2023-09-19
Obiezione di coscienza sotto attacco con il nuovo codice deontologico
Il testo, aggiornato dalla più grande associazione mondiale di dottori, indica «l’obbligo etico di ridurre al minimo l’interruzione delle cure per non discriminare i pazienti». Ma così l’autonomia dei camici bianchi è a rischio.Vogliono inibire l’obiezione di coscienza dei medici. Ma, come spesso accade, l’intenzione non è dichiarata esplicitamente: la trappola è nascosta tra le pieghe di parole apparentemente innocue, anzi addirittura considerate positive. Basta servirsi di termini vaghi come «discriminazione» o «discriminare», non specificati da alcun complemento, che un domani potranno essere interpretati a piacimento dall’ideologia di turno. Il riferimento è al nuovo Codice internazionale di etica medica (Icome), recentemente aggiornato - dopo 16 anni dall’ultima revisione - dall’Associazione medica mondiale (Wma), l’organizzazione che racchiude al suo interno più di 100 associazioni nazionali di medici, con oltre 10 milioni di professionisti affiliati. Il primo Codice fu firmato a Londra nel 1949, appena dopo la seconda guerra mondiale. È stato successivamente modificato quattro volte: nel 1968 a Sidney, nel 1983 a Venezia, nel 2006 a Pilanesberg (in Sudafrica) e nel 2022 a Berlino. Si tratta di documenti che hanno un’enorme influenza sulle decisioni dell’Oms e sulle politiche sanitarie dei governi nazionali. Vale la pena dunque leggerli con attenzione, perché ci dicono molto sull’orizzonte a 15-20 anni della pratica medica. E nell’ultima revisione, quella votata l’anno scorso, è stato inserito tutto l’arsenale dell’ideologia progressista: dalle cure green alla discriminazione, fino ad arrivare ai doveri verso le nuove generazioni. Il tutto, ovviamente, condito con un «nuovo linguaggio gender inclusive».Il diavolo - si sa - è nei dettagli, ed è proprio mettendoli insieme che ci si accorge, oltre che delle contraddizioni, anche dei pericoli in vista. Ma andiamo con ordine. Dopo il preambolo, l’articolo uno del nuovo testo, nella sezione «Principi generali», recita: «Il primo dovere del medico è promuovere la salute e il benessere dei singoli pazienti, fornendo loro una cura competente, tempestiva e premurosa». Nella versione del 2006, invece, nella prima parte sui principi generali non figura nulla a riguardo, mentre nel primo articolo della sezione «Doveri dei medici verso i pazienti» si trova scritto che il medico ha «l’obbligo di rispettare la vita umana». Lo slittamento è già evidente, perché se quello di benessere e malessere è un concetto soggettivo, per cui non ci si può che rimettere al sentire individuale, la vita umana è invece un dato oggettivo che sta di fronte a entrambi gli attori della relazione, il medico e il paziente. Nel nuovo testo il rispetto della vita umana è menzionato solo al terzo comma (sempre del primo articolo), ma la sua collocazione all’interno della frase lo pone alla pari del rispetto della dignità, dell’autonomia e dei diritti del paziente. La vita dunque non è più, per i medici, un valore supremo, bensì uno tra i tanti. Lo conferma anche il primo articolo della sezione «Doveri verso il paziente», il numero 13, che recita: «Nell’offrire cure mediche, il medico deve rispettare la dignità, l’autonomia e i diritti del paziente. Il medico deve rispettare il diritto del paziente di accettare o rifiutare liberamente le cure, in linea con i valori e le preferenze del paziente». La questione delle preferenze del paziente torna spesso, al punto che viene da chiedersi come sia stato possibile quel silenzio assordante, da parte dei vari esperti di etica medica, ai tempi dell’obbligo vaccinale a colpi di green pass. Ma lasciando stare ora la polemica sul lasciapassare sanitario, resta ancora un passaggio fondamentale per comprendere come l’ideologia progressista si insinui surrettiziamente nel mondo attraverso dettagli linguistici. Nell’articolo 29, che tratta il tema dell’obiezione di coscienza, si legge che «il medico ha l’obbligo etico di ridurre al minimo l’interruzione della cura del paziente. L’obiezione di coscienza del medico nei confronti di un qualsiasi intervento medico previsto dalla legge può essere esercitata solo se il paziente non viene danneggiato o discriminato e se la salute del paziente non è messa in pericolo». Quel «discriminato» è talmente generico da lasciare aperte infinite interpretazioni, fino ad arrivare al punto in cui l’autonomia del paziente prevaricherà del tutto sull’autonomia del medico. Così come di fatto esprimere pubblicamente il proprio pensiero - per esempio - sull’omosessualità, pur non venendo meno al rispetto dovuto a ogni persona, è già percepito come discriminatorio nei confronti dei gay, con tutte le conseguenze del caso, allo stesso modo non è difficile immaginare che l’obiezione di coscienza di fronte a una richiesta di aborto o di suicidio assistito possa presto essere considerata come forma di discriminazione, o come offesa che violi i diritti individuali dei pazienti. Forse non era questa l’intenzione di chi ha scritto il nuovo codice, ma indubbiamente si tratta di un terreno scivoloso, perché da un simile principio si potrebbe anche dedurre di non intervenire di fronte a un soggetto depresso che tenta il suicidio.La violazione dell’autonomia morale del medico, infatti, si potrebbe declinare anche come inibizione all’azione. L’articolo 17 del nuovo Icome recita: «In situazioni di emergenza, laddove il paziente non è in grado di partecipare alla decisione e non è prontamente disponibile un rappresentante, il medico può avviare un intervento senza un consenso informato preventivo nell’interesse migliore del paziente e nel rispetto delle preferenze del paziente, se conosciute». Che cosa succederebbe se, per assurdo, un medico dovesse operare urgentemente un uomo che si identifica come donna e, nel farlo, fossero interessati gli organi che biologicamente denotano il suo essere maschio? Che fare se, al risveglio, il paziente avvertisse come «non rispettate» le sue preferenze? Se il faro dei medici non è più la vita, ma la salute e il benessere, diventa pensabile anche lasciar morire un paziente senza fare nulla.
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