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2019-05-04
Per un seggio Juncker dice il vero su Berlino
Ansa
Jean Claude Juncker è un avvocato lussemburghese. Dal 1995 al 2013 è stato primo ministro del piccolo Granducato, ministro del Tesoro e del Lavoro. La sua costante è sempre stata la capacità di cambiare forma. Per anni ha costruito schemi fiscali iper incentivanti per le aziende multinazionali a discapito degli altri Paesi Ue e poi, con il cappello della Commissione (dopo aver archiviato la strategia in patria), ha bastonato le nazioni più furbette. D'altronde gestire un piccolo Paese necessita di velocità politica e capacità di essere camaleonti se almeno si vuole restare in sella così tanto. Ora che il suo mandato di presidente della Commissione volge al termine le capriole aumentano.
«Anche la Germania, come l'Italia, ha più volte sforato il patto di stabilità», ha detto Juncker in occasione di un'intervista al quotidiano tedesco Handelsblatt, «e Berlino continua a farlo». Secondo Juncker, la Germania - sempre critica nei confronti della politica di bilancio italiana - avrebbe violato l'accordo ben 18 volte. Il riferimento è al rapporto tra debito e Pil e al tetto del 3% di deficit superato ben sette volte. Senza dimenticare il surplus costantemente sopra il 6%.
«Non ci sono progressi sull'approfondimento dell'unione monetaria perché Olanda, Austria e troppo spesso la Germania si mettono in mezzo sulla solidarietà e la responsabilità congiunta. Tuttavia sono ancora speranzoso. La Germania non è ancora pronta, ma molti politici tedeschi vogliono avanzare», ha aggiunto ancora il presidente della Commissione. «Ci sono due problemi sull'eurozona», ha aggiunto, «ogni Stato vede solo sé stesso. E l'eurozona in generale non riesce a guardare al resto del mondo. Queste due cose portano alle conclusioni sbagliate». Dopo anni di scherni e attacchi all'Italia questa giravolta contro le politiche di Angela Merkel suona molto strana. Juncker si è redento? Ha cambiato veramente idea? Perchè adesso dice la verità su Berlino? Vale la sua costante politica.
La risposta è: pur di mantenere un seggio sta cambiando schieramento. Così va letto anche il suo approccio al dopo Mario Draghi. «Non mi preoccuperebbe affatto se il presidente della Bce fosse un tedesco», ha aggiunto sempre nel corso dell'intervista. «Jens Weidmann è un convinto europeista e un banchiere centrale di grande esperienza, per cui sarebbe adatto a quel ruolo. Non mi sto esprimendo a favore o contro di lui. Ma decisamente non condivido il punto di vista che è prevalente in alcune parti dell'Europa meridionale per cui un tedesco non debba essere il presidente della Bce», ha concluso. In realtà Juncker sa benissimo che la candidatura di un tedesco al vertice della Bce va benissimo a Paesi del Mediterraneo, come l'Italia, perché ostacolerebbe l'ascesa della Merkel al vertice della Commissione. Lo stesso Juncker preferisce in questo preciso momento storico stoppare la Cancelliera. Ha bisogno di nuove alleanze elettorali se vuole salvare il proprio partito e ricavarsi almeno un ruolo dentro i Cristiano sociali. Se, invece, si accoda alla Merkel e a Emmanuel Macron la sua possibilità di sparire è molto elevata.
Lo scorso mese di novembre, erano state proprio Francia e Germania a siglare un accordo in merito al rispetto delle regole del patto stabilità. I Paesi che violano i vincoli, avevano stabilito i due Stati membri, non beneficeranno dei fondi sul prossimo bilancio dell'eurozona. Ecco questo patto per Juncker adesso è un ferro incandescente da gettare via il più possibile lontano per cercare di ricavare una nicchia dentro un Partito popolare europeo riformato. Chi deve stare all'interno perché avvenga il giochino di Juncker? Proprio quel Victor Orbán fondatore del partito Fidesz che è stato sospeso un tempo dal Ppe per una serie di cartelloni elettorali in cui si accusava Juncker di complottare con il milionario ungherese George Soros per far entrare in Europa più migranti. L'altro giorno, in occasione dell'anniversario dei 15 anni dall'allargamento a Est, il presidente della commissione europea ha invece definito Orbán un eroe: «Sì, per anni ho definito privatamente Orbán un dittatore, ma lui ha sempre riso di questa cosa. Ho il massimo riguardo per Viktor».
Se la giravolta non fosse abbastanza chiara, Juncker ha aggiunto - in occasione di un'intervista al giornale ungherese Hvg anche un passaggio sulle recenti modifiche di legge compiute da Polonia e Ungheria: «Di tanto in tanto, alcuni Paesi si concedono un certo grado di insubordinazione, a seconda di chi è al potere e della fase del ciclo politico in cui si trovano. Ma sono fiducioso che questi problemi non ci preoccuperanno più». Come dire, le paginate sui quotidiani di sinistra contro la dittatura di Orbàn erano fuffa. Adesso, si fa sul serio. Bisogna conquistare seggi all'europarlamento a qualunque costo e con ogni alleato.
Bruxelles benedice il patto delle batterie franco-tedesco
Francia e Germania continuano a gettare le basi di un futuro comune, con la benedizione di Bruxelles. Sta per nascere infatti un consorzio industriale, composto da società dei due Paesi attive nel settore delle batterie per auto elettriche. Tra queste ci saranno le tedesche Opel (controllata dalla francese Psa) e Siemens, oltre al produttore francese di batterie Saft (controllata dal gruppo Total). A esse dovrebbe affiancarsi anche il gigante della chimica belga, Solvay. La stampa transalpina ha battezzato questo nuovo soggetto economico franco-tedesco l'«Airbus delle batterie». Il riferimento al gigante dei cieli, fiore all'occhiello dell'alleanza economica tra Parigi e Berlino è chiaro. E l'intenzione, nemmeno troppo taciuta da Francia e Germania, è quella di far nascere un colosso. Un soggetto che renderà ancora più concreto il trattato di Aquisgrana, che mira alla convergenza tra le nazioni sulle due sponde del Reno.
Nella conferenza stampa del 2 maggio, alla quale hanno partecipato il ministro francese dell'economia e delle finanze, Bruno Le Maire, il suo omologo tedesco, Peter Altmaier, e il Commissario europeo all'energia, Maros Sefcovic, sono già state annunciate delle cifre che parlano chiaro. «Per costruire le prime linee di produzione verranno investiti 5 o 6 miliardi di euro», ha spiegato il ministro francese, aggiungendo che «1,2 miliardi di euro al massimo» saranno rappresentati da sovvenzioni pubbliche. Circa 4 miliardi di euro saranno invece costituiti da fondi privati. La Francia investirà circa 700 milioni di euro su cinque anni. La Germania invece ha previsto di versare al massimo 1 miliardo di euro.
La presenza del Commissario Ue (che su Twitter si è complimentato con i «campioni europei, leader di un settore strategico») mostra che la Commissione ha steso il tappeto rosso davanti a questa alleanza economica. Per ora c'è un «accordo di principio», ma entro la fine del mandato della compagine guidata da Jean Claude Juncker - previsto per ottobre - dovrebbe arrivare anche un'approvazione definitiva. Nell'attesa, come ha confermato Sefcovic, «la Commissione europea continuerà a giocare il ruolo di facilitatore».
Ma per l'Ue in generale, e per l'Italia in particolare, le ricadute legate alla creazione del consorzio saranno molto meno importanti di quelle generate per Francia e Germania. Anche se nella conferenza stampa si è detto che il consorzio servirà a ridurre il ritardo produttivo tra l'Ue e la Cina, e nonostante Le Maire abbia dichiarato che «altri Stati membri, tra cui l'Italia, hanno già manifestato la propria volontà di unirsi al progetto», il nostro Paese rischia di divenire solo un mercato di consumo, con zero posti di lavoro creati dal nuovo consorzio. È già chiaro invece che la prima «fabbrica pilota», con 200 dipendenti, sorgerà in Francia, anche se Le Maire non ha detto dove. Inoltre entro il 2022-2023, dovrebbe essere costruita una fabbrica in ciascun Paese. Secondo quanto dichiarato nella conferenza stampa, ognuna impiegherà 1.500 persone «come minimo». Mica male per chi si presenterà alle prossime elezioni legislative tedesche e per le presidenziali francesi, previste rispettivamente per il 2021 e il 2022. Se Angela Merkel sembra essere arrivata a fine carriera, Emmanuel Macron appare determinato a restare in sella, anche a costo di passare sopra i gilet gialli e il malcontento che cova in Francia. L'ideologia dell'ecologia a tutti i costi risponde a logiche di realpolitik piuttosto che alla volontà di ridurre realmente l'inquinamento. In Francia, l'ala sinistra della maggioranza macronista, vive male la scarsa attenzione del presidente e del governo ai temi ambientali. Per questo un'iniziativa come quella del consorzio torna estremamente utile all'inquilino dell'Eliseo e a Edouard Philippe.
Il sostegno di Bruxelles all'«Airbus delle batterie» viene giustificato anche con la tendenza al «gretinismo» tanto in voga in questo momento nelle istituzioni Ue. Da più parti si afferma che l'auto elettrica è una soluzione ecologica ai problemi di inquinamento e di consumo di carburante. Il problema è che questo è parzialmente vero solo quando l'auto è pronta a circolare sulla strada. Invece, per produrre l'auto, le batterie o ancora, per trasportare l'energia necessaria a caricare queste ultime, l'impatto ambientale è tutt'altro che pari a zero. Inoltre non bisogna dimenticare che la durata delle batterie è estremamente limitata nel tempo e il loro smaltimento è molto complicato.
A pagare questa conversione verde, solo di facciata, sono sempre gli ultimi anelli della catena. Cioè i consumatori o i contribuenti. Lo hanno ricordato più volte anche i gilet gialli dicendosi pronti ad acquistare auto elettriche, ma di non poterlo fare, vista la sproporzione tra i loro stipendi e il costo di queste vetture.
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Il presidente della Commissione in scadenza ammette che la Germania ha fatto peggio dell'Italia: «Ha sforato e violato i patti dell'Unione la bellezza di 18 volte, le ho contate». A muoverlo è comunque il tentativo di trovare nuove alleanze a Est con Victor Orbán.Bruxelles benedice il patto delle batterie franco-tedesco. Alla faccia del mercato, la Commissione Ue dà l'ok al colosso che vuole il monopolio dell'elettrico. A discapito dell'Italia.Lo speciale comprende due articoli.Jean Claude Juncker è un avvocato lussemburghese. Dal 1995 al 2013 è stato primo ministro del piccolo Granducato, ministro del Tesoro e del Lavoro. La sua costante è sempre stata la capacità di cambiare forma. Per anni ha costruito schemi fiscali iper incentivanti per le aziende multinazionali a discapito degli altri Paesi Ue e poi, con il cappello della Commissione (dopo aver archiviato la strategia in patria), ha bastonato le nazioni più furbette. D'altronde gestire un piccolo Paese necessita di velocità politica e capacità di essere camaleonti se almeno si vuole restare in sella così tanto. Ora che il suo mandato di presidente della Commissione volge al termine le capriole aumentano. «Anche la Germania, come l'Italia, ha più volte sforato il patto di stabilità», ha detto Juncker in occasione di un'intervista al quotidiano tedesco Handelsblatt, «e Berlino continua a farlo». Secondo Juncker, la Germania - sempre critica nei confronti della politica di bilancio italiana - avrebbe violato l'accordo ben 18 volte. Il riferimento è al rapporto tra debito e Pil e al tetto del 3% di deficit superato ben sette volte. Senza dimenticare il surplus costantemente sopra il 6%. «Non ci sono progressi sull'approfondimento dell'unione monetaria perché Olanda, Austria e troppo spesso la Germania si mettono in mezzo sulla solidarietà e la responsabilità congiunta. Tuttavia sono ancora speranzoso. La Germania non è ancora pronta, ma molti politici tedeschi vogliono avanzare», ha aggiunto ancora il presidente della Commissione. «Ci sono due problemi sull'eurozona», ha aggiunto, «ogni Stato vede solo sé stesso. E l'eurozona in generale non riesce a guardare al resto del mondo. Queste due cose portano alle conclusioni sbagliate». Dopo anni di scherni e attacchi all'Italia questa giravolta contro le politiche di Angela Merkel suona molto strana. Juncker si è redento? Ha cambiato veramente idea? Perchè adesso dice la verità su Berlino? Vale la sua costante politica. La risposta è: pur di mantenere un seggio sta cambiando schieramento. Così va letto anche il suo approccio al dopo Mario Draghi. «Non mi preoccuperebbe affatto se il presidente della Bce fosse un tedesco», ha aggiunto sempre nel corso dell'intervista. «Jens Weidmann è un convinto europeista e un banchiere centrale di grande esperienza, per cui sarebbe adatto a quel ruolo. Non mi sto esprimendo a favore o contro di lui. Ma decisamente non condivido il punto di vista che è prevalente in alcune parti dell'Europa meridionale per cui un tedesco non debba essere il presidente della Bce», ha concluso. In realtà Juncker sa benissimo che la candidatura di un tedesco al vertice della Bce va benissimo a Paesi del Mediterraneo, come l'Italia, perché ostacolerebbe l'ascesa della Merkel al vertice della Commissione. Lo stesso Juncker preferisce in questo preciso momento storico stoppare la Cancelliera. Ha bisogno di nuove alleanze elettorali se vuole salvare il proprio partito e ricavarsi almeno un ruolo dentro i Cristiano sociali. Se, invece, si accoda alla Merkel e a Emmanuel Macron la sua possibilità di sparire è molto elevata. Lo scorso mese di novembre, erano state proprio Francia e Germania a siglare un accordo in merito al rispetto delle regole del patto stabilità. I Paesi che violano i vincoli, avevano stabilito i due Stati membri, non beneficeranno dei fondi sul prossimo bilancio dell'eurozona. Ecco questo patto per Juncker adesso è un ferro incandescente da gettare via il più possibile lontano per cercare di ricavare una nicchia dentro un Partito popolare europeo riformato. Chi deve stare all'interno perché avvenga il giochino di Juncker? Proprio quel Victor Orbán fondatore del partito Fidesz che è stato sospeso un tempo dal Ppe per una serie di cartelloni elettorali in cui si accusava Juncker di complottare con il milionario ungherese George Soros per far entrare in Europa più migranti. L'altro giorno, in occasione dell'anniversario dei 15 anni dall'allargamento a Est, il presidente della commissione europea ha invece definito Orbán un eroe: «Sì, per anni ho definito privatamente Orbán un dittatore, ma lui ha sempre riso di questa cosa. Ho il massimo riguardo per Viktor». Se la giravolta non fosse abbastanza chiara, Juncker ha aggiunto - in occasione di un'intervista al giornale ungherese Hvg anche un passaggio sulle recenti modifiche di legge compiute da Polonia e Ungheria: «Di tanto in tanto, alcuni Paesi si concedono un certo grado di insubordinazione, a seconda di chi è al potere e della fase del ciclo politico in cui si trovano. Ma sono fiducioso che questi problemi non ci preoccuperanno più». Come dire, le paginate sui quotidiani di sinistra contro la dittatura di Orbàn erano fuffa. Adesso, si fa sul serio. 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A esse dovrebbe affiancarsi anche il gigante della chimica belga, Solvay. La stampa transalpina ha battezzato questo nuovo soggetto economico franco-tedesco l'«Airbus delle batterie». Il riferimento al gigante dei cieli, fiore all'occhiello dell'alleanza economica tra Parigi e Berlino è chiaro. E l'intenzione, nemmeno troppo taciuta da Francia e Germania, è quella di far nascere un colosso. Un soggetto che renderà ancora più concreto il trattato di Aquisgrana, che mira alla convergenza tra le nazioni sulle due sponde del Reno. Nella conferenza stampa del 2 maggio, alla quale hanno partecipato il ministro francese dell'economia e delle finanze, Bruno Le Maire, il suo omologo tedesco, Peter Altmaier, e il Commissario europeo all'energia, Maros Sefcovic, sono già state annunciate delle cifre che parlano chiaro. «Per costruire le prime linee di produzione verranno investiti 5 o 6 miliardi di euro», ha spiegato il ministro francese, aggiungendo che «1,2 miliardi di euro al massimo» saranno rappresentati da sovvenzioni pubbliche. Circa 4 miliardi di euro saranno invece costituiti da fondi privati. La Francia investirà circa 700 milioni di euro su cinque anni. La Germania invece ha previsto di versare al massimo 1 miliardo di euro. La presenza del Commissario Ue (che su Twitter si è complimentato con i «campioni europei, leader di un settore strategico») mostra che la Commissione ha steso il tappeto rosso davanti a questa alleanza economica. Per ora c'è un «accordo di principio», ma entro la fine del mandato della compagine guidata da Jean Claude Juncker - previsto per ottobre - dovrebbe arrivare anche un'approvazione definitiva. Nell'attesa, come ha confermato Sefcovic, «la Commissione europea continuerà a giocare il ruolo di facilitatore». Ma per l'Ue in generale, e per l'Italia in particolare, le ricadute legate alla creazione del consorzio saranno molto meno importanti di quelle generate per Francia e Germania. Anche se nella conferenza stampa si è detto che il consorzio servirà a ridurre il ritardo produttivo tra l'Ue e la Cina, e nonostante Le Maire abbia dichiarato che «altri Stati membri, tra cui l'Italia, hanno già manifestato la propria volontà di unirsi al progetto», il nostro Paese rischia di divenire solo un mercato di consumo, con zero posti di lavoro creati dal nuovo consorzio. È già chiaro invece che la prima «fabbrica pilota», con 200 dipendenti, sorgerà in Francia, anche se Le Maire non ha detto dove. Inoltre entro il 2022-2023, dovrebbe essere costruita una fabbrica in ciascun Paese. Secondo quanto dichiarato nella conferenza stampa, ognuna impiegherà 1.500 persone «come minimo». Mica male per chi si presenterà alle prossime elezioni legislative tedesche e per le presidenziali francesi, previste rispettivamente per il 2021 e il 2022. Se Angela Merkel sembra essere arrivata a fine carriera, Emmanuel Macron appare determinato a restare in sella, anche a costo di passare sopra i gilet gialli e il malcontento che cova in Francia. L'ideologia dell'ecologia a tutti i costi risponde a logiche di realpolitik piuttosto che alla volontà di ridurre realmente l'inquinamento. In Francia, l'ala sinistra della maggioranza macronista, vive male la scarsa attenzione del presidente e del governo ai temi ambientali. Per questo un'iniziativa come quella del consorzio torna estremamente utile all'inquilino dell'Eliseo e a Edouard Philippe. Il sostegno di Bruxelles all'«Airbus delle batterie» viene giustificato anche con la tendenza al «gretinismo» tanto in voga in questo momento nelle istituzioni Ue. Da più parti si afferma che l'auto elettrica è una soluzione ecologica ai problemi di inquinamento e di consumo di carburante. Il problema è che questo è parzialmente vero solo quando l'auto è pronta a circolare sulla strada. Invece, per produrre l'auto, le batterie o ancora, per trasportare l'energia necessaria a caricare queste ultime, l'impatto ambientale è tutt'altro che pari a zero. Inoltre non bisogna dimenticare che la durata delle batterie è estremamente limitata nel tempo e il loro smaltimento è molto complicato. A pagare questa conversione verde, solo di facciata, sono sempre gli ultimi anelli della catena. Cioè i consumatori o i contribuenti. Lo hanno ricordato più volte anche i gilet gialli dicendosi pronti ad acquistare auto elettriche, ma di non poterlo fare, vista la sproporzione tra i loro stipendi e il costo di queste vetture.
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Di fronte a questa ondata di insicurezza, i labour propongono più telecamere nelle città più importanti del Paese, applicando così, in modo massiccio, il riconoscimento facciale dei criminali. Oltre 45 milioni di cittadini verranno riconosciuti attraverso la videosorveglianza. Secondo la proposta avanzata dai labour, la polizia potrà infatti utilizzare ogni tipo di videocamera. Non solo quelle pubbliche, ma anche quelle presenti sulle auto, le cosiddette dashcam, e pure quelle dei campanelli dei privati cittadini. Come riporta il Telegraph, «le proposte sono accompagnate da un’iniziativa volta a far sì che la polizia installi telecamere di riconoscimento facciale “live” che scansionino i sospetti ricercati nei punti caldi della criminalità in Inghilterra e in Galles. Anche altri enti pubblici, oltre alla polizia, e aziende private, come i rivenditori, potrebbero essere autorizzati a utilizzare la tecnologia di riconoscimento facciale nell’ambito del nuovo quadro giuridico».
Il motivo, almeno nelle intenzioni, è certamente nobile, come sempre in questi casi. E la paura è tanta. Eppure questa soluzione pone importanti interrogativi legati alla libertà della persone e, soprattutto, alla loro privacy. C’è infatti già un modello simile ed è quello applicato in Cina. Da tempo infatti Pechino utilizza le videocamere per controllare la popolazione in ogni suo minimo gesto. Dagli attraversamenti pedonali ai comportamenti più privati. E premia (oppure punisce) il singolo cittadino in base ad ogni sua singola azione. Si tratta del cosiddetto credito sociale, che non ha a che fare unicamente con la liquidità dei cittadini, ma anche con i loro comportamenti, le loro condanne giudiziarie, le violazioni amministrative gravi e i loro comportamenti più o meno affidabili.
Quella che sembrava una distopia lì è diventata una realtà. Del resto anche in Italia, durante il Covid, è stato applicato qualcosa di simile con il Green Pass. Eri un bravo cittadino - e quindi potevi accedere a tutti i servizi - solamente se ti vaccinavi, altrimenti venivi punito: non potevi mangiare al chiuso, anche se era inverno, oppure prendere i mezzi pubblici.
Per l’avvocato Silkie Carlo, a capo dell’organizzazione non governativa per i diritti civili Big Brother, «ogni ricerca in questa raccolta di nostre foto personali sottopone milioni di cittadini innocenti a un controllo di polizia senza la nostra conoscenza o il nostro consenso. Il governo di Sir Keir Starmer si sta impegnando in violazioni storiche della privacy dei britannici, che ci si aspetterebbe di vedere in Cina, ma non in una democrazia». Ed è proprio quello che sta accadendo nel Regno Unito e che può accadere anche da noi. Il sistema cinese, poi, sta potenziando ulteriormente le proprie capacità. Secondo uno studio pubblicato dall’Australian strategic policy institute, Pechino sta potenziando ulteriormente la sua rete di controllo sulla cittadinanza sfruttando l’intelligenza artificiale, soprattutto per quanto riguarda la censura online. Un pericolo non solo per i cinesi, ma anche per i Paesi occidentali visto che Pechino «è già il maggiore esportatore mondiale di tecnologie di sorveglianza basate sull’intelligenza artificiale». Come a dire: ciò che stanno sviluppando lì, arriverà anche da noi. E allora non saranno solamente i nostri Paesi a controllare le nostre azioni ma, in modo indiretto, anche Pechino.
C’è una frase di Benjamin Franklin che viene ripresa in Captain America e che racconta bene quest’ansia da controllo. Un’ansia che nasce dalla paura, spesso provocata da politiche fallaci. «Baratteranno la loro libertà per un po’ di sicurezza». Come sta succedendo nel Regno Unito, dopo anni di accoglienza indiscriminata. O come è successo anhe in Italia durante il Covid. Per anni, ci siamo lasciati intimorire, cedendo libertà e vita. Oggi lo scenario è peggiore, visto l’uso massiccio della tecnologia, che rende i Paesi occidentali sempre più simili alla Cina. E non è una bella notizia.
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Il ministro ha ricordato che il concorrente europeo Fcas (Future combat aircraft system) avanza a ritmo troppo lento per disaccordi tra Airbus (Francia-Germania) e Dassault (Francia) riguardanti i diritti e la titolarità delle tecnologie. «È fallito il programma franco-tedesco […], probabilmente la Germania potrebbe entrare a far parte in futuro di questo progetto [...]. Abbiamo avuto richieste da Canada, Arabia Saudita, e penso che l’Australia possa essere interessata. Più nazioni salgono più aumenta la massa critica che puoi investire e meno costerà ogni esemplare». Tutto vero, rimangono però perplessità su un possibile coinvolgimento dei sauditi per due ragioni. La prima: l’Arabia sta incrementando i rapporti industriali militari con la Cina, che così avrebbe accesso ai segreti del nuovo caccia. La seconda: l’Arabia Saudita aveva finanziato anche altri progetti e tra questi persino uno con la Turchia, nazione che, dopo essere stata espulsa dal programma F-35 durante il primo mandato presidenziale di Trump a causa dell’acquisto dei missili russi S-400, ora sta cercando di rientrarci trovando aperture dalla Casa Bianca. Anche perché lo stesso Trump ha risposto in modo possibilista alla richiesta di Riad di poter acquisire lo stesso caccia nonostante gli avvertimenti del Pentagono sulla presenza cinese.
Per l’Italia, sede della fabbrica Faco di Cameri (Novara) che gli F-35 li assembla, con la previsione di costruire parti del Gcap a Torino Caselle (dove oggi si fanno quelle degli Eurofighter Typhoon), significherebbe creare una ricaduta industriale per qualche decennio. Ma dall’altra parte delle Alpi la situazione Fcas è complicata: un incontro sul futuro caccia che si sarebbe dovuto tenere in ottobre è stato rinviato per i troppi ostacoli insorti nella proprietà intellettuale del progetto. Se dovesse fallire, Berlino potrebbe essere colpita molto più duramente di Parigi. Questo perché la Francia, con Dassault, avrebbe la capacità tecnica di portare avanti da sola il programma, come del resto ha fatto 30 anni fa abbandonando l’Eurofighter per fare il Rafale. Ma l’impegno finanziario sarebbe enorme. Non a caso il Ceo di Dassault, Eric Trappier, ha insistito sul fatto che, se l’azienda non verrà nominata «leader indiscusso» del programma, lo Fcas potrebbe fallire. Il vantaggio su Airbus è evidente: Dassault potrebbe aggiornare ancora i Rafale passando dalla versione F5 a una possibile F6 e farli durare fino al 2060, ovvero due decenni dalla prevista entrata in servizio del nostro Gcap. Ma se Berlino dovesse abbandonare il progetto, non è scontata l’adesione al Gcap come partner industriale, mentre resterebbe un possibile cliente. Non a caso i tedeschi avrebbero già chiesto di poter assumere lo status di osservatori del programma. Senza Fcas anche la Spagna si troverebbe davanti decisioni difficili: in agosto Madrid aveva dichiarato che non avrebbe acquistato gli F-35 ma gli Eurofighter Typhoon e poi i caccia Fcas. Un mese dopo il primo ministro Pedro Sánchez espresse solidarietà alla Germania in relazione alla controversia tra Airbus e Dassault. Dove però hanno le idee chiare: sarebbe un suicidio industriale condividere la tecnologia e l’esperienza maturata con i Rafale, creata da zero con soldi francesi, impiegata con l’aviazione francese e già esportata con successo in India, Grecia ed Emirati arabi.
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Guido Crosetto (Ansa)
Tornando alla leva, «mi consente», aggiunge Crosetto, «di avere un bacino formato che, in caso di crisi o anche calamità naturali, sia già pronto per intervenire e non sono solo professionalità militari. Non c’è una sola soluzione, vanno cambiati anche i requisiti: per la parte combat, ad esempio, servono requisiti fisici diversi rispetto alla parte cyber. Si tratta di un cambio di regole epocale, che dobbiamo condividere con il Parlamento». Crosetto immagina in sostanza un bacino di «riservisti» pronti a intervenire in caso ovviamente di un conflitto, ma anche di catastrofi naturali o comunque situazioni di emergenza. Va precisato che, per procedere con questo disegno, occorre prima di tutto superare la legge 244 del 2012, che ha ridotto il personale militare delle forze armate da 190.000 a 150.000 unità e il personale civile da 30.000 a 20.000. «La 244 va buttata via», sottolinea per l’appunto Crosetto, «perché costruita in tempi diversi e vanno aumentate le forze armate, la qualità, utilizzando professionalità che si trovano nel mercato».
Il progetto di Crosetto sembra in contrasto con quanto proposto pochi giorni fa dal leader della Lega e vicepremier Matteo Salvini: «Sulla leva», ha detto Salvini, «ci sono proposte della Lega ferme da anni, non per fare il militare come me nel '95. Io dico sei mesi per tutti, ragazzi e ragazze, non per imparare a sparare ma per il pronto soccorso, la protezione civile, il salvataggio in mare, lo spegnimento degli incendi, il volontariato e la donazione del sangue. Sei mesi dedicati alla comunità per tutte le ragazze e i ragazzi che siano una grande forma di educazione civica. Non lo farei volontario ma per tutti». Intanto, Crosetto lancia sul tavolo un altro tema: «Serve aumentare le forze armate professionali», dice il ministro della Difesa, «e in questo senso ho detto più volte che l’operazione Strade sicure andava lentamente riaffidata alle forze di polizia». Su questo punto è prevedibile un attrito con Salvini, considerato che la Lega ha più volte sottolineato di immaginare che le spese militari vadano anche in direzione della sicurezza interna. L’operazione Strade sicure è il più chiaro esempio dell’utilizzo delle forze armate per la sicurezza interna. Condotta dall’Esercito italiano ininterrottamente dal 4 agosto 2008, l’operazione Strade sicure viene messa in campo attraverso l’impiego di un contingente di personale militare delle Forze armate che agisce con le funzioni di agente di pubblica sicurezza a difesa della collettività, in concorso alle Forze di Polizia, per il presidio del territorio e delle principali aree metropolitane e la vigilanza dei punti sensibili. Tale operazione, che coinvolge circa 6.600 militari, è, a tutt'oggi, l’impegno più oneroso della Forza armata in termini di uomini, mezzi e materiali.
Alle parole, come sempre, seguiranno i fatti: vedremo quale sarà il punto di equilibrio che verrà raggiunto nel centrodestra su questi aspetti. Sul versante delle opposizioni, il M5s chiede maggiore trasparenza: «Abbiamo sottoposto al ministro Crosetto un problema di democrazia e trasparenza», scrivono in una nota i capigruppo pentastellati nelle commissioni Difesa di Camera e Senato, Arnaldo Lomuti e Bruno Marton, «il problema della segretezza dei target capacitivi concordati con la Nato sulla base dei quali la Difesa porta avanti la sua corsa al riarmo. Non è corretto che la Nato chieda al nostro Paese di spendere cifre folli senza che il Parlamento, che dovrebbe controllare queste spese, conosca quali siano le esigenze che motivano e guidano queste richieste. Il ministro ha risposto, in buona sostanza, che l’accesso a queste informazioni è impossibile e che quelle date dalla Difesa sono più che sufficienti. Non per noi».
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