2022-01-25
Obblighi e divieti sono stati imposti grazie a numeri opachi e atti di fede
Il ministro della Salute, Roberto Speranza (Ansa)
Le restrizioni devono essere valutate in base a dati chiari. Eppure, quelli forniti dagli «esperti», sventolati per giustificare ogni diktat, sono manipolabili. Il «Bmj» conferma: «Su vaccini e terapie servono cifre grezze».Già all’inizio degli anni Sessanta il patologo René Dubos aveva colto perfettamente alcune fondamentali caratteristiche del nostro rapporto con la scienza. «Di tutte le utopie mediche fiorite nel corso dei tempi», spiegava, «nessuna è stata tanto costante e si è sviluppata in forme tanto diverse quanto la convinzione che la malattia possa essere interamente eliminata dalla terra. Attualmente questa illusione è basata sulla fede acritica nel potere magico della scienza sperimentale». Per quanto potente, però, anche questa fede ha bisogno di essere rafforzata, ed è per questo che - con regolarità - la Cattedrale sanitaria fornisce ai credenti quelle che dovrebbero essere prove tangibili dell’efficacia delle sue azioni. Ogni settimana siamo investiti da un profluvio di dati i quali, manco a dirlo, confermano quanto i santoni del virus siano nel giusto, quanto siano sacrosante le politiche fin qui applicate e quanto si sbagli chi contesta la narrazione prevalente.I dati svolgono contemporaneamente due funzioni: da una parte dovrebbero dimostrare la validità delle decisioni governative; dall’altra ne dovrebbero costituire il fondamento. È una sorta di circolo vizioso quasi impossibile da spezzare: «Agiamo così», ci dicono i politici, «perché i numeri della pandemia ci inducono a farlo». E subito dopo aggiungono: «Gli stessi numeri certificano che abbiamo ragione». Noi profani - che di matematica e statistica capiamo giusto quel che ci serve per controllare il resto al bar - non possiamo fare altro che chinare il capo e credere. Vediamo un dato e siamo portati a pensare che nella sua gelida asetticità sia oggettivo, incontrovertibile, «vero».In realtà, siamo in presenza di un effetto ottico. I dati non rappresentano una realtà, ma un’astrazione. Sono manipolabili e sfruttabili politicamente. Se si punta il riflettore su un particolare, tutto il resto diviene opaco, ed è esattamente ciò che accade con i report e le grafiche diffuse dall’Istituto superiore di sanità. L’Iss mette in rilievo alcune cifre, e subito i media le riportano con enorme evidenza. In compenso tutte le altre, purtroppo, restano in ombra.Siti e giornali gridano all’unisono: «Il rischio di finire in terapia intensiva è 39 volte maggiore per i non vaccinati rispetto a chi ha la terza dose»; «il rischio di morte è 33.1 volte maggiore per i no vax». Se si va un attimo ad approfondire, si scopre che questi numeri sono frutto di operazioni statistiche nemmeno troppo semplici. E, soprattutto, si evince quanto siano generici. Le possibilità di finire in un letto d’ospedale, in una terapia intensiva o addirittura in obitorio, a ben vedere, sono estremamente diverse a seconda dell’età: molto alte per gli anziani non vaccinati, decisamente più basse per chi ha meno di quarant’anni. Ciò nonostante, il super green pass è obbligatorio per tutti a prescindere dall’anno di nascita: un ventenne non vaccinato (che può contagiare quanto un vaccinato e rischia poco di più) non può comunque mettere piede su un autobus o svolgere alcune attività che renderebbero la sua vita più degna d’esser vissuta.Il problema è che i decisori politici non tengono conto delle differenze: si basano soltanto sul dato «illuminato», e impongono obblighi e restrizioni a tappeto. L’insistenza sulla vaccinazione per i minorenni, ad esempio, è martellante. Eppure i numeri riguardanti bambini e ragazzi tra 5 e 18 anni o mancano del tutto o mostrano che i rischi derivanti dal contagio sono bassissimi, prossimi allo 0. Tali rischi, per avere una visione complessiva del fenomeno, andrebbero poi paragonati alla possibilità di reazioni avverse (ma anche qui i conteggi mancano o vengono occultati). Ne dobbiamo dedurre l’impossibilità di fatto di una valutazione costi/benefici realistica. Per l’ennesima volta, insomma, ci viene richiesto un atto di fede.Un’altra cifra a cui si fa continuamente riferimento per giustificare controlli e proibizioni è il numero di morti, che in effetti da queste parti è piuttosto elevato. Di nuovo siamo di fronte a un oggetto misterioso. Fior di studiosi, tra cui Guido Silvestri e Matteo Bassetti, insospettabili di simpatie «no vax», chiedono di specificare quante persone siano morte per Covid e quante con Covid. Una distinzione che numerosi giornalisti e osservatori hanno sollecitato nei mesi passati, ricevendo ogni volta in cambio accuse di eresia. Ottenere queste informazioni sarebbe fondamentale, perché consentirebbe di comprendere quanti danni stia effettivamente causando il virus, modificando di conseguenza regole e norme. Come abbiamo scoperto che circa un terzo dei ricoverati positivi si trova in ospedale per motivi diversi dal Covid, potremmo anche scoprire che molti deceduti ci hanno lasciato a causa di altre patologie. E se la massa di ricoverati e deceduti si ridimensiona, ci si può ragionevolmente domandare che senso abbia vivere ancora in regime di sorveglianza asfissiante.Una sgradevole opacità si riscontra persino nei dati riguardanti i vaccinati. A denunciarlo è il British Medical Journal (che non è «solo un giornale», come ha teorizzato qualche fenomeno). In un editoriale firmato da Peter Doshi, Fiona Godlee e Kamran Abbasi, l’autorevole rivista scientifica sostiene che «su vaccini e terapie per il Covid dobbiamo avere dati grezzi. Ora».Scrivono gli autori: «La sperimentazione cardine del vaccino Covid di Pfizer è stata finanziata dall’azienda e progettata, gestita, analizzata e realizzata da dipendenti Pfizer». La multinazionale farmaceutica ha fatto sapere che non fornirà ulteriori e specifiche informazioni fino a maggio del 2025. «La carenza di accesso ai dati è consistente», scrivono gli esperti del Bmj, e riguarda tutti i produttori. Secondo la rivista, «le aziende farmaceutiche stanno raccogliendo enormi profitti senza adeguati esami indipendenti delle loro affermazioni scientifiche», e per questo motivo è necessario che le case farmaceutiche siano più trasparenti: «I dati devono essere disponibili quando i risultati dei trial vengono annunciati, pubblicati o utilizzati per giustificare decisioni istituzionali».Di fede acritica ne abbiamo profusa fin troppa. Ed è giunto il momento che la medicina torni a essere ciò che è davvero: una scienza, non una religione.