2023-11-13
Paolo Agnelli: «Se torna il Patto di stabilità la nostra economia si spegne»
Il presidente di Confimi: «Inutile trattare per regole meno rigide, bisogna proprio uscire dalla gabbia. C’è un doppio standard: Bruxelles non sanziona gli aiuti di Stato tedeschi».Mentre a Bruxelles si stanno arrovellando sugli zero-virgola, sui tempi di rientro e le clausole che potrebbero rendere il Patto di stabilità, cioè le regole europee rispetto ai bilanci dei singoli Stati, più flessibile e quindi digeribile ai Paesi più indebitati, chi fa impresa qui rovescia il tavolo e spiega che in questa situazione i numerini contano poco o nulla. Che chi è impegnato tutti i giorni a fronteggiare il mercato e il peso della concorrenza segue disilluso le trattative Ue e chiede solo di essere lasciato libero di investire e di essere messo nelle condizioni di affrontare ad armi pari la sfida con le aziende, tedesche, polacche o cinesi. «L’Italia ha un problema di debito eccessivo? Certo. Gli interessi si mangiano centinaia di milioni di potenziali investimenti? Lo vediamo tutti. Ma i debiti si abbassano solo producendo di più, se però ci vietano di crescere e continuano a ingabbiarci in vincoli e nuove restrizioni, da questo circolo vizioso non ne usciremo mai. L’Italia così si spegne». Il ragionamento di Paolo Agnelli, imprenditore bergamasco di terza generazione che guida l’omonimo gruppo, leader nel settore dell’estrusione dell’alluminio, è di pura logica finanziaria e industriale. Agnelli è anche il presidente di Confimi, la confederazione dell’industria manifatturiera che rappresenta circa 45.000 imprese per 600.000 dipendenti, e ha uno sguardo privilegiato sul clima che si respira nelle fabbriche. Ordinativi che languono, rapporti con le banche complicati e difficoltà a competere oltreconfine con chi paga meno tasse, spende meno per l’energia e non è zavorrato da lacci e lacciuoli imposti da Bruxelles. Presidente, tra fine novembre e inizio dicembre ci saranno altri due vertici europei decisivi per l’approvazione del nuovo Patto di stabilità, se lei fosse nei panni del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti cose farebbe?«Abbandonerei il tavolo senza pensarci su due volte».Lei lo sa che se non si arriva a un compromesso entro fine anno torniamo al vecchio Patto pre Covid, ben più rigido di quello in discussione. «E lei pensa che alla fine ci sia qualche Paese che davvero voglia questo? Mi sa dire quanti governi con i conti in disordine hanno rispettato la famosa regola del rientro di un ventesimo del debito all’anno? Glielo dico io, nessuno. E il motivo è molto semplice, perché si tratta di una regola irrealistica». Da Bruxelles infatti stanno discutendo di un Patto più soft rispetto a quello precedente. Meno austerity, insomma.«Allora forse non è chiaro un concetto: vista la situazione attuale del Paese, non esiste un Patto più o meno rigido. L’unico modo per uscire dalla spirale di un debito che con l’aumento dei tassi si mangia grazie agli interessi tutti i sacrifici che possiamo fare, e liberare le energie del nostro sistema di piccole e medie imprese, è quello di non avere un Patto». La sua è una provocazione. «La chiami come vuole. Per me è più un ragionamento elementare di buon senso. Altre regole imbrigliano la crescita e senza crescita il debito pubblico sale».La soluzione sarebbe una deroga al Patto di un altro paio di anni. «La soluzione ideale sarebbe rinunciare al Patto di stabilità. Guardi per esempio la finanziaria».Cosa ne pensa?«Penso che sia inutile».In che senso?«Nel senso che non sposta assolutamente nulla. Va bene il taglio del cuneo, ma parliamo di qualcosa che c’era già lo scorso anno e che dà una mano ai lavoratori. Per le imprese c’è poco o nulla. Ma la mia non è una critica a questo governo, perché vista la situazione non è più una questione di colore politico o di persone più o meno capaci. Le leggi di bilancio sono “eurodirette” e gli spazi di manovra per chi sta a Palazzo Chigi o al Mef sono davvero minimi. Ho sentito grandi polemiche sull’aumento dell’Iva per l’acquisto dei pannolini e va bene, capisco la dinamica, ma non ci accorgiamo che le famiglie vanno in difficoltà per i mutui». Colpa della Lagarde. «E certo. Io guardo il quotidiano e vedo che le famiglie sono in crisi perché gli è raddoppiata la rata del mutuo non perché i pannolini costano qualche centesimo in più. E se la Banca centrale europea decide di alzare i tassi di quattro punti e mezzo nel giro di un anno cosa vuole che possano farci la Meloni, Schlein o Conte. Nulla».Eppure l’inflazione sta scendendo. «Non certo per i provvedimenti della Lagarde. O almeno io penso che solo in parte sia merito di una politica monetaria restrittiva, che invece di sicuro sta rallentando la crescita economica dell’eurozona. Penso che i prezzi siano schizzati per fattori esogeni e che man mano che questi fattori stanno rientrando si riduce anche il carovita. E poi capisco che i tassi a zero non potevano restare all’infinito, ma accorgersi all’improvviso di aver esagerato con la liquidità e portarli al 4,5% nel giro di un anno con tutte le conseguenze che abbiamo visto mi sa tanto di mossa della disperazione, che contiene anche un discreto grado di impreparazione. Certo in tutto questo le banche ci stanno guadagnando». Ritiene giusta la tassa sugli extraprofitti, sulla differenza tra tassi attivi e passivi praticati?«Certo, e sarebbe stata ancora più giusta se alla fine l’avessero imposta per davvero, invece sappiamo come si è conclusa la questione. Non la sta pagando nessuno». Quanto pesa nel rialzo dei tassi così repentino la fobia tedesca per l’inflazione?«Non lo so. So solo che la Germania era già in difficoltà per altri motivi e che Berlino in recessione per noi non è una bella notizia. Così come so che per i tedeschi valgono regole diverse rispetto al resto dell’Europa». Ci spieghi meglio. Anche la sua azienda sta subendo le conseguenze della crisi della produzione tedesca?«Guardi, noi produciamo 50.000 tonnellate di alluminio all’anno e di queste circa 6.000 sono dirette verso l’automotive. Tenga presente che nel mondo c’è una riscoperta dell’alluminio. Dai pannelli solari fino alla realizzazione di navi, componenti aerospaziali e soprattutto treni, perché il trasporto si sta spostando decisamente verso le rotaie, abbiamo aumentato la produzione. Sull’automotive registriamo un meno 30% ed è una costante di quasi tutte le piccole e medie imprese impegnate in quel settore e nella sua componentistica».Esportate meno verso la Germania?«Sì e oltre alla recessione tedesca pesa anche il guado in cui si trova la trasformazione verso l’elettrico. Siamo alle solite, l’Europa impone questa transizione con le regole, ma il mercato per mille motivi non è ancora pronto a recepirla o comunque non è pronto a recepirla in modo così veloce e quindi si blocca la produzione. E in tutto questo rientra anche l’altro grande tema, quello ambientale». Anche qui troppo green e troppo velocemente?«Io aggiungerei anche inutilmente».Perché?«Perché la maggior parte dell’inquinamento arriva dai Paesi asiatici che hanno tempi e regole all’acqua di rose rispetto a quelle che vogliamo imporre noi in Europa. La conseguenza è che stiamo creando un gap competitivo con le imprese cinesi o indiane difficilmente colmabile e che la grande questione ambientale resta lì sul tappeto senza soluzione». Bisognerebbe allargare il tavolo delle regole a livello planetario.«Ma se non ci mettiamo d’accordo tra di noi in Europa, come pretende che possiamo avere credibilità al di fuori? Prenda la Germania. Mentre per noi qualsiasi provvedimento rientra nell’alveo degli aiuti di Stato, Berlino continua a fare sconti sulle tasse legate al sistema energetico o a bloccare i prezzi aumentando la disparità nella competizione che già esiste. E da Bruxelles nessuno che batta un colpo». Faccio il bastian contrario. La Germania ha i conti in ordine. «Anche su questo ci sarebbe da eccepire. Ma lasciamo stare. I divieti legati agli aiuti di Stato dovrebbero prescindere dalle situazioni di bilancio ed essere invece legati a parametri oggettivi. E qui torniamo al punto di partenza. A lei sembra logico che mentre la mia priorità dovrebbe essere quella di liberare risorse per la crescita al fine di ridurre il debito, io debba perdere del tempo a discutere di nuovi lacci con i quali ingabbiare l’economia? Regole che poi valgono per qualcuno, ma non per altri. A me non sembra affatto normale».
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