2022-04-02
Paura e Vespa: vita da fotografo di guerra
Da Kiev è difficile aggiungere informazioni utili al circuito globale di immagini e siti. Occorre essere riconoscibili e aggirare gli scrupolosi e paranoici check point cittadini. E allora anche uno scooter italiano può aiutare ad allentare il sospetto dei soldatiDomani sarà passato un mese. Un mese di guerra e di racconto, passato cercando soprattutto di avere notizie dai civili e dai volontari, alla ricerca di angolature diverse rispetto ai titoli, alle immagini, ai video che i bastioni dell’informazione propongono globalmente. Nei primi giorni ci siamo trovati parte attive del circo mediatico: spesso capitato che uscisse sui giornali di tutto il mondo la fotografia che tutti noi fotografi avevamo scattato, magari da pochi centimetri di distanza. Dall’inizio però l’intento voleva essere quello di non seguire i fatti principali della guerra, ma di provare a viverla nei panni degli ucraini: così abbiamo preso una stanza a casa di un giovane creativo nel quartiere vicino a Irpin, dove i russi stavano per sfondare in città, e da dove sarebbero dovuti passare. Da qui abbiamo seguito le notizie sulle app locali e sul tam tam di messaggi Telegram della resistenza.L’unica cosa «ufficiale» che abbiamo provato a fare per parecchi giorni è l’accredito militare, che continua a non arrivare. Operazione complessa: pochi «eletti» vengono guidati sul campo dopo la battaglia con scorta militare a indicare i corpi e ciò che si può e non si può filmare. Così, immersi nella vita civile locale, abbiamo dovuto fare i conti con continui fuori programma, ma abbiamo anche potuto conoscere tanta gente comune, vivere come loro fino al punto di non capire perché la Kiev che vivevamo era così diversa da quella che i colleghi raccontavano nei collegamenti fatti dalle terrazze degli hotel e da piazza Maidan.due città diverseQuando siamo entrati nel centro cittadino, nel quartiere degli hotel occupati dalla stampa, quello di piazza Maidan e degli edifici governativi, abbiamo capito perché molti parlavano di una città vuota e noi di una città con negozi aperti e persone in giro. Un motivo in realtà molto semplice: i quartieri centrali sono meno abitati, le persone che li abitano fanno parte della classe sociale più ricca e quindi più facilmente in grado di uscire dal Paese.Un’altra grande difficoltà in cui ci si imbatte è la natura stessa delle notizie: questo è forse il primo conflitto in cui lo Stato che attacca nega di attaccare e nega anche che ci sia un guerra; il primo, inoltre, ad essere così tecnologico, vissuto con il cellulare in mano con le dirette Facebook; il primo, infine, che ci fa vedere la guerra dalle immagini dei droni commerciali (non di quelli militari o dai satelliti), centinaia di immagini video e notizie che arrivano una dietro l’altra tutto il giorno sui nostri smartphone che sono diventati anche il nostro vero strumento. Quello con cui scriviamo gli articoli, quello che - essendo già nella tua mano - è pronto per essere attivato per un video o una foto.Proprio questa mole di informazioni e dati rappresenta paradossalmente un problema: finiscono per essere contrastanti sugli stessi argomenti, i numeri sono spesso così diversi che ogni sera ci troviamo a fare la rassegna stampa per due ore prima di dormire, controllando decine di pagine per decine di notizie per cercare di finire la giornata con le idee più chiare possibili.Ma le difficoltà più grandi arrivano dai continui controlli ai posti di blocco: il secondo giorno siamo stati scambiati per sabotatori, la polizia speciale ci ha seguiti e bloccati tirandoci fuori dalle macchine con le armi spianate, salvo poi rendersi conto dell’errore - con tanto di scuse. Altre volte siamo stati fermati per ore, aspettando che i volontari della difesa territoriale guardassero tutta la nostra vita nel rullo del cellulare, analizzassero le cartelle nei nostri computer, spesso apparentemente solo per voyeurismo. La paura dei «sabotatori» è alta dappertutto, e anche i giornalisti potrebbero essere spie: così l’accesso alle zone che vorremmo mostrare è sempre molto limitato e occorre trovare altre strade secondarie, tornare indietro, rimanendo intasati nel traffico per ore e guardando sfumare la giornata di lavoro dal finestrino.Bisogna poi organizzare la logistica, il traduttore, una macchina sempre disponibile, un piano di fuga (meglio se più di uno, e meglio ancora se non saltano nella prima settimana...).Vuol dire riorganizzare tutto più volte: in città i fixer (professionisti che lavorano per la stampa trovando cose, risolvendo problemi, tenendo i rapporti con i locali) sono preziosissimi e rari, così come gli autisti disposti a rischiare la vita in posti non protetti o in zone sconosciute. soluzione «tricolore»Per alcuni giorni, viste le code ai check point e le tante ore perse, abbiamo deciso di spostarci con una Vespa, trovata al Vespa club di Kiev. A parte il freddo e l’impossibilita di scrivere durante i viaggi, siamo riusciti se non altro a risolvere il problema code ed essere facilmente riconosciti ai check point che non ci controllavano più.È soprattutto guardando gli altri, i soldati e i volontari con cui abbiamo vissuto e diviso l’alloggio prima in un bunker in città e poi verso la prima linea a Nord, che si capisce come tutto sia difficile in guerra: dal gestire l’adrenalina con i conseguenti cali, al non sapere mai cosa ci aspetta il minuto dopo, al semplice preparare le scarpe prima di andare a letto. Devono essere allacciate, ma abbastanza larghe da infilare gli scarponi in fretta in caso ci sia da correre.
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)
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