2021-03-08
Il Pd in liquidazione: è iniziata la grande fuga
Più che un partito liquido, come si teorizzava anni fa che dovesse essere, il Pd si sta rivelando un partito in liquefazione, anzi: in liquidazione. Il problema non sono solo gli scontri interni, che hanno indotto il suo segretario a trarre le conseguenze, cioè a dimettersi, con la motivazione che all'interno del partito «ormai si parla solo di poltrone». L'addio improvviso di Nicola Zingaretti certo è un segnale di ciò che sta accadendo e del clima che si registra in quello che un tempo era il grande contenitore della sinistra.Tuttavia, insieme all'inatteso congedo del segretario, c'è il fatto che il Pd è l'unico partito che non riesce a esprimere una leadership stabile per più di qualche anno. Se si ripercorre la sua storia, cioè da quando gli eredi del vecchio Pci e quelli della sinistra Dc decisero di metter su casa sotto lo stesso tetto, fondendo Ds e Margherita, si scopre che il turnover di segretari è stato vorticoso. In appena 13 anni se ne contano nove, cioè in media uno ogni anno e mezzo.Il primo è stato Walter Veltroni, che è resistito dall'ottobre del 2007 al febbraio 2009, giusto il tempo di perdere tutte le elezioni possibili. Poi è toccato a Dario Franceschini tappare il buco aperto dalle dimissioni di Veltroni, per un periodo di nove mesi. Pier Luigi Bersani ha resistito più di tutti, dal novembre 2009 alla primavera del 2013, ma non è riuscito a resistere alla sconfitta elettorale e all'avanzata dei 5 stelle. Caduto lui, è stato il turno di Guglielmo Epifani, segretario reggente per sette mesi. Dopo di che, all'ex segretario della Cgil è subentrato Matteo Renzi, che svetta in cima alla classifica dei segretari più duraturi, giocandosela con Bersani. Caduto il Rottamatore nel 2017 a seguito della sconfitta referendaria, il Pd è stato guidato per qualche mese da Matteo Orfini, ma solo il tempo per Renzi di riprendersi il partito con nuove primarie. Il secondo mandato dell'ex sindaco di Firenze tuttavia è durato solo dieci mesi, perché a interromperlo ci ha pensato il risultato elettorale del 2018. Finita l'epoca Renzi, è stata la volta del quarto reggente e dopo Epifani e Orfini è toccato a Maurizio Martina: tre mesi prima di essere incoronato segretario. Ma una volta in sella, il nuovo numero uno non ha avuto vita lunga: solo quattro mesi ed era già dimissionario. Risultato, il 17 marzo del 2019, a seguito delle ennesime primarie, gli iscritti hanno scelto Zingaretti il quale, come da tradizione, è durato poco. In totale: cinque segretari e quattro sostituti.L'instabilità è certo un dato distintivo del Pd, unico partito dove i leader non durano più di un paio d'anni e dove i reggenti si moltiplicano. Tuttavia, non si tratta della sola anomalia: oltre alle leadership, il Partito democratico brucia anche le carriere della sua prima linea. O forse, le favorisce: il numero dei dirigenti che gettano la spugna e lasciano il partito per intraprendere un percorso lontano dalla politica va di pari passo con il turnover di segretari. Il primo a scegliere un posto sicuro in un'azienda, piuttosto di uno insicuro nel partito, è stato qualche anno fa Lapo Pistelli, che da viceministro agli Esteri del governo Renzi è passato senza soluzione di continuità all'Eni, divenendone executive vicepresident. Enrico Letta, dopo essersi fatto soffiare la poltrona a Palazzo Chigi da Matteo Renzi, ha scelto l'auto esilio, dimettendosi dal Parlamento per assumere l'incarico di direttore della scuola d'affari internazionale dell'Istituto di studi politici di Parigi. Lo scorso anno, ha lasciato anche Nicola Latorre, che dopo quattro legislature ha preferito decidere di fare il manager, divenendo direttore generale dell'Agenzia industrie difesa. Un esempio seguito subito dopo da Pier Carlo Padoan, che il 13 ottobre ha accettato il posto di presidente del consiglio di amministrazione di Unicredit, dimettendosi da deputato. Quest'anno, a dire addio al partito è stato Maurizio Martina, ex segretario ed ex ministro dell'Agricoltura, che alle beghe del Pd ha preferito un ufficio da vicedirettore della Fao. L'ultimo a far le valigie è stato, la scorsa settimana, Marco Minniti, cinque legislature sulle spalle, con un curriculum da ministro dell'Interno e da sottosegretario con delega ai servizi segreti. Per lui si è aperto un futuro in Leonardo, il colosso della difesa: per la partecipata pubblica si occuperà di relazioni tra Mediterraneo e Oriente. In pratica, sembra di assistere a un rompete le righe, con un fuggi fuggi di dirigenti dal Pd. L'aspetto sorprendente è che dei sei che hanno lasciato, uno ha trovato riparo in un'azienda petrolifera, uno in una banca, due in associazioni o fondazioni della difesa, che si occupano cioè di armamenti, un quinto in un'organizzazione delle Nazioni unite e l'ultimo in una scuola internazionale. Autentici esempi di che cosa voglia dire partito di popolo. Ma soprattutto, esempi di politici che dopo anni dedicati alla lotta di classe hanno preferito il viaggio in prima classe.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)