro le politiche di Angela Merkel suona molto strana. Juncker si è redento? Ha cambiato veramente idea? Perchè adesso dice la verità su Berlino? Vale la sua costante politica. La risposta è: pur di mantenere un seggio sta cambiando schieramento. Così va letto anche il suo approccio al dopo Mario Draghi. «Non mi preoccuperebbe affatto se il presidente della Bce fosse un tedesco», ha aggiunto sempre nel corso dell'intervista. «Jens Weidmann è un convinto europeista e un banchiere centrale di grande esperienza, per cui sarebbe adatto a quel ruolo. Non mi sto esprimendo a favore o contro di lui. Ma decisamente non condivido il punto di vista che è prevalente in alcune parti dell'Europa meridionale per cui un tedesco non debba essere il presidente della Bce», ha concluso. In realtà Juncker sa benissimo che la candidatura di un tedesco al vertice della Bce va benissimo a Paesi del Mediterraneo, come l'Italia, perché ostacolerebbe l'ascesa della Merkel al vertice della Commissione. Lo stesso Juncker preferisce in questo preciso momento storico stoppare la Cancelliera. Ha bisogno di nuove alleanze elettorali se vuole salvare il proprio partito e ricavarsi almeno un ruolo dentro i Cristiano sociali. Se, invece, si accoda alla Merkel e a Emmanuel Macron la sua possibilità di sparire è molto elevata. Lo scorso mese di novembre, erano state proprio Francia e Germania a siglare un accordo in merito al rispetto delle regole del patto stabilità. I Paesi che violano i vincoli, avevano stabilito i due Stati membri, non beneficeranno dei fondi sul prossimo bilancio dell'eurozona. Ecco questo patto per Juncker adesso è un ferro incandescente da gettare via il più possibile lontano per cercare di ricavare una nicchia dentro un Partito popolare europeo riformato. Chi deve stare all'interno perché avvenga il giochino di Juncker? Proprio quel Victor Orbán fondatore del partito Fidesz che è stato sospeso un tempo dal Ppe per una serie di cartelloni elettorali in cui si accusava Juncker di complottare con il milionario ungherese George Soros per far entrare in Europa più migranti. L'altro giorno, in occasione dell'anniversario dei 15 anni dall'allargamento a Est, il presidente della commissione europea ha invece definito Orbán un eroe: «Sì, per anni ho definito privatamente Orbán un dittatore, ma lui ha sempre riso di questa cosa. Ho il massimo riguardo per Viktor». Se la giravolta non fosse abbastanza chiara, Juncker ha aggiunto - in occasione di un'intervista al giornale ungherese Hvg anche un passaggio sulle recenti modifiche di legge compiute da Polonia e Ungheria: «Di tanto in tanto, alcuni Paesi si concedono un certo grado di insubordinazione, a seconda di chi è al potere e della fase del ciclo politico in cui si trovano. Ma sono fiducioso che questi problemi non ci preoccuperanno più». Come dire, le paginate sui quotidiani di sinistra contro la dittatura di Orbàn erano fuffa. Adesso, si fa sul serio. 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A esse dovrebbe affiancarsi anche il gigante della chimica belga, Solvay. La stampa transalpina ha battezzato questo nuovo soggetto economico franco-tedesco l'«Airbus delle batterie». Il riferimento al gigante dei cieli, fiore all'occhiello dell'alleanza economica tra Parigi e Berlino è chiaro. E l'intenzione, nemmeno troppo taciuta da Francia e Germania, è quella di far nascere un colosso. Un soggetto che renderà ancora più concreto il trattato di Aquisgrana, che mira alla convergenza tra le nazioni sulle due sponde del Reno. Nella conferenza stampa del 2 maggio, alla quale hanno partecipato il ministro francese dell'economia e delle finanze, Bruno Le Maire, il suo omologo tedesco, Peter Altmaier, e il Commissario europeo all'energia, Maros Sefcovic, sono già state annunciate delle cifre che parlano chiaro. «Per costruire le prime linee di produzione verranno investiti 5 o 6 miliardi di euro», ha spiegato il ministro francese, aggiungendo che «1,2 miliardi di euro al massimo» saranno rappresentati da sovvenzioni pubbliche. Circa 4 miliardi di euro saranno invece costituiti da fondi privati. La Francia investirà circa 700 milioni di euro su cinque anni. La Germania invece ha previsto di versare al massimo 1 miliardo di euro. La presenza del Commissario Ue (che su Twitter si è complimentato con i «campioni europei, leader di un settore strategico») mostra che la Commissione ha steso il tappeto rosso davanti a questa alleanza economica. Per ora c'è un «accordo di principio», ma entro la fine del mandato della compagine guidata da Jean Claude Juncker - previsto per ottobre - dovrebbe arrivare anche un'approvazione definitiva. Nell'attesa, come ha confermato Sefcovic, «la Commissione europea continuerà a giocare il ruolo di facilitatore». Ma per l'Ue in generale, e per l'Italia in particolare, le ricadute legate alla creazione del consorzio saranno molto meno importanti di quelle generate per Francia e Germania. Anche se nella conferenza stampa si è detto che il consorzio servirà a ridurre il ritardo produttivo tra l'Ue e la Cina, e nonostante Le Maire abbia dichiarato che «altri Stati membri, tra cui l'Italia, hanno già manifestato la propria volontà di unirsi al progetto», il nostro Paese rischia di divenire solo un mercato di consumo, con zero posti di lavoro creati dal nuovo consorzio. È già chiaro invece che la prima «fabbrica pilota», con 200 dipendenti, sorgerà in Francia, anche se Le Maire non ha detto dove. Inoltre entro il 2022-2023, dovrebbe essere costruita una fabbrica in ciascun Paese. Secondo quanto dichiarato nella conferenza stampa, ognuna impiegherà 1.500 persone «come minimo». Mica male per chi si presenterà alle prossime elezioni legislative tedesche e per le presidenziali francesi, previste rispettivamente per il 2021 e il 2022. Se Angela Merkel sembra essere arrivata a fine carriera, Emmanuel Macron appare determinato a restare in sella, anche a costo di passare sopra i gilet gialli e il malcontento che cova in Francia. L'ideologia dell'ecologia a tutti i costi risponde a logiche di realpolitik piuttosto che alla volontà di ridurre realmente l'inquinamento. In Francia, l'ala sinistra della maggioranza macronista, vive male la scarsa attenzione del presidente e del governo ai temi ambientali. Per questo un'iniziativa come quella del consorzio torna estremamente utile all'inquilino dell'Eliseo e a Edouard Philippe. Il sostegno di Bruxelles all'«Airbus delle batterie» viene giustificato anche con la tendenza al «gretinismo» tanto in voga in questo momento nelle istituzioni Ue. Da più parti si afferma che l'auto elettrica è una soluzione ecologica ai problemi di inquinamento e di consumo di carburante. Il problema è che questo è parzialmente vero solo quando l'auto è pronta a circolare sulla strada. Invece, per produrre l'auto, le batterie o ancora, per trasportare l'energia necessaria a caricare queste ultime, l'impatto ambientale è tutt'altro che pari a zero. Inoltre non bisogna dimenticare che la durata delle batterie è estremamente limitata nel tempo e il loro smaltimento è molto complicato. A pagare questa conversione verde, solo di facciata, sono sempre gli ultimi anelli della catena. Cioè i consumatori o i contribuenti. Lo hanno ricordato più volte anche i gilet gialli dicendosi pronti ad acquistare auto elettriche, ma di non poterlo fare, vista la sproporzione tra i loro stipendi e il costo di queste vetture.
Ansa
Eppure, fino a pochi giorni fa, per la banca più antica del mondo l’aria era diventata irrespirabile. Le indagini della Procura di Milano avevano spinto il titolo giù dal cavallo, facendogli perdere miliardi di capitalizzazione. Le prime pagine dei giornali finanziari tremavano all’unisono: «aggiotaggio», «ostacolo alla vigilanza», «patto occulto». Parole che in Borsa funzionano come il fumo negli alveari: tutti scappano, nessuno chiede perché. Poi, lunedì, il colpo di scena. Spunta la parola magica che fa battere il cuore agli investitori: Consob. L’Autorità di vigilanza, finora poco loquace, aveva già detto a settembre che di «concerto» nella scalata a Mediobanca non ne vedeva traccia. E a Piazza Affari questo basta. Non è certezza, è una sfumatura, un mezzo sorriso, un sopracciglio alzato: ma per i mercati è come una benedizione papale. La Procura, però, non sembra aver preso bene la posizione dell’Autorità. Così ha inviato nuove carte, intercettazioni comprese, convinta che tra Luigi Lovaglio, Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Milleri ci fosse più di una semplice comunione d’intenti. Per i magistrati milanesi il trio avrebbe pianificato la conquista di Mps e poi la scalata a Mediobanca con la meticolosità di un architetto che disegna una cattedrale gotica.
Il punto è che dimostrarlo non è affatto semplice. Lo ha ricordato più volte lo stesso Paolo Savona, presidente della Consob, che sulla materia ha mostrato la cautela di un chirurgo: «Il concerto occulto è complesso da provare». Tradotto: puoi avere intercettazioni, sospetti, ricostruzioni, ma per far quadrare la tesi serve molto di più. E forse è questo che ha fatto scattare l’effetto molla sul titolo Mps: l’idea che la montagna giudiziaria rischi di partorire un topolino burocratico. Da qui in avanti il racconto assume i contorni della tragicommedia finanziaria. Milano manda documenti a Roma; Roma annuncia di valutarli. Gli investitori, che hanno il fiuto dei cani da caccia, interpretano la mossa come: «Sì, le carte le leggiamo, ma intanto non cambia nulla rispetto a settembre». E la banca di Siena - che ha passato negli ultimi dieci anni disastri che avrebbero fatto chiudere qualunque altro istituto occidentale - stavolta fiuta l’aria buona. Intanto gli analisti, quelli che il mercato lo guardano dall’alto del loro grafico preferito, si mostrano quasi papali: buy confermato, target price a 11 euro, fiducia intatta. Per loro la tempesta giudiziaria è un rumore di fondo. Una di quelle pioggerelline che fanno frusciare le foglie ma non cambiano le previsioni della vendemmia. Il paradosso è che anche Mediobanca, la presunta vittima designata del «concerto» inesistente, brinda. Alle 17 è a 16,48 euro, in rialzo dell’1,35%. Sembra quasi che il mercato si sia rassegnato a un’idea semplice: questa storia finirà in un grande nulla di fatto, come tante vicende finanziarie italiane in cui i protagonisti si guardano negli occhi e dicono: «Abbiamo scherzato». È un Paese curioso, l’Italia. Le accuse volano come coriandoli, i titoli crollano, la politica si indigna, i pm lavorano a pieno ritmo. Poi basta una riga in una relazione Consob - nemmeno una conclusione, solo un orientamento - e tutto si ribalta.
Il caso Mps dimostra ancora una volta che nel nostro mercato finanziario non c’è nulla di più potente della percezione. Non la verità processuale, non gli atti, non i faldoni. La percezione. Se la Consob solleva un sopracciglio, Mps vola. Se la magistratura invia nuove carte, il titolo magari trema per qualche ora, ma poi risale. È il teatro della finanza italiana: un luogo dove le istituzioni recitano, il pubblico interpreta e il mercato decide chi applaudirà. Intanto, a Siena, si festeggia. Non apertamente, perché la prudenza è d’obbligo. Ma nei corridoi, tra una planata di grafici e una riunione lampo, dev’essere tornato a circolare un pensiero che la banca aveva sepolto da tempo: forse stavolta siamo davvero usciti dal tunnel. Non è detto, perché le carte giudiziarie hanno vita propria e la Procura non ama essere smentita. Ma di certo lunedì è successo qualcosa. La banca più antica del mondo ha mostrato di avere ancora schiena, gambe e fiato. E soprattutto una cosa che da anni le mancava: fiducia. Il resto lo farà il tempo. E, naturalmente, la Consob. Che con un cenno, anche involontario, riesce ancora a muovere montagne. O almeno a far correre Mps come non succedeva da un pezzo.
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Il 43,8 % degli italiani ha detto di non ritenerla utile. «È una riflessione importante», osservava Ghisleri nel programma Realpolitik di Tommaso Labate su Rete 4, «perché vorrebbe dire che la legge sul consenso verrebbe utilizzata come deterrente, ma non sarebbe utile perché manca l’educazione». Ricordiamo che la legge, che introduce nel Codice penale il concetto di «consenso libero e attuale», è stata approvata all’unanimità alla Camera e presentata come un accordo bipartisan tra il premier Giorgia Meloni e il segretario del Pd, Elly Schlein. In commissione Giustizia, la coalizione di governo ha chiesto un nuovo passaggio, scatenando la reazione dell’opposizione che ha parlato di un «voltafaccia», di patto politico tradito. Ancor più singolare è che, nel sondaggio, sia stato il 37,6% delle donne a non ritenere la norma sullo stupro utile a scoraggiare o impedire la violenza sessuale, rispetto a un 38,8% convinto che serva. Perciò, se il 51,6% degli italiani interpellati crede che sia necessaria una legge che inasprisca il reato, ridefinendone le modalità (il ddl torna questa settimana in commissione a Palazzo Madama), la maggior parte di questo campione non lo considera un deterrente effettivo.
Inevitabile chiedersi il senso, allora, di una legge che complica all’inverosimile l’onere della prova di un consenso non «libero e attuale» (e il non poterlo provare può diventare equivalente all’aver commesso il reato), mentre poco inciderebbe nella protezione delle donne. Non la crede utile non solo l’elettorato di centrodestra (47,9% delle risposte, rispetto al 38,2% di «sì»), ma anche una bella fetta di coloro che votano a sinistra (34,3% i «no», 43,3 % i «sì»). E se può non sorprendere che il 53,6% degli elettori di Fratelli d’Italia abbia detto di con credere alla legge come prevenzione di episodi di violenza, è significativo che la pensi allo stesso modo il 38,5% di quanti votano Pd e che appena il 36,5% dei dem la consideri, invece, utile.
Quindi nei due partiti rappresentati da Giorgia Meloni e da Elly Schlein sono più forti le perplessità, circa l’approvazione del ddl come misura deterrente. Quanto all’impatto del reato di violenza sessuale riformato sulla base di un accordo Meloni-Schlein, restano sempre forti le riserve degli italiani. Non tanto perché non serva una legge dura (oltre il 53% sia a sinistra sia a destra si dice a favore), ma in quanto non risulta ben formulata. Non definisce che cosa costituisce consenso, anche nelle forme non verbali e nemmeno chiarisce quali elementi probatori possono dimostrarlo o escluderlo. «Si pensa che questi requisiti di libertà e attualità siano puntualizzati a tutela della donna e a vincolo e controllo per l’uomo: anche qui siamo di fronte a un ribaltamento concettuale e fisico della prova, spesso sono le donne che prendono l’iniziativa e non si può “pregiudizialmente” pensare al maschio come attaccante-persecutore, attizzatore di incendi passionali che si trasformano in atti di coercizione nel “fare” e nell’insistere», osservava due giorni fa su Startmag Francesco Provinciali, già giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano.
Fanno pensare, inoltre, gli esiti di un altro sondaggio che è stato riportato sempre da Ghisleri. «Abbiamo chiesto quali sono le paure più grandi (degli italiani, ndr), al primo posto ci sono le aggressioni e le minacce (22,7%), seguite da rapine in casa (20,5%), furti e rapine (19,4%), truffe e frodi (16,6%)». La violenza sessuale risultava solo al quinto posto (9,4%) come preoccupazione. Eppure, dai primi dati emersi dall’indagine 2025 sulla violenza contro le donne condotta dal dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio e l’Istat denominata «Sicurezza delle donne», risultano aumentate «dal 30,1% al 36,3% le vittime che considerano un reato la violenza subita dal partner e raddoppia la percentuale delle richieste di aiuto ai Centri antiviolenza e gli altri servizi specializzati (dal 4,4 del 2014 all’8,7% del 2025)».
Evidentemente, la certezza della pena non è un deterrente. Rispetto al passato, c’è una diversa sensibilità verso la violenza sessuale e i diversi contenuti giuridici che il reato ha assunto nel tempo, però occorrono strategie volte all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento della violenza, formando operatori (dalla scuola alla magistratura, passando per i servizi sociali). Serve rendere operativo ovunque il percorso di tutela per le donne che hanno subito violenza e perseguire chi l’ha provocata. Discutere di pertinenza e liceità all’interno della coppia, criminalizzando a priori, non argina la violenza sessuale.
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Quella al ladro, invece, è finita «grazie» all’intervento di quanti hanno braccato un albanese di 40 anni finito poi in ospedale con 30 giorni di prognosi. Il messaggio della questura è chiaro, «nessuna giustizia fai da te». Ma la corsa a identificare i residenti che hanno inseguito il ladro, alcuni forse armati di piccone tanto da provocargli una frattura al bacino, per la comunità è difficile da digerire. «In casa con me vivono mia moglie e i miei due bambini piccoli. Per fortuna, in quel momento non eravamo presenti. L’allarme è scattato ma le forze dell’ordine sono arrivate una decina di minuti dopo: il tempo sufficiente perché i ladri scappassero», scrive in una lettera al sito Aostasera.it un cittadino che vive in una delle case finite nel mirino dei ladri. «Non vuole essere un rimprovero ai carabinieri che sono intervenuti, ma il dato di fatto di un territorio in cui i tempi di reazione non sono adeguati alla pressione dei furti che subiamo da mesi». Addirittura cinque o sei i raid di furti verificatisi a partire dall’estate. Troppi per il paesino che ormai vive nell’angoscia.
Lo scorso venerdì erano passate da poco le 19 quando un massaggio da parte di un cittadino ha fatto scattare l’allarme: «Sono tornati i ladri». E di lì il tam tam da un telefonino all’altro: «Fate attenzione, chiudete le porte». Il rumore provocato dai ladri nel tentativo di aprire una cassaforte richiama l’attenzione dei cittadini che chiamano i carabinieri. In poco tempo, però, scatta il caos perché in molti si riversano in strada. Partono le urla, le segnalazioni, alcuni residenti sono armati di bastoni. Qualcuno parla di picconi ma i cittadini, oggi, negano. Uno dei malviventi scappa verso il bosco mentre l’altro viene individuato grazie all’utilizzo di una termocamera e fermato. Ha con sé la refurtiva, 5.000 euro, gli abitanti gli si scagliano contro e solo l’intervento dei carabinieri mette fine al linciaggio oggi duramente stigmatizzato dal questore Gian Maria Sertorio: «La deriva giustizialista è pericolosissima, le ronde non devono essere fatte in alcun modo, bisogna chiamare il 112 e aspettare le forze dell’ordine». Dello stesso avviso il comandante dei carabinieri della Valle d’Aosta, Livio Propato, che ribadisce un secco «no alle ronde e alla giustizia fai da te. Non bisogna lasciarsi prendere dalla violenza gratuita perché è un reato. E si passa dalla parte del torto. I controlli ci sono, i furti ci sono, ma noi tutti stiamo facendo ogni sforzo per uscire tutte le sere con più pattuglie e quella sera siamo subito intervenuti».
Già, peccato che, a quanto pare, tutto questo non basti. Negli ultimi mesi il Comune si era attrezzato di una cinquantina di telecamere per contrastare le incursioni dei ladri ma senza successo. «A livello psicologico è un periodo complicato», stempera il sindaco Alexandre Bertolin, «le forze dell’ordine fanno del loro meglio ma non si riesce a monitorare tutto. Abbiamo le telecamere ma al massimo riusciamo a vedere dopo il fatto come si sono mossi i ladri». E anche qualora si dovesse arrivare prima e si riuscisse a fermare il ladro, commentano i cittadini, tutto poi finisce in un nulla di fatto.
«Leggendo le cronache», si legge sempre nella lettera a Aostasera.it, «si apprende che il ladro fermato sarebbe incensurato. Temo che questo significhi pochi giorni di detenzione e una rapida scarcerazione. Tradotto: io resto l’unica vittima, con la casa a soqquadro, i ricordi rubati e la paura addosso; lui invece rischia di cavarsela con poco senza dover dire chi lo aiutava e dove sono finiti i nostri beni».
Un clima di esasperazione destinato ad aumentare ora che si scopre che nemmeno difendersi sarebbe legittimo. Intanto, per il ladro, accusato di furto e in carcere fino al processo che si terrà il 19 dicembre, la linea difensiva è già pronta . Quella di un cuoco con figli piccoli da mantenere e tanto bisogno di soldi. «Mi hanno mandato altri albanesi», dice. In attesa di vedere quale corso farà la giustizia, i cittadini ribadiscono che l’attesa inerme non funziona. «Quando la legge non riesce a proteggere chi subisce i reati, le persone, piaccia o no si organizzano da sole. Se vogliamo evitare che episodi come questo si ripetano non dovremmo essere stigmatizzati. Occorre dare alla comunità strumenti per sentirsi protette. Prima che la rabbia prenda il sopravvento». Non proprio la direzione in cui sembra andare ora l’Arma.
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«Little Disasters: L'errore di una madre» (Paramount+)
Sarah Vaughan è quella di Anatomia di uno scandalo, diventato poi miniserie Netflix. Ed è la stessa che pare averci preso gusto, con la narrazione televisiva. Giovedì 11 dicembre, tocca ad un altro romanzo della scrittrice debuttare come serie tv, non su Netflix, ma su Paramount+.
Little Disasters: L'errore di una madre non è un thriller e non ha granché delle vicissitudini, amorose e politiche, che hanno decretato il successo di Anatomia di uno scandalo. Il romanzo è riflessivo. Non pretende di spiegare, di inventare una storia che possa tenere chi legga con il fiato sospeso o indurlo a parteggiare per questa o quella parte, a indignarsi e commuoversi insieme ai suoi protagonisti. Little Disasters è la storia di un mestiere mai riconosciuto come tale, quello di madre. Non c'è retorica, però. Sarah Vaughan non sembra ambire a veder riconosciuto uno dei tanti sondaggi che alle madri del mondo assegnano uno stipendio, quantificando le ore spese nell'accudimento dei figli e della casa. Pare, piuttosto, intenzionata a sondare le profondità di un abisso che, spesso, rimane nascosto dietro sorrisi di facciata, dietro un contegno autoimposto, dietro una perfezione solo apparente.
Little Disastersè, dunque, la storia di Liz e di Jess, due amiche che sulla propria e personale concezione di maternità imbastiscono - loro malgrado - un conflitto insanabile. Jess, pediatra all'interno di un ospedale, è di turno al pronto soccorso, quando Liz si presenta con la sua bambina fra le braccia. Sembra non stare bene, per ragioni imperscrutabili ad occhio profano. Ma i primi esami rivelano altro: un'altra verità. La piccola ha una ferita alla testa, qualcosa che una madre non può non aver visto. Qualcosa che, forse, una madre può addirittura aver provocato. Così, sui referti di quella piccinina si apre la guerra, fatta di domande silenziose, di diffidenza, di dubbi. Jess comincia a pensare che, all'interno della famiglia di Liz, così bella a guardarla da fuori, possa nascondersi un mostro. Ipotizza che l'amica possa soffrire di depressione post partum, che la relazione tra lei e il marito possa essere violenta. Liz, da parte sua, non parla. Non dice. Non spiega come sia possibile non abbia visto quel bozzo sul crapino della bambina. E Little Disasters va avanti, con un finale piuttosto prevedibile, ma con la capacità altresì di raccontare la complessità della maternità, le difficoltà, i giudizi, la deprivazione del sonno, il peso di una solitudine che, a tratti, si rivela essere assordante.
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