True
2021-05-08
Passa in fascia gialla quasi tutta Italia. Ma restiamo ostaggi delle follie dell’Rt
Il consueto bollettino della cabina di regia ieri ci informava che è salito l'indice di contagiosità del coronavirus, passato in Italia dallo 0,85 della scorsa settimana a 0,89. Da lunedì, tutte le Regioni resteranno in fascia gialla, colorazione che tingerà di nuovo Puglia, Basilicata e Calabria mentre la Valle d'Aosta raggiungerà Sicilia e Sardegna in zona arancione. Nessuna retrocessione in «rosso». Cala la pressione su ospedali e terapie intensive, così pure diminuisce l'incidenza settimanale (da 146 è a 127 ogni 100.000 abitanti), ma dipendiamo ancora da quel benedetto Rt per sapere se finiamo in una colorazione diversa, con nuove limitazioni alle libertà personali e pesanti battute d'arresto per l'economia del Paese.
Stiamo parlando di uno dei parametri in base ai quali viene calcolata la capacità di espandersi dell'epidemia, dopo l'applicazione delle misure che dovrebbero contenere il diffondersi del Covid, quindi in una misura contingente. Se l'Rt è superiore a 1, un positivo starebbe contagiando più di una persona: il numero dei casi sarebbe in crescita. Al contrario, un valore inferiore a 1 significherebbe che l'epidemia sta rallentando. Il condizionale è d'obbligo perché l'indice è una stima, perciò relativa, imprecisa, non dà indicazioni sul reale numero delle persone contagiate. Purtroppo anche un singolo caso positivo in più può far balzare l'Rt a valori maggiori di 1, mentre per essere attendibile il valore andrebbe accompagnato dal numero assoluto di casi cui si riferisce. Eppure, anche ieri il presidente dell'Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro, ha raccomandato «grande attenzione a Rt, deve stare sotto 1».
Da mesi le Regioni chiedono che si cambi metodo nella misurazione dell'andamento della pandemia, per non finire puntualmente penalizzate dopo il report della cabina di regia. «La prima cosa da superare oggi è l'indice Rt», ha detto Massimiliano Fedriga, che lo ritiene poco affidabile perché «quando ci sono pochi casi rischia di salire molto velocemente». Il governatore del Friuli Venezia Giulia, intervenendo ieri a Sky Tg24, spiegava che «i parametri vanno adeguati alla situazione contingente del Paese. Non possiamo immaginare che questa estate, nel pieno della stagione turistica, una Regione che passa da due a otto contagi si ritrovi in zona rossa proprio perché schizza l'Rt». In alternativa, il presidente della Conferenza delle Regioni suggerisce «l'Rt ospedaliero: fa capire se aumentano o diminuiscono le richieste di ospedalizzazione ed è un indicatore che può dare un segnale importante, non una visione distorta». Invece di guardare alle date di inizio sintomi, spesso non comunicate nella loro totalità e che quando i casi sono pochi rischiano di sovrastimare la diffusione del contagio, si considerano quelle di ingresso in ospedale.
La situazione del Veneto è emblematica. Malgrado ieri il tasso di positività fosse all'1,56%, «la minore incidenza della terza ondata», commentava il governatore Luca Zaia, e nonostante da dieci giorni le dimissioni abbiano superato di gran lunga il numero degli ingressi, fino all'ultimo a Venezia si è temuto il passaggio in zona arancione perché l'Rt è 0,95. Anche Zaia insiste per una revisione dei parametri, altrimenti «c'è il rischio che per un calcolo questa estate i turisti si trovino a essere chiusi senza muoversi».
Già rischiamo di riuscire ad attrarre ben pochi vacanzieri, con l'estate alle porte e ancora troppe limitazioni che non incoraggiano un soggiorno nel nostro Paese. Ieri il Financial Times ha dedicato un servizio agli sforzi profusi da alcuni Stati del Sud Europa, utilizzando il Recovery fund per rilanciare il turismo. Ampio spazio veniva dato a quanto stanno facendo Spagna e Grecia, perfino alla Francia (meno legata a pacchetti vacanza «sole e mare») erano riservate più righe che all'Italia, cui si faceva cenno solo per dire che il settore turismo «si prepara a riaprire, utilizzando soldi dell'Ue per questo sforzo» e che ad aprile il governo Draghi «ha vietato l'approdo delle grandi navi da crociera a Venezia».
Sarebbe questa la cartolina del Belpaese che sappiamo offrire? Mentre i tour operator della Croazia da gennaio stanno proponendosi a tedeschi e austriaci come l'alternativa per «salvare le ferie» in sicurezza? Non dimentichiamo che ad aprile la Sardegna era stata pesantemente penalizzata, passando dopo tre settimane da unica Regione bianca alla fascia rossa, perché l'indice Rt era schizzato a 1,54. Non importava che gli altri parametri fossero buoni, con numeri bassi di ricovero nei reparti ordinari e nelle terapie, la retrocessione fu determinata dall'Rt, indice che «viene stimato male e il suo uso è improprio per definire i livelli di rischio», dichiarò alla Nuova Sardegna Antonello Maruotti, professore ordinario di statistica all'università Lumsa di Roma e cofondatore di Stat group 19, gruppo di studi statistici sul Covid 19. Aggiunse: «Se ci fosse stato un caso il primo giorno, 2 il secondo e 3 il terzo, potremmo dedurre che c'è una capacità di contagio altissima. Ma valutare la capacità di contagio partendo da numeri bassi è sbagliato».
Pensiamo alla condizione anche dell'Alto Adige, che ieri ha rischiato di finire tra due giorni in zona arancione perché l'indice è a 1,07. Eppure nella Provincia di Bolzano i positivi sono solo 1.179, nei reparti Covid risultano ricoverate 34 persone, 6 nelle terapie intensive. In territorio altoatesino il coronavirus è praticamente scomparso ma si guarda ancora all'Rt, lanciando messaggi preoccupanti ai turisti che vogliono prenotare vacanze in Italia.
Dubbi sul Tso al liceale «no mask»
Ai compagni di classe aveva appena distribuito un opuscolo che gli avrebbe fornito un uomo misterioso che lui chiama «il costituzionalista» e che ora a Fano bollano tutti come un «no mask». Poi si era incatenato al banco, perché nei giorni scorsi era stato allontanato dall'aula su decisione degli insegnanti. La sua colpa? Protestava contro l'uso della mascherina in classe. E, così, giovedì scorso, dopo due ore durante le quali i docenti avrebbero cercato di farlo desistere, dall'Istituto Olivetti di Fano, nelle Marche, è stato trasferito prima al pronto soccorso, con tanto di pattuglia della polizia, e poi, con un Tso, il trattamento sanitario obbligatorio, è finito in psichiatria. A 18 anni. Per una protesta. Anche i genitori, subito avvertiti e arrivati sul posto, non hanno potuto fare nulla per evitare il Tso.
Marco Ugo Filisetti, direttore generale dell'Ufficio scolastico regionale delle Marche, minimizza: «Non è stata la scuola a decidere per il Tso, ma le autorità sanitarie che, evidentemente, lo hanno ritenuto necessario. Certo l'intervento meno è invasivo e meglio è». A chiamare i sanitari è stata la dirigente scolastica. La situazione, però, si sarebbe complicata non a scuola, ma con i sanitari. Per il Tso si sarebbe quindi optato dopo. «Non abbiamo ancora sentito la dirigente scolastica», precisa Filisetti, che esclude elementi tali da poter giustificare l'invio degli ispettori. Ieri mattina, però, davanti all'istituto scolastico, i compagni del diciottenne si sono riuniti per protestare. È stata la dirigente scolastica a spiegare che il «costituzionalista», che le autorità scolastiche conoscono, è una persona che starebbe plagiando il ragazzo.
«Sarei scesa per dargli un pugno in faccia, perché lo ha plagiato e questa storia mi addolora profondamente, soprattutto come mamma», ha detto la preside al Resto del Carlino, aggiungendo che il diciottenne con il cellulare in viva voce parlava con questa persona che gli avrebbe anche suggerito che se la polizia lo avesse portato via con la forza sarebbe stata una aggravante per gli agenti. «Se mi dovessero chiamare dirò tutto», ha detto la preside. Ma dalla scuola non sono partite denunce.
Il giovane ha una buona condotta e un buon rendimento scolastico, ma stando alle ricostruzioni della dirigente scolastica e dei prof sarebbe stato suggestionato da un cinquantenne, suo amico, che lo avrebbe convinto alle azioni di protesta contro la mascherina. Il ragazzo a telefono ha spiegato di stare bene e di aver saputo che rimarrà per una settimana in ospedale. Una dottoressa lo avrebbe privato di oggetti ritenuti pericolosi e gli sarebbero stati somministrati dei calmanti. E prima che gli venisse tolto anche il cellulare, ha detto: «I miei genitori non sono con me». «Si porti subito questo ragazzo in seno alla sua famiglia e si assista lui e i suoi cari con quella prossimità necessaria e di civiltà», ha commentato Vito Inserra dell'associazione Libera-mente. Il senatore della Lega Armando Siri, invece, ha fatto sapere che sta raccogliendo dettagli sulla vicenda: «Ha dell'incredibile», ha commentato, «andrò a fondo».
Massimo Seri, il sindaco di Fano che ha firmato il ricovero, ha spiegato: «È un atto dovuto, perché il ricovero forzato deve essere proposto da un medico e controfirmato da un altro collega. La firma del sindaco è solo una formalità». Il ricovero, poi, dovrà essere validato anche da un giudice del tribunale. La polemica è tutta concentrata sul misterioso «costituzionalista». Ma è il ragazzo a pagarne le conseguenze.
Continua a leggereRiduci
L'Iss insiste: «Deve rimanere sotto l'1». L'indice però è discusso e può penalizzare il turismo. Regioni alla carica: «Va cambiato».Il diciottenne di Fano ha una buona condotta e buoni voti. Tuttavia, secondo i prof, sarebbe stato plagiato da un amico cinquantenne, che lui chiama «il costituzionalista».Lo speciale contiene due articoli.Il consueto bollettino della cabina di regia ieri ci informava che è salito l'indice di contagiosità del coronavirus, passato in Italia dallo 0,85 della scorsa settimana a 0,89. Da lunedì, tutte le Regioni resteranno in fascia gialla, colorazione che tingerà di nuovo Puglia, Basilicata e Calabria mentre la Valle d'Aosta raggiungerà Sicilia e Sardegna in zona arancione. Nessuna retrocessione in «rosso». Cala la pressione su ospedali e terapie intensive, così pure diminuisce l'incidenza settimanale (da 146 è a 127 ogni 100.000 abitanti), ma dipendiamo ancora da quel benedetto Rt per sapere se finiamo in una colorazione diversa, con nuove limitazioni alle libertà personali e pesanti battute d'arresto per l'economia del Paese. Stiamo parlando di uno dei parametri in base ai quali viene calcolata la capacità di espandersi dell'epidemia, dopo l'applicazione delle misure che dovrebbero contenere il diffondersi del Covid, quindi in una misura contingente. Se l'Rt è superiore a 1, un positivo starebbe contagiando più di una persona: il numero dei casi sarebbe in crescita. Al contrario, un valore inferiore a 1 significherebbe che l'epidemia sta rallentando. Il condizionale è d'obbligo perché l'indice è una stima, perciò relativa, imprecisa, non dà indicazioni sul reale numero delle persone contagiate. Purtroppo anche un singolo caso positivo in più può far balzare l'Rt a valori maggiori di 1, mentre per essere attendibile il valore andrebbe accompagnato dal numero assoluto di casi cui si riferisce. Eppure, anche ieri il presidente dell'Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro, ha raccomandato «grande attenzione a Rt, deve stare sotto 1».Da mesi le Regioni chiedono che si cambi metodo nella misurazione dell'andamento della pandemia, per non finire puntualmente penalizzate dopo il report della cabina di regia. «La prima cosa da superare oggi è l'indice Rt», ha detto Massimiliano Fedriga, che lo ritiene poco affidabile perché «quando ci sono pochi casi rischia di salire molto velocemente». Il governatore del Friuli Venezia Giulia, intervenendo ieri a Sky Tg24, spiegava che «i parametri vanno adeguati alla situazione contingente del Paese. Non possiamo immaginare che questa estate, nel pieno della stagione turistica, una Regione che passa da due a otto contagi si ritrovi in zona rossa proprio perché schizza l'Rt». In alternativa, il presidente della Conferenza delle Regioni suggerisce «l'Rt ospedaliero: fa capire se aumentano o diminuiscono le richieste di ospedalizzazione ed è un indicatore che può dare un segnale importante, non una visione distorta». Invece di guardare alle date di inizio sintomi, spesso non comunicate nella loro totalità e che quando i casi sono pochi rischiano di sovrastimare la diffusione del contagio, si considerano quelle di ingresso in ospedale. La situazione del Veneto è emblematica. Malgrado ieri il tasso di positività fosse all'1,56%, «la minore incidenza della terza ondata», commentava il governatore Luca Zaia, e nonostante da dieci giorni le dimissioni abbiano superato di gran lunga il numero degli ingressi, fino all'ultimo a Venezia si è temuto il passaggio in zona arancione perché l'Rt è 0,95. Anche Zaia insiste per una revisione dei parametri, altrimenti «c'è il rischio che per un calcolo questa estate i turisti si trovino a essere chiusi senza muoversi». Già rischiamo di riuscire ad attrarre ben pochi vacanzieri, con l'estate alle porte e ancora troppe limitazioni che non incoraggiano un soggiorno nel nostro Paese. Ieri il Financial Times ha dedicato un servizio agli sforzi profusi da alcuni Stati del Sud Europa, utilizzando il Recovery fund per rilanciare il turismo. Ampio spazio veniva dato a quanto stanno facendo Spagna e Grecia, perfino alla Francia (meno legata a pacchetti vacanza «sole e mare») erano riservate più righe che all'Italia, cui si faceva cenno solo per dire che il settore turismo «si prepara a riaprire, utilizzando soldi dell'Ue per questo sforzo» e che ad aprile il governo Draghi «ha vietato l'approdo delle grandi navi da crociera a Venezia». Sarebbe questa la cartolina del Belpaese che sappiamo offrire? Mentre i tour operator della Croazia da gennaio stanno proponendosi a tedeschi e austriaci come l'alternativa per «salvare le ferie» in sicurezza? Non dimentichiamo che ad aprile la Sardegna era stata pesantemente penalizzata, passando dopo tre settimane da unica Regione bianca alla fascia rossa, perché l'indice Rt era schizzato a 1,54. Non importava che gli altri parametri fossero buoni, con numeri bassi di ricovero nei reparti ordinari e nelle terapie, la retrocessione fu determinata dall'Rt, indice che «viene stimato male e il suo uso è improprio per definire i livelli di rischio», dichiarò alla Nuova Sardegna Antonello Maruotti, professore ordinario di statistica all'università Lumsa di Roma e cofondatore di Stat group 19, gruppo di studi statistici sul Covid 19. Aggiunse: «Se ci fosse stato un caso il primo giorno, 2 il secondo e 3 il terzo, potremmo dedurre che c'è una capacità di contagio altissima. Ma valutare la capacità di contagio partendo da numeri bassi è sbagliato». Pensiamo alla condizione anche dell'Alto Adige, che ieri ha rischiato di finire tra due giorni in zona arancione perché l'indice è a 1,07. Eppure nella Provincia di Bolzano i positivi sono solo 1.179, nei reparti Covid risultano ricoverate 34 persone, 6 nelle terapie intensive. In territorio altoatesino il coronavirus è praticamente scomparso ma si guarda ancora all'Rt, lanciando messaggi preoccupanti ai turisti che vogliono prenotare vacanze in Italia.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/passa-in-fascia-gialla-quasi-tutta-italia-ma-restiamo-ostaggi-delle-follie-dellrt-2652917787.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="dubbi-sul-tso-al-liceale-no-mask" data-post-id="2652917787" data-published-at="1620417900" data-use-pagination="False"> Dubbi sul Tso al liceale «no mask» Ai compagni di classe aveva appena distribuito un opuscolo che gli avrebbe fornito un uomo misterioso che lui chiama «il costituzionalista» e che ora a Fano bollano tutti come un «no mask». Poi si era incatenato al banco, perché nei giorni scorsi era stato allontanato dall'aula su decisione degli insegnanti. La sua colpa? Protestava contro l'uso della mascherina in classe. E, così, giovedì scorso, dopo due ore durante le quali i docenti avrebbero cercato di farlo desistere, dall'Istituto Olivetti di Fano, nelle Marche, è stato trasferito prima al pronto soccorso, con tanto di pattuglia della polizia, e poi, con un Tso, il trattamento sanitario obbligatorio, è finito in psichiatria. A 18 anni. Per una protesta. Anche i genitori, subito avvertiti e arrivati sul posto, non hanno potuto fare nulla per evitare il Tso. Marco Ugo Filisetti, direttore generale dell'Ufficio scolastico regionale delle Marche, minimizza: «Non è stata la scuola a decidere per il Tso, ma le autorità sanitarie che, evidentemente, lo hanno ritenuto necessario. Certo l'intervento meno è invasivo e meglio è». A chiamare i sanitari è stata la dirigente scolastica. La situazione, però, si sarebbe complicata non a scuola, ma con i sanitari. Per il Tso si sarebbe quindi optato dopo. «Non abbiamo ancora sentito la dirigente scolastica», precisa Filisetti, che esclude elementi tali da poter giustificare l'invio degli ispettori. Ieri mattina, però, davanti all'istituto scolastico, i compagni del diciottenne si sono riuniti per protestare. È stata la dirigente scolastica a spiegare che il «costituzionalista», che le autorità scolastiche conoscono, è una persona che starebbe plagiando il ragazzo. «Sarei scesa per dargli un pugno in faccia, perché lo ha plagiato e questa storia mi addolora profondamente, soprattutto come mamma», ha detto la preside al Resto del Carlino, aggiungendo che il diciottenne con il cellulare in viva voce parlava con questa persona che gli avrebbe anche suggerito che se la polizia lo avesse portato via con la forza sarebbe stata una aggravante per gli agenti. «Se mi dovessero chiamare dirò tutto», ha detto la preside. Ma dalla scuola non sono partite denunce. Il giovane ha una buona condotta e un buon rendimento scolastico, ma stando alle ricostruzioni della dirigente scolastica e dei prof sarebbe stato suggestionato da un cinquantenne, suo amico, che lo avrebbe convinto alle azioni di protesta contro la mascherina. Il ragazzo a telefono ha spiegato di stare bene e di aver saputo che rimarrà per una settimana in ospedale. Una dottoressa lo avrebbe privato di oggetti ritenuti pericolosi e gli sarebbero stati somministrati dei calmanti. E prima che gli venisse tolto anche il cellulare, ha detto: «I miei genitori non sono con me». «Si porti subito questo ragazzo in seno alla sua famiglia e si assista lui e i suoi cari con quella prossimità necessaria e di civiltà», ha commentato Vito Inserra dell'associazione Libera-mente. Il senatore della Lega Armando Siri, invece, ha fatto sapere che sta raccogliendo dettagli sulla vicenda: «Ha dell'incredibile», ha commentato, «andrò a fondo». Massimo Seri, il sindaco di Fano che ha firmato il ricovero, ha spiegato: «È un atto dovuto, perché il ricovero forzato deve essere proposto da un medico e controfirmato da un altro collega. La firma del sindaco è solo una formalità». Il ricovero, poi, dovrà essere validato anche da un giudice del tribunale. La polemica è tutta concentrata sul misterioso «costituzionalista». Ma è il ragazzo a pagarne le conseguenze.
iStock
Veniamo al profeta, Pellegrino Artusi, il Garibaldi della cucina tricolore. Scrivendo il libro La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891), l’uomo di Forlimpopoli trapiantato a Firenze creò un’identità gastronomica comune nel Paese da poco unificato, raccogliendo le ricette tradizionali delle varie Regioni - e subregioni - italiane valorizzando le tipicità e diffondendone la conoscenza. È così che suscitò uno slancio di orgoglio nazionale per le diverse cucine italiane che, nei secoli, si sono caratterizzate ognuna in maniera diversa, attraverso i vari coinvolgimenti storici, la civiltà contadina, la cucina di corte (anche papale), quella borghese, le benefiche infiltrazioni e contaminazioni di popoli e cucine d’oltralpe e d’oltremare, e, perché no, anche attraverso la fame e la povertà.
Orio Vergani, il custode, giornalista e scrittore milanese (1898-1960), è una figura di grande rilievo nella storia della cucina patria. Fu lui insieme ad altri innamorati a intuire negli anni Cinquanta del secolo scorso il rischio che correvano le buone tavole del Bel Paese minacciate dalla omologazione e dall’appiattimento dei gusti, insidiate da una cucina industriale e standardizzata. Fu lui a distinguere i pericoli nel turismo di massa e nell’alta marea della modernizzazione. Il timore e l’allarme sacrosanto di Vergani erano dettati dalla paura di perdere a tavola l’autenticità, la qualità e il legame col territorio della nostra tradizione gastronomica. Per combattere la minaccia, l’invitato speciale fondò nel 1953 l’Accademia italiana della cucina sottolineando già nel nome la diversità dell’arte culinaria nelle varie parti d’Italia.
L’Accademia, istituzione culturale della Repubblica italiana, continua al giorno d’oggi, con le sue delegazioni in sessanta Paesi del mondo e gli 8.000 soci, a portare avanti il buon nome della cucina italiana. Non è un caso se a sostenere il progetto all’Unesco siano stati tre attori, due dei quali legati al «profeta» romagnolo e al «custode» milanese: la Fondazione Casa Artusi di Forlimpopoli e l’Accademia italiana della cucina nata, appunto, dall’intuizione di Orio Vergani. Terzo attore è la rivista La cucina Italiana, fondata nel 1929. Paolo Petroni, presidente dell’Accademia, commenta: «Il riconoscimento dell’Unesco rappresenta una grandissima medaglia al valore, per noi. La festeggeremo il terzo giovedì di marzo in tutte le delegazioni del mondo e nelle sedi diplomatiche con una cena basata sulla convivialità e sulla socialità. Il menu? Libero. Ogni delegazione lo rapporterà al territorio e alla tradizione.
L’Unesco ha riconosciuto la cucina italiana patrimonio immateriale andando oltre alle ricette e al semplice nutrimento, considerandola un sistema culturale, rafforzando il ruolo dell’Italia come ambasciatrice di un modello culturale nel mondo in quanto la nostra cucina è una pratica sociale viva, che trasmette memoria, identità e legame con il territorio, valorizzando la convivialità, i rituali, la condivisione famigliare, come il pranzo della domenica, la stagionalità e i gesti quotidiani, oltre a promuovere inclusione e sostenibilità attraverso ricette antispreco tramandate da generazione in generazione. Il riconoscimento non celebra piatti specifici come è stato fatto con altri Paesi, ma l’intera arte culinaria e culturale che lega comunità, famiglie e territori attraverso il cibo. Riconosce l’intelligenza delle ricette tradizionali nate dalla povertà contadina, che insegnano a non sprecare nulla, un concetto di sostenibilità ancestrale. Incarna il legame tra la natura, le risorse locali e le tradizioni culturali, riflettendo la diversità dei paesaggi italiani».
Peccato che non tutti la pensino così, vedi l’attacco del critico e scrittore britannico di gastronomia Giles Coren sul Times. Dopo aver bene intinto la penna nell’iperbole, nella satira e nell’insulto, Coren è partito all’attacco alla baionetta contro, parole sue, il riconoscimento assegnato dall’Unesco, riconoscimento prevedibile, servile, ottuso e irritante. Dice l’opinionista prendendosela anche con i suoi connazionali snob: «Da quando scrivo di ristoranti, combatto contro la presunta supremazia del cibo italiano. Perché è un mito, un miraggio, una bugia alimentata da inglesi dell’alta borghesia che, all’inizio degli anni Novanta, trasferirono le loro residenze estive in Toscana».
Risponde Petroni: «Credo che l’articolo di Coren sia una burla, lo scherzo di uno che in fondo, e lo ha dimostrato in altri articoli, apprezza la cucina italiana. Per etichettare il tutto come burla, basta leggere la parte in cui elogia la cucina inglese candidandola al riconoscimento Unesco per il valore culturale del “toast bruciato appena prima che scatti l’allarme antincendio”, gli “spaghetti con il ketchup”, il “Barolo britannico”, i “noodles cinesi incollati alla tovaglia” e altre perle di questo genere. C’è da sottolineare, invece, che la risposta dell’Unesco è stata unanime: i 24 membri del comitato intergovernativo per la salvaguardia del Patrimonio culturale immateriale hanno votato all’unanimità in favore della cucina italiana. Non c’è stato nemmeno un astenuto. La prima richiesta fu bocciata. Nel 2023 l’abbiamo ripresentata. È la parola “immateriale” che ci bloccò. È difficile definire una cucina immateriale senza cadere nel materiale. Per esempio l’Unesco non ha dato il riconoscimento alla pizza in quanto pizza, ma all’arte napoletana della pizza. Il cammino è stato molto difficile ma, alla fine, siamo riusciti a unificare la pratica quotidiana, i gesti, le parole, i rituali di una cucina variegata e il risultato c’è stato. La cucina italiana è la prima premiata dall’Unesco in tutta la sua interezza».
Se Coren ha scherzato, Alberto Grandi, docente all’Università di Parma, autore del libro La cucina italiana non esiste, è andato giù pesante nell’articolo su The Guardian. Basta il titolo per capire quanto: «Il mito della cucina tradizionale italiana ha sedotto il mondo. La verità è ben diversa». «Grandi è arrivato a dire che la pizza l’hanno inventata gli americani e che il vero grana si trova nel Wisconsin. Che la cucina italiana non risalga al tempo dei Romani lo sanno tutti. Prima della scoperta dell’America, la cucina era un’altra cosa. Quella odierna nasce nell’Ottocento da forni e fornelli borghesi. Se si rimane alla civiltà contadina, si rimane alle zuppe o poco più. Le classi povere non avevano carne da mangiare». Petroni conclude levandosi un sassolino dalla scarpa: l’esultanza dei cuochi stellati, i «cappelloni», come li chiama, è comprensibile ma loro non c’entrano: «Sono contento che approvino il riconoscimento, ma sia chiaro che questo va alla cucina italiana famigliare, domestica».
A chi si deve il maggior merito del riconoscimento Unesco? «A Maddalena Fossati, la direttrice de La cucina italiana. È stata lei a rivolgersi all’Accademia e alla Fondazione Casa Artusi. Il documento l’abbiamo preparato con il prezioso aiuto di Massimo Montanari, accademico onorario, docente all’Università di Bologna, e presentato con il sostegno del sottosegretario alla Cultura, Gianmarco Mazzi».
Continua a leggereRiduci
Gianluigi Cimmino (Imagoeconomica)
Yamamay ha sempre scelto testimonial molto riconoscibili. Oggi il volto del brand è Rose Villain. Perché questa scelta?
«Negli ultimi tre anni ci siamo avvicinati a due canali di comunicazione molto forti e credibili per i giovani: la musica e lo sport. Oggi, dopo il crollo del mondo degli influencer tradizionali, è fondamentale scegliere un volto autentico, coerente e riconoscibile. Gran parte dei nostri investimenti recenti è andata proprio in questa direzione. Rose Villain rappresenta la musica, ma anche una bellezza femminile non scontata: ha un sorriso meraviglioso, un fisico prorompente che rispecchia le nostre consumatrici, donne che si riconoscono nel brand anche per la vestibilità, che riteniamo tra le migliori sul mercato. È una voce importante, un personaggio completo. Inoltre, il mondo musicale oggi vive molto di collaborazioni: lo stesso concetto che abbiamo voluto trasmettere nella campagna, usando il termine «featuring», tipico delle collaborazioni tra artisti. Non a caso, Rose Villain aveva già collaborato con artisti come Geolier, che è stato nostro testimonial l’anno scorso».
I volti famosi fanno vendere di più o il loro valore è soprattutto simbolico e di posizionamento del brand?
«Oggi direi soprattutto posizionamento e coerenza del messaggio. La vendita non dipende più solo dalla pubblicità: per vendere bisogna essere impeccabili sul prodotto, sul prezzo, sull’assortimento. Viviamo un momento di consumi non esaltanti, quindi è necessario lavorare su tutte le leve. Non è che una persona vede lo spot e corre subito in negozio. È un periodo “da elmetto” per il settore retail».
È una situazione comune a molti brand, in questo momento.
«Assolutamente sì. Noi non possiamo lamentarci: anche questo Natale è stato positivo. Però per portare le persone in negozio bisogna investire sempre di più. Il traffico non è più una costante: meno persone nei centri commerciali, meno in strada, meno negli outlet. Per intercettare quel traffico serve investire in offerte, comunicazione, social, utilizzando tutti gli strumenti che permettono soprattutto ai giovani di arrivare in negozio, magari grazie a una promozione mirata».
Guardando al passato, c’è stato un testimonial che ha segnato una svolta per Yamamay?
«Sicuramente Jennifer Lopez: è stato uno dei primi casi in cui una celebrità ha firmato una capsule collection. All’epoca era qualcosa di totalmente nuovo e ci ha dato una visibilità internazionale enorme. Per il mondo maschile, Cristiano Ronaldo ha rappresentato un altro grande salto di qualità. Detto questo, Yamamay è nata fin dall’inizio con una visione molto chiara».
Come è iniziata questa avventura imprenditoriale?
«Con l’incoscienza di un ragazzo di 28 anni che rescinde un importante contratto da manager perché vuole fare l’imprenditore. Ho coinvolto tutta la famiglia in questo sogno: creare un’azienda di intimo, un settore che ho sempre amato. Dico spesso che ero già un grande consumatore, soprattutto perché l’intimo è uno dei regali più fatti. Oggi posso dire di aver realizzato un sogno».
Oggi Yamamay è un marchio internazionale. Quanti negozi avete nel mondo?
«Circa 600 negozi in totale. Di questi, 430 sono in Italia e circa 170 all’estero».
Il vostro è un settore molto competitivo. Qual è oggi il vostro principale elemento di differenziazione?
«Il rapporto qualità-prezzo. Abbiamo scelto di non seguire la strada degli aumenti facili nel post Covid, quando il mercato lo permetteva. Abbiamo continuato invece a investire su prodotto, innovazione, collaborazioni e sostenibilità. Posso dire con orgoglio che Yamamay è uno dei marchi di intimo più sostenibili sul mercato. La sostenibilità per noi non è una moda né uno strumento di marketing: è un valore intrinseco. Anche perché abbiamo in casa una delle massime esperte del settore, mia sorella Barbara, e siamo molto attenti a non fare greenwashing».
Quali sono le direttrici di crescita future?
«Sicuramente l’internazionale, più come presenza reale che come notorietà, e il digitale: l’e-commerce è un canale dove possiamo crescere ancora molto. Inoltre stiamo investendo tantissimo nel menswear. È un mercato in forte evoluzione: l’uomo oggi compra da solo, non delega più alla compagna o alla mamma. È un cambiamento culturale profondo e la crescita sarà a doppia cifra nei prossimi anni. La società è cambiata, è più eterogenea, e noi dobbiamo seguirne le evoluzioni. Penso anche al mondo Lgbtq+, che è storicamente un grande consumatore di intimo e a cui guardiamo con grande attenzione».
Capodanno è un momento simbolico anche per l’intimo. Che consiglio d’acquisto dai ai vostri clienti per iniziare bene l’anno?
«Un consiglio semplicissimo: indossate intimo rosso a Capodanno. Mutande, boxer, slip… non importa. È una tradizione che non va persa, anzi va rafforzata. Il rosso porta amore, ricchezza e salute. E le tradizioni belle vanno rispettate».
Continua a leggereRiduci