
Italia fuori dai programmi dell'industria militare francotedesca finanziati da Bruxelles.L'Italia ha chiesto di partecipare al progetto francotedesco per la costruzione di un carro armato di nuova generazione e si è sentita rispondere picche: quando avremo definito i requisiti e la spartizione dei lavori tra industrie francesi e tedesche, allora forse vi contatteremo. Il caso specifico pone un problema sistemico. Nel bilancio Ue sono previsti almeno 13 miliardi per finanziare progetti industriali «europei» per la «Difesa europea» e molti di più per programmi civili che però sono riportabili al settore militare, tutti con anche soldi dell'Italia che è il terzo contributore al budget dell'Ue. Il progetto di carro francotedesco sarà classificato «europeo» e riceverà soldi dall'Ue, anche italiani, pur avendo escluso l'Italia? La risposta potrebbe essere che il budget europeo finanzia progetti collaborativi tra nazioni europee, non necessariamente tutte. Ma non sarebbe rassicurante. La pressione di Parigi per ottenere che il Commissario con delega alla Difesa europea sia francese fa sospettare che la Francia voglia finanziare con soldi degli altri europei progetti a dominio industriale francese, spartiti solo con i tedeschi. Se così, carro armato a parte - comunque meglio farlo con britannici, baltici e americani, anche per il potenziale di esportazione - va segnalato un pericolo maggiore per l'industria spaziale italiana. In parte è già dominata da quella francese, così come la Francia prevale nell'Agenzia spaziale europea, ma in parte maggiore è ancora autonoma e costituisce un pezzo qualificato della ricchezza tecnologica nazionale, sesta potenza spaziale nel mondo. Ci vuole un chiarimento. Francia e Germania potrebbero accusare l'Italia di aver scelto il Regno Unito per lo sviluppo di un caccia di sesta generazione, il Tempest, invece che il loro. In realtà l'Italia non è stata invitata. E non poteva esserlo perché inserita in una logica industriale incompatibile. Germania e Francia non adottano il caccia americano F35 di quinta generazione, mentre Londra sì oltre a condividere con Roma (e Berlino) l'Eurofighter mentre Parigi ha in linea il Raphale che è prodotto solo nazionale. Probabilmente lo F35, a cui Roma e Londra partecipano industrialmente, sarà portato a «generazione 5,5» sul piano della connettività che trasforma in battaglia tra reti informative la classica guerra aerea. L'anglo-italiano Tempest ne sarà probabilmente uno sviluppo predisposto alla piena interoperabilità con le future reti di osservazione e di dominio dell'aerospazio globale statunitensi. Avrà l'industria italiana il diritto di accesso al finanziamento europeo pur ingaggiata con un partner extra Ue? Se sì, allora la posizione italiana potrebbe essere accomodante: noi con i nostri soldi facciamo le nostre cose, voi francotedeschi fate le vostre, ma solo con i vostri denari. E sarebbe conveniente per l'Italia perché ci sono dubbi sulla capacità tecnologica francese e tedesca in alcuni settori che rendono razionale cercare partner britannici e statunitensi, dove, per altro, con i primi Roma condivide l'interesse ad avere forza negoziale nei confronti del Pentagono e dell'industria militare statunitense. Se no, se l'intento è quello di privilegiare l'industria francotedesca nonché di costringere la Difesa italiana a comprare i suoi oggetti militari senza partecipazione industriale italiana, allora il chiarimento dovrà essere dissuasivo: veto, motivato dal criterio che i soldi europei debbano finanziare programmi paneuropei e non selettivi per la difesa. Il chiarimento, poi, dovrebbe estendersi alla posizione geopolitica, in particolare, della Francia. L'Italia, citando Sergio Mattarella, ha una posizione di convergenza sia europea sia atlantica. Quindi se la Francia rompe la convergenza euroamericana, l'Italia certamente dovrà opporsi. Prima che si sfaldino le due principali alleanze che sono moltiplicatori di forza per l'Italia, Ue e Nato, è importante che Roma spinga per un chiarimento. Non chiedo iniziativa a questo governo che è troppo confuso, ma al Quirinale.
John Grisham (Ansa)
John Grisham, come sempre, tiene incollati alle pagine. Il protagonista del suo nuovo romanzo, un avvocato di provincia, ha tra le mani il caso più grosso della sua vita. Che, però, lo trascinerà sul banco degli imputati.
Fernando Napolitano, amministratore delegato di Irg
Alla conferenza internazionale, economisti e manager da tutto il mondo hanno discusso gli equilibri tra Europa e Stati Uniti. Lo studio rivela un deficit globale di forza settoriale, potere mediatico e leadership di pensiero, elementi chiave che costituiscono il dialogo tra imprese e decisori pubblici.
Stamani, presso l’università Bocconi di Milano, si è svolta la conferenza internazionale Influence, Relevance & Growth 2025, che ha riunito economisti, manager, analisti e rappresentanti istituzionali da tutto il mondo per discutere i nuovi equilibri tra Europa e Stati Uniti. Geopolitica, energia, mercati finanziari e sicurezza sono stati i temi al centro di un dibattito che riflette la crescente complessità degli scenari globali e la difficoltà delle imprese nel far sentire la propria voce nei processi decisionali pubblici.
Particolarmente attesa la presentazione del Global 200 Irg, la prima ricerca che misura in modo sistematico la capacità delle imprese di trasferire conoscenza tecnica e industriale ai legislatori e agli stakeholder, contribuendo così a politiche più efficaci e fondate su dati concreti. Lo studio, basato sull’analisi di oltre due milioni di documenti pubblici elaborati con algoritmi di Intelligenza artificiale tra gennaio e settembre 2025, ha restituito un quadro rilevante: solo il 2% delle aziende globali supera la soglia minima di «fitness di influenza», fissata a 20 punti su una scala da 0 a 30. La media mondiale si ferma a 13,6, segno di un deficit strutturale soprattutto in tre dimensioni chiave (forza settoriale, potere mediatico e leadership di pensiero) che determinano la capacità reale di incidere sul contesto regolatorio e anticipare i rischi geopolitici.
Dai lavori è emerso come la crisi di influenza non riguardi soltanto le singole imprese, ma l’intero ecosistema economico e politico. Un tema tanto più urgente in una fase segnata da tensioni commerciali, transizioni energetiche accelerate e carenze di competenze nel policy making.
Tra gli interventi più significativi, quello di Ken Hersh, presidente del George W. Bush Presidential Center, che ha analizzato i limiti strutturali delle energie rinnovabili e le prospettive della transizione energetica. Sir William Browder, fondatore di Hermitage Capital, ha messo in guardia sui nuovi rischi della guerra economica tra Occidente e Russia, mentre William E. Mayer, chairman emerito dell’Aspen Institute, ha illustrato le ricadute della geopolitica sui mercati finanziari. Dal fronte italiano, Alessandro Varaldo ha sottolineato che, dati alla mano, non ci sono bolle all’orizzonte e l’Europa ha tutti gli ingredienti a patto che si cominci un processo per convincere i risparmiatori a investire nelle economia reale. Davide Serra ha analizzato la realtà Usa e come Donald Trump abbia contribuito a risvegliarla dal suo torpore. Il dollaro è molto probabilmente ancora sopravvalutato. Thomas G.J. Tugendhat, già ministro britannico per la Sicurezza, ha offerto infine una prospettiva preziosa sul futuro della cooperazione tra Regno Unito e Unione Europea.
Un messaggio trasversale ha attraversato tutti gli interventi: l’influenza non si costruisce in un solo ambito, ma nasce dall’integrazione tra governance, innovazione, responsabilità sociale e capacità di comunicazione. Migliorare un singolo aspetto non basta. La ricerca mostra una correlazione forte tra innovazione e leadership di pensiero, così come tra responsabilità sociale e cittadinanza globale: competenze che, insieme, definiscono la solidità e la credibilità di un’impresa nel lungo periodo.
Per Stefano Caselli, rettore della Bocconi, la sfida formativa è proprio questa: «Creare leader capaci di tradurre la competenza tecnica in strumenti utili per chi governa».
«L’Irg non è un nuovo indice di reputazione, ma un sistema operativo che consente alle imprese di aumentare la protezione del valore dell’azionista e degli stakeholder», afferma Fernando Napolitano, ad di Irg. «Oggi le imprese operano in contesti dove i legislatori non hanno più la competenza tecnica necessaria a comprendere la complessità delle industrie e dei mercati. Serve un trasferimento strutturato di conoscenza per evitare policy inefficaci che distruggono valore».
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