2021-08-17
Oltre al latino la Chiesa ha perso sé stessa
Rinunciando a parlare l'antica lingua durante la messa per avvicinarsi ai fedeli, ha ottenuto l'effetto inverso, finendo per andare a rimorchio del mondo laico. I preti fanno eco all'Onu, parlano di clima e migrazioni e dimenticano di annunciare le verità di fede.Da mezzo secolo le messe si dicono in lingua nazionale anziché in latino che fu l'idioma della Chiesa. La nostalgia del vecchio rito continua però a serpeggiare. Gli umori trovano eco su questo o altri giornali e si moltiplicano le richieste ad aprire di più alle messe in latino. Ma la Santa Sede insiste. Fu il Concilio Vaticano II, negli anni Sessanta del Novecento a optare per le messe in italiano, francese, ecc. e fu Paolo VI, piissimo lombardo, a celebrare per primo nella sua lingua. Sul punto, però, la Chiesa si divise. I preti passatisti continuarono col latino, gli altri si piegarono alla novità. Il Dio sia con voi prese i connotati dell'ortodossia, il Dominus vobiscum quelli dello scisma. La zizzania tra canonici, dura tuttora. Una decina di anni fa Benedetto XVI, con sguardo amorevole per la tradizione, legittimò nuovamente la messa latina. Papa Francesco, l'occhio fisso sulla contemporaneità, l'ha rimessa invece al bando schiacciando i rimpianti come la Vergine la testa del serpente. Il latino, sembra dire, non lo sa più nessuno e se a preoccupare è la sopravvivenza dei sette latinisti ancora in circolo, a sfamarli ci pensa lui diramando, quando gli viene, encicliche in latinorum sulla ionosfera. L'abolizione del latino è frutto di una metamorfosi della Chiesa romana. Come la muffa che affiora nasconde le fondamenta erose, la faccenda della lingua è un sintomo del voltafaccia del clero rispetto alla missione originaria. Fino a qualche decina di anni fa, chi riceveva l'educazione cattolica sapeva che la religione cristiana era l'unica vera, che il suo Dio era il solo autentico e che Egli per amor nostro si era incarnato in Cristo per morire sulla croce, spalancandoci così le ante del Paradiso. Per questi buoni motivi, avendo avuto il privilegio del messaggio ne diventavamo latori tra le genti, col santo obbligo di diffonderlo continente per continente, fino alla sparizione delle altre fedi. Che poi, fedi, si fa per dire. In realtà, credenze prive del fondamento di una Rivelazione che Dio aveva riservata solo a noi. L'apostolato, naturalmente, non era affidato al comune credente, sballottato nelle faccende quotidiane, ma alla Chiesa di Roma. La quale, sorta appunto per diffondere il Verbo e sopravvissuta a scismi ed eresie, questo ha fatto per secoli fino a un giorno imprecisato del secondo Novecento. A quel tempo, dunque, si fece largo nei sacri palazzi, nelle chiese e nei conventi un'inedita genia di tonache. Cappuccini in vesti brune, neri gesuiti, grigi francescani, domenicani bianchi e neri, agostiniani dall'ampia tracolla, calzarono improvvisamente il clergyman e comparvero, sempre più numerosi nelle tv, le tavole rotonde, nei dibattiti politici e sociologici. Tutti a dire la loro sull'attualità mondana, dal clima ai movimenti migratori, dal capitalismo alla cogestione. «Oooo, ma ci volete parlare dell'Aldilà, delle cose dello Spirito, del futuro in Cielo, della Provvidenza che ha il braccino sempre più corto?», diceva ogni tanto qualcuno nostalgico del rapporto pastore-gregge mentre il numero degli indifferenti, agnostici, non credenti, toccava la quasi totalità delle persone. Chi ancora andava in chiesa passava per baciapile e collotorto. E loro, i nuovi preti? Zitti, come non li riguardasse. Poi, piano piano, si capì che c'era stato il contrordine. Tacitamente, la Chiesa aveva abbandonato il compito di custode della Rivelazione e di strumento per annunciarla su incarico diretto di Lassù. Infatti, per la Neochiesa romana oggi il catalogo è questo: le fedi sono tutte uguali, non c'è più l'unico Dio ma un Dio unico per tutti, cristiani, circassi, ottentotti e spiritisti, mammelucchi, pagani e infedeli… importanti sono convivenza, fratellanza, solidarietà, rispetto di ogni credenza, cooperazione universale. A me, intendiamoci, sta benissimo. Ma io ho un rapporto distratto col divino. È invece la Chiesa che oggi gira in tondo. Mutilandosi, per spirito universalistico e amor di quiete, ha smarrito il ruolo di araldo della sua Verità ed è svanita con la rinuncia alla propria missione. Come se un filatelico che puntava tutto sul suo Gronchi rosa unico al mondo, scoprisse che ce ne sono in giro a bizzeffe. Quello smette di fare il filatelico e non crede più a nulla. Esattamente ciò che è in atto tra i cattolici, laici e preti, mentre il Vaticano è appeso al pero. Oggi, il Sacro Soglio è a rimorchio dell'universo laico. Il Papa, dal suo balconcino, fa eco all'Onu, all'Ue, agli Stati festeggiando il giorno della donna, del nonno, del clima, del vento e della pioggia. Un'entità confusa tra mille. I preti cattolici, quando ancora si consideravano l'anello tra i devoti e Dio, davano le spalle ai fedeli durante la messa restando soli di fronte all'altare. Era l'ipostasi del pastore che precede il gregge e giunto al cospetto di Dio nel tabernacolo, lo apostrofava in latino, la lingua esoterica della Chiesa romana. Come la Pizia greca ispirata da Apollo, era solo lui l'iniziato abilitato al colloquio rituale, non gratis, ma in virtù della sua promessa di propagarne il Verbo. Ora che con la Neochiesa si è spogliato del fardello, perché la parola del suo Dio non è più la sola vera ma vale quanto i motti di tutti gli altri culti, il prete dà le spalle al Signore e si gira verso il gregge confondendosi con esso, poiché nulla lo distingue. Non è più il prescelto ma uno di noi. Così, per tornare da dove siamo partiti, il presbitero ha anche abbandonato il latino. A cosa gli serve, infatti, l'uso di una lingua identitaria col Dio evangelico, gettato ormai nel mucchio del deismo universale? Papa Ratzinger se ne faccia una ragione: chi ha capito tutto è il gesuita venuto dalla fine del mondo. Quanto sopra, è un'interpretazione laica di una disfatta cattolica.