2024-01-10
«Paghiamo oggi i disastri di Conte»
Il segretario Fim Roberto Benaglia: «Da mesi diciamo all’esecutivo di mettere da parte gli indiani, ma ha pesato il rischio cause per gli errori del passato. Taranto risanata fa gola a tanti».L’appuntamento è per domani alle 19 in largo Chigi (sala Monumentale). I sindacati incontreranno il governo per avere gli ennesimi chiarimenti sull’Ex Ilva. Non un vertice come gli altri perché dopo il passo indietro dei primi soci, gli indiani di ArcelorMittal, la situazione per il sito di Taranto è diventata drammatica. Bisogna fare in fretta e non sbagliare una mossa. Del resto le parti sociali, di questo bisogna dargliene atto, da tempo sottolineano che il socio asiatico era inaffidabile. Che era evidente la sua volontà di fare un passo indietro. Insomma, che bisognava disfarsene. Un refrain ripetuto anche dal numero uno della Fim, i metalmeccanici della Cisl, Roberto Benaglia. Perché il governo non ha rotto prima?«Guardi, l’impressione è che si temessero ripercussioni dal punto di vista legale. Preoccupazione comprensibile, se non fosse che l’industria non può restare sotto ricatto degli avvocati». I rischi di contenzioso da cosa derivano?«Da uno dei più grandi errori, tra i tanti commessi su Taranto, l’eliminazione dello scudo penale del governo Conte che ha poi portato a modificare i patti parasociali tra Invitalia e i Mittal a favore degli indiani. Quei patti noi non li abbiamo mai visti, ma negli incontri che abbiamo avuto con il governo ci è sembrato evidente che l’esecutivo volesse evitare cause». Anche se alla fine poi sempre in tribunale si andrà a finire. «Ecco appunto. Noi chiedevamo una scelta più decisa perché ci sembrava evidente il disimpegno del socio straniero». E nell’incontro di giovedì cosa chiederete?«La continuità aziendale e la difesa totale dell’occupazione. Chiederemo al governo di garantire, come ad onor del vero ha sempre fatto, la continuità aziendale e i 20.000 posti di lavoro, compreso l’indotto, che sono in ballo in una delle aree più disagiate del Paese». La continuità potrebbe non bastare.«Ne siamo consapevoli, ma è il presupposto. Poi servono iniezioni di liquidità. Per iniziare 320 milioni e quindi un piano industriale che avvii il processo di transizione green. Solo così Ilva diventa attrattiva per eventuali altri investitori che speriamo possano essere italiani». Ce ne sono?«In passato ce n’erano diversi e non vedo perché non debbano essercene altrettanti adesso, a patto che si esca da questa situazione. Anzi. La siderurgia è un settore in crescita e profittevole, certo servono grandi investimenti anche nelle nuove tecnologie per portare avanti il processo di decarbonizzazione. Ora non è il momento giusto per parlarne, ma sono sicuro che una volta avviato questo processo in molti saranno interessati a Taranto». Voi non tifate per la nazionalizzazione? «Mai preteso o pensato che lo Stato dovesse occuparsi a vita dell’acciaio, sono invece convinto che debba intervenire in una situazione di crisi come questa per rilanciare uno stabilimento così importante. Una volta avviato il processo si penserà all’ingresso dei privati». Una cordata nazionale?«Non facciamo il tifo per nessuno, ci battiamo come detto per avere delle garanzie sulla continuità aziendale. A Taranto deve ripartire la produzione, devono rimettersi in moto man mano i forni che sono stati fermati». Colpa anche dei manager. Che responsabilità hanno rispetto a quello che sta succedendo?«Hanno tante responsabilità e infatti sono manager che vanno cambiati. I dati di Acciaierie d’Italia sono disastrosi. Il 2023 è stato l’anno peggiore della storia di Ilva da tutti i punti di vista». La produzione è crollata. «Ma non solo la produzione che è scesa a 3 milioni di tonnellate d’acciaio contro i 6 del piano e gli 8 che garantirebbero marginalità. Tutti i dati sono pessimi». Per esempio?«La sicurezza sul lavoro, un aspetto che non è quasi mai preso in considerazione e che invece nell’industria pesante è fondamentale. I rapporti con i fornitori, con le aziende dell’indotto ecc».Diciamo che le condizioni di lavoro non erano ottimali. «Certo, ma le responsabilità di questo management sono evidenti. Un cambio porterà solo benefici».
Giorgia Meloni e Donald Trump (Ansa)