2025-01-05
L’assist a Prodi costato caro al «Corriere»
Per Agnelli, che lo fece due volte direttore, Paolo Mieli è il più bravo a decrittare la politica italiana. Per i detrattori, il suo terzismo fa rima con opportunismo. L’endorsement a Mortadella del 2006 offuscò la patina da oracolo. Oltre a impallinare il secondo governo del Prof.2003. Muore Gianni Agnelli.I cortigiani corrono a narrare che delizia fosse la telefonata -prima del sorgere del sole - dell’Avvocato.Uno solo si sottrae a quel patetico esibizionismo: Paolo Mieli. Che era arrivato alla Stampa, il quotidiano di casa Fiat, nel 1986.Diventandone direttore nel 1990.Trasferendosi poi a Milano nel 1992 per guidare - sempre su imprimatur di Agnelli - il Corriere della Sera (che lascerà nel 1997, per ritornarvi dal 2004 al 2009). «Mieli lo inventai io, anche se già lo conoscevo come responsabile della nostra sede di Roma, è un tipo straordinario, unico, con grandissime qualità» rivendicherà Agnelli con il mensile Prima comunicazione che nel settembre 1999 lo mette in copertina per parlare de «La cucciolata», cioè i direttori del quotidiano torinese scelti «uno a uno dall’Avvocato negli ultimi 30 anni».Il tutto in risposta all’intervistatore, il direttore Umberto Brunetti, che gli chiede se su Mieli avesse sollecitato il parere del cognato Carlo Caracciolo, editore con Eugenio Scalfari dell’Espresso, dove Mieli era stato 18 anni, per passare poi a Repubblica per un anno, e approdare quindi a Torino. «Non in vista della sua nomina» risponde Agnelli. «Ha fatto bene» maramaldeggia Brunetti. «Perché Caracciolo non aveva una grande opinione di Mieli: è un palle mosce, spiegava». Ma torniamo al 2003.Intervistato dal solito Brunetti per il numero del mensile del febbraio 2003, Mieli più volte ripeterà: «Mi spiace deluderla, ma non ho mai ricevuto una telefonata dall’Avvocato di prima mattina», quell’Agnelli telefonatore ossessivo-compulsivo «è uno stereotipo». Ma come?, replica Brunetti: «Sua moglie Bambi Parodi Delfino, ex moglie di Luca Cordero di Montezemolo, mi ha detto che quelle chiamate all’alba erano un inferno!». «Avrà cercato Luca, a me non ha mai telefonato».Ecco, in questo episodio che rende merito al suo protagonista, c’è forse la quintessenza del «mielismo», categoria dello spirito giornalistico-storico-esistenziale. Che per i suoi critici sta a indicare l’impareggiabile bravura nello sparigliare e nello spiazzare, nel pensare una cosa, affermarne un’altra, farne una terza, e con la quarta smontare la sua stessa costruzione, omaggio al realismo magico di Jorge Luis Borges, maestro nello spacciare per vero il contraffatto, e per contraffatto il vero, reinventando la realtà. Mielig come Zelig nel film di Woody Allen: il camaleontismo per adattarsi al «contesto».Giovanni Valentini nel suo Il romanzo del giornalismo italiano, 2023, sul «mielismo» picchia duro. Partendo dal suo arrivo all’Espresso come direttore nel luglio 1984, rivela come la sua nomina fu mal digerita dalla redazione, «in particolare dalla fazione di tupamaros capeggiata da Mieli, ex sessantottino di Potere Operaio, che probabilmente si sentiva già l’erede designato. Fu proprio per lui, a causa del suo “mielismo”, che coniai il termine “cerchiobottismo”: un atteggiamento mentale che non significa equidistanza o neutralità, bensì doppiezza, ambiguità. La tendenza, appunto, a dare un colpo al cerchio e uno alla botte». Che però Mieli ha sempre chiamato «terzismo», attirandosi gli strali del suo ex mentore, poi suo concorrente, Scalfari: «Assai labile mi pare il confine tra terzismo, opportunismo e trasformismo». Attitudine che con i consueti modi spicci nel 2011 il sito Dagospia bollerà come paraculismo, eleggendo Mieli a «primo para-guru d’Italia» (infierendo poi nel dicembre 2023, su un suo presunto, ennesimo riposizionamento: «Colata di Mieli per la ducetta Giorgia Meloni«).Per Filippo Ceccarelli, invece, Mieli è come un alchimista abile nel realizzare un’»inconfondibile miscela di spirito alto e materia bassa», con un occhio al gossip - «Mieli ha messo la minigonna a una vecchia signora», secondo l’icastica immagine dello stesso Agnelli - ma senza trascurare lo «spargimento di polpettine di zizzania» tra intellettuali, artisti e politici.Un esempio? Il 19 agosto 2007 mette in pagina sul Corriere un’intervista di Aldo Cazzullo a Francesco De Gregori, che asfalta Walter Veltroni, in corsa alle primarie per diventare il primo segretario del Pd. Il giorno dopo, lunedì 20, il Corriere ospita un faccia a faccia tra Cazzullo e Antonello Venditti, per fare il controcanto a...De Gregori, che non so quanto avrà apprezzato il mielistico scherzetto.Perfino nella gestione quotidiana del giornale, Mieli ha mostrato una luciferina perizia. Amarcord di Michele Brambilla, oggi direttore del Secolo XIX.In una riunione di redazione, Mieli gli fa un cazziatone.«Avete pubblicato senza avvertirmi un articolo di Carlo Tognoli, che a Milano vuol dire Psi, cioè Tangentopoli, mandando dunque il segnale che noi sdoganiamo gli ex socialisti». A quattr'occhi: «Sai quanto ti stimo, so che la colpa è di Alessandro Sallusti, mandamelo che gliene dico quattro». Sallusti preoccupatissimo si precipita da Mieli: «Che c’è?». «Brambilla mi ha detto che...». «Ah, quello. Nessun problema: avete fatto benissimo a pubblicare Tognoli. Ma siccome in riunione c’era Raffaele Fiengo (leader storico del comitato di redazione, per molti «il soviet di via Solferino», nda) per prevenire una sua contestazione ho fatto finta di arrabbiarmi». Anche Cesare Romiti ci ha messo del suo.«Si andava verso le politiche, veniva quasi tutte le mattine a trovarmi dicendomi: dottore, mi raccomando, si ricordi che si deve votare destra, si deve votare Silvio Berlusconi. Io rimanevo perplesso, perché lo conoscevo come uomo di sinistra». A tre giorni dalle elezioni, il colpo di scena: «Le mie segretarie mi portano copia di un’intervista di Mieli a un giornale dell’Alto Adige, in cui sosteneva il voto a sinistra, specificatamente per Romano Prodi. Allora lo convoco nel mio ufficio e lo apostrofo: tutte le mattine per un anno mi ha detto di votare il Cavaliere, come la mettiamo? Lui mi guardò con aria candida: ma lei, dottor Romiti, lo ha sempre saputo che io sono di sinistra. Ecco, questo è Paolo Mieli».L’8 marzo 2006, l’endorsement pro centrosinistra lo dichiara con un editoriale in prima pagina. Il 5 maggio 2008 a Barbara Romano di Libero confessa: «Penso di aver fatto bene».Ma «con il senno di poi, non lo rifarei».«Quindi si è pentito?».«No. Alla lunga il mio sarà considerato un precedente positivo». Ma scusi, chiede una (immagino) sempre più spaesata collega, «se non è pentito, perché non lo rifarebbe?».Mieli rilancia alludendo a una sorta di analfabetismo funzionale almeno di una parte dei lettori del Corriere: «Se tutti loro fossero in grado di capirne il senso, lo rifarei. Ma se c’è anche una piccola minoranza che fraintende, non ne vale la pena. I direttori degli altri grandi giornali fanno continuamente l’endorsement, ma con la mano sotto il tavolo». (fotografia per me incomprensibile, come in tempi recenti mi è risultata stupefacente una sua caduta di stile, in cui sarei potuto magari inciampare io, ma non lui: quando sul caso dell’ex ministro Gennaro Sangiuliano ha etichettato su La7 la signora coinvolta come «pompeiana esperta"). Quella presa di posizione del 2006 in edicola fu una Balaklava: il Corriere perse 40.000 copie.«Ma quei lettori, col tempo, sono rientrati» chiosò Mieli. Sì, ma l’allora ad di Rcs, Vittorio Colao, quantificò in 12 milioni gli oneri aggiuntivi necessari per tamponare la perdita.Il che indispettì Cesare Geronzi, nel patto di sindacato Rcs come Capitalia (insieme ad altri 12 dei 17 azionisti, un botto).Nel libro-intervista Confiteor il banchiere ricorderà a Massimo Mucchetti di essere stato contrario all’endorsement, ma «quello che poi diventa incomprensibile è scavare la fossa al governo Prodi due mesi dopo le elezioni. Perché allora c’è un problema con quell’editoriale fatto prima, in quel modo e con quei tempi. Mieli, per quanto professionalmente dotato, si è rivelato ai miei occhi un’eclatante delusione». Per Agnelli, settembre 1999: «Mieli è un grande esperto di politica interna, sa decriptarla come nessuno».Capacità che nel tempo si è appannata. L’8 gennaio 2018, a due mesi dalle politiche, ospite su La7 con il segretario Pd Matteo Renzi, a precisa domanda su come sarebbe andata per i dem, vaticinò: «Il Pd è messo meglio di quanto lo danno i sondaggi, dovessi scommettere direi che i risultati saranno migliori». Dammi una percentuale, lo incalzò Lilli Gruber, e lui, insospettabilmente incauto: «Il 25% sarebbe un voto clamoroso». Lo fu così tanto che il Pd incappò nel peggior risultato di sempre nelle urne: il 18.8%.Giovedì 27 gennaio 2022 su La7 (aridanga) si sbilanciò sul voto per il Colle: «L’esito a mio avviso è scontato». In virtù di quale riflessione? «Guardo queste cose dall’alto, come se vivessi in un altro Paese, senza seguire nevroticamente il minuto per minuto, e mi sembra che è la cosa che ha più senso, e più passa il tempo e più me ne convinco». Sì, vabbe’, ma quale «cosa»? Per caso il nome del prossimo Capo dello Stato? Esatto. Che quindi sarà...«Mario Draghi». Due giorni dopo, sabato 27, viene rieletto Sergio Mattarella. What else?
«Haunted Hotel» (Netflix)
Dal creatore di Rick & Morty arriva su Netflix Haunted Hotel, disponibile dal 19 settembre. La serie racconta le vicende della famiglia Freeling tra legami familiari, fantasmi e mostri, unendo commedia e horror in un’animazione pensata per adulti.