2025-01-31
Tra Lo Voi, Li Gotti e Mantovano, l’ombra dell’uomo che sciolse il bimbo nell’acido
La foto dell'arresto di Giovanni Brusca, il 21 maggio 1996 (Ansa)
L’avvocato che ha denunciato mezzo governo patrocinava Giovanni Brusca, gestito come «dichiarante» dall’allora procuratore di Palermo. Ma il legale pretendeva la parcella dovuta a chi difende i pentiti e il sottosegretario (all’epoca al ministero dell’Interno) gliela negò.Trovati nella stanza di Osama Almasri Habish Najeem tre passaporti, contanti, otto carte di credito e un Rolex.Lo speciale contiene due articoli.Una storia tiene insieme lo strano triangolo che fa da retroscena all’esposto che ha prodotto gli avvisi di garanzia governativi sulla gestione del caso del generale libico Almasri. E sembrava sepolta negli archivi della giustizia italiana. Un capitolo in chiaro-scuro legato ai meccanismi che regolavano il trattamento dei collaboratori di giustizia nella fase in cui erano ancora dei semplici dichiaranti. I protagonisti sono gli stessi di oggi, ma all’epoca i loro ruoli erano differenti: l’avvocato Luigi Li Gotti, un passato remoto da missino e uno prossimo da legalitario dipietrista, che per anni ha difeso i pentiti (molti pezzi grossi di Cosa nostra dell’epoca del pentitismo), ovvero l’uomo che ha presentato l’esposto contro gli esponenti del governo, il procuratore di Roma Francesco Lo Voi, già procuratore di Palermo (che poche ore dopo l’esposto ha iscritto sul registro degli indagati Giorgia Meloni, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, quello dell’Interno, Matteo Piantedosi, e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, per i reati di favoreggiamento e peculato). Con un’ombra: Giovanni Brusca, l’uomo che diede l’innesco al telecomando della strage di Capaci e che sciolse nell’acido (perché figlio di un pentito) il piccolo Giuseppe Di Matteo, era difeso poi proprio da Li Gotti.Tutto ruota attorno a una vicenda apparentemente burocratica: il pagamento delle spese legali pre-pentimento di Brusca. Nel 2005, Brusca e il suo avvocato Li Gotti presentano un ricorso al Tar del Lazio per ottenere il pagamento delle spese legali relative al periodo tra il 1996 e il 2000. Una fase in cui il boss di San Giuseppe Jato aveva cominciato a fare delle dichiarazioni ai magistrati, ma senza essere stato ancora formalmente inserito nel programma di protezione per i collaboratori di giustizia. La Commissione del Viminale, che si occupava delle misure di protezione per i pentiti, aveva infatti riconosciuto il diritto al rimborso solo per il periodo successivo all’inclusione di Brusca nel programma, escludendo quello iniziale. Una decisione contestata da Brusca e dal suo legale, che sostenevano come il diritto all’assistenza fosse maturato sin dall’inizio del percorso. La vicenda è ancora rintracciabile negli archivi dell’Ansa con questa notizia: «Brusca, lo Stato mi dia i soldi per pagare l’avvocato». «La cifra», spiegò all’epoca l’avvocato Li Gotti, «non è stata quantificata. Certo è che si tratta di oltre 1.200 udienze fatte nei Tribunali di mezza Italia». E aggiunse: «La Commissione del Viminale per il caso di Brusca non ha ritenuto di dover retrodatare il riconoscimento del programma di protezione all’inizio della sua collaborazione datata 1996». Qui entra in gioco un dettaglio cruciale: la Commissione che negò il rimborso era presieduta, all’epoca, proprio da Mantovano (in quanto sottosegretario all’Interno, nella composizione c’erano magistrati e un prefetto). L'ex procuratore Otello Lupacchini (noto per le inchieste sulla Banda della Magliana), che all’epoca era membro della Commissione, sentito dalla Verità ha cercato di scavare nei ricordi. La somma richiesta per le spese legali di Brusca era «ingente». Ma, soprattutto, emerge un elemento che sottolinea il cortocircuito istituzionale: «Se Brusca non era formalmente un collaboratore nel periodo contestato», sono le valutazione che all’epoca avrebbe fatto la commissione, stando ai ricordi di Lupacchini, «non poteva ricevere fondi pubblici per la sua difesa». E la richiesta fu rigettata. «Il provvedimento della Commissione del Viminale», si lagnò Li Gotti, «è illegittimo. Anche Brusca, come tutti gli altri collaboratori di giustizia, deve usufruire dei benefici previsti per l’assistenza legale fin dall’inizio della sua collaborazione». Ma siamo ancora nel 2005. Nel 2006, Li Gotti diventa sottosegretario alla Giustizia del governo Prodi (correva il mese di maggio), trovandosi dall’altra parte del tavolo rispetto alle vicende che lo avevano visto protagonista come difensore di pentiti. E sempre nel 2006, ma ad aprile, il giorno 18 (le elezioni politiche furono vinte dalla squadra di Prodi il 9 e 10 aprile di quell’anno) il Tar accoglie il ricorso, stabilendo che la normativa sui collaboratori di giustizia non prevede che l’assistenza legale sia subordinata alla formale ammissione al programma, ma alla reale disponibilità a collaborare. Bisogna quindi liquidare la parcella monstre al sottosegretario Li Gotti per le attività di udienza, accontentando Brusca. Lo Voi e Li Gotti si sono spesso trovati dalla stesa parte. Il primo, insieme a Giuseppe Pignatone, a rappresentare l’accusa nei processi contro Cosa nostra (e con le dichiarazioni di Brusca), il secondo ad assistere Brusca, ma anche Salvatore Contorno, Gaspare Mutolo, Gioacchino La Barbera (solo per citarne alcuni). Il caso Brusca, con le sue implicazioni legali e politiche, già tra il 2005 e il 2006 dimostrò come le dinamiche della collaborazione con la giustizia fossero un terreno scivoloso. Mentre l’ombra del boss di San Giuseppe Jato, per il precedente burocratico, si allunga oggi sul triangolo di nomi tornato di strettissima attualità. È difficile cancellare il passato, soprattutto quando s’intreccia con le istituzioni. E il precedente, con i suoi protagonisti ancora in prima linea, dimostra che certi nodi sono destinati a tornare al pettine.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ombra-brusca-tra-ligotti-mantovano-2671036603.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="dito-mozzato-e-cinque-legali-cambiati-i-particolari-dellarresto-del-libico" data-post-id="2671036603" data-published-at="1738281518" data-use-pagination="False"> Dito mozzato e cinque legali cambiati. I particolari dell’arresto del libico Hanno il sapore di un intrigo da manuale i documenti che raccontano le 15 ore dell’arresto del generale libico Osama Almasri Habish Najeem, in quel momento ricercato per crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Una spy story in piena regola. E tutto comincia nel cuore della notte con una comunicazione. L’orologio segna la mezzanotte del 19 gennaio. «Gli operatori della Digos», si legge nella documentazione giudiziaria, «venivano informati dal Cot (la centrale operativa per le telecomunicazioni, ndr) della Questura che alle 23.30 circa, il personale della Direzione centrale della polizia criminale, servizio di cooperazione internazionale, aveva segnalato la sussistenza di un mandato d’arresto internazionale a fini estradizioni […]». Dagli accertamenti risulta che il ricercato alloggia in un hotel di Torino. Ore 03:30 del 19 gennaio 2025: i corridoi dell’Holiday Inn di piazza Massaua sono deserti. Gli investigatori della Digos comunicano al direttore che dovranno fare irruzione nella stanza 424. Dentro, nel silenzio, c’è l’uomo ricercato, inseguito da mandato di cattura internazionale. Entrano con una chiave passe-partout. Sul comodino ci sono un iPhone 15 Pro Max ancora acceso e un altro iPhone con display rotto, spento e con la batteria scarica. Accanto al letto c’è un trolley. Gli investigatori sequestrano 105 sterline che erano all’interno della valigia e 5.455 euro contenuti nel portafogli. Oltre a un mazzo con tre chiavi. Alle 10 scatta l’arresto. Dopo ore di verifiche, la polizia ha la conferma ufficiale dell’identità. Il generale ha con sé tre passaporti: uno rilasciato a Tripoli, uno turco e uno della Repubblica Dominicana. A quel punto gli investigatori non hanno più dubbi: si tratta dell’uomo «destinatario del mandato d’arresto internazionale emesso in data 18 gennaio 2024 dalla Corte penale internazionale». «Dall’esecuzione del provvedimento», si legge nella relazione della Digos, «alle ore 10:00 odierne, è stato informato il pm di turno della Procura della Repubblica di Torino». Ovvero due ore dopo l’arresto. Il pubblico ministero di turno è Monica Supertino, toga che in passato aveva lanciato un canale Youtube per spiegare come mangiare in modo sano e avere benefici dal punto di vista della salute e del fisico: nei video si vedeva lei in cucina che mostrava come fare le crepes al prosciutto e altre ghiottonerie senza ingrassare. Nel frattempo gli agenti catalogano ogni oggetto in possesso del generale: i contanti, otto carte di credito (almeno quattro emesse in Turchia), un Rolex con ghiera nera e certificato di garanzia, un portafogli e un borsello Armani, un trolley con indumenti e scarpe. Sul letto, accanto a lui, c’erano anche un accendino e una penna. Delle chiavi, tre in totale, custodite nel portafogli. Ore 12:00. Nei locali della Digos si prende un’altra decisione. La Questura di Torino si trasforma nel centro di un’operazione che in quel momento sembra ancora di routine. Le autorità consolari libiche vengono avvisate via email con una comunicazione formale. Mentre alle 15:40 viene convocato un difensore d’ufficio. Il primo. Se ne avvicenderanno cinque in pochissime ore. Tra le 12 e le 15.40 si procede alle attività di «fotosegnalamento», prima di fronte, poi di profilo, e «dattiloscopiche». «Manca dito medio sinistro», annota l’agente della Scientifica che fa timbrare al generale con ogni dito il cartellino della Questura. Poi si passa alla descrizione dei connotati salienti: Altezza: «1 metro e 72», corporatura «grossa», forma del viso «ovolare», fronte «grande», sopracciglia «medie», occhi «orizzontale», naso «medio», orecchio «medio», bocca «medio». «Contrassegni propriamente detti: malformazione mano sinistra, completa amputazione prima falange dito medio». Najeem viene trasferito nel carcere di Torino. Mentre i tre connazionali che erano con lui, Ayoub Yousef Elmokhtar Sghiar, Murad Shiboub e Osama Mohamed Usta, vengono denunciati in stato di libertà per favoreggiamento. E si scopre che i quattro erano anche stati fermati per un controllo la mattina precedente, alle ore 11, in via Nizza, mentre viaggiavano su una Golf wagon. I quattro hanno riferito in lingua inglese che si sarebbero trattenuti a Torino per la partita Juve-Milan, «ma», hanno spiegato i poliziotti, «non erano emersi elementi per procedere». Sul sedile anteriore destro c’era il generale. «Da interrogazione della banca dati Sdi, solo Usta risultava essere positivo per una notizia di reato datata 2009 per ricettazione, mentre i restati occupanti risultavano negativi». L’ennesimo mistero della spy story.
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 10 settembre con Flaminia Camilletti