2021-06-06
Le nozze con la Lega agitano le acque dentro Forza Italia
I tre ministri azzurri restano scettici, Antonio Tajani guida la fazione filo Carroccio. Matteo Salvini fissa un incontro a metà settimana.«È come quegli autobus di San Francisco, doppiamente ibridi, elettrici e a metano. Attaccati ai fili o indipendenti». Il parlamentare di Forza Italia esperto di mobilità digitale è perplesso: la fusione ibrida tra Lega e Forza Italia non gli scalda il cuore ma sa che potrebbe essere inevitabile. Silvio Berlusconi parla più verosimilmente di federazione senza sconti identitari: «A ciascuno la propria bandiera». Matteo Salvini vorrebbe arrivare a sintesi entro l'estate per incidere di più sulle mosse del governo Draghi. E intanto programma un incontro a metà della prossima settimana, dopo quelle che definisce «ottime premesse». Nei piani, una federazione con pari dignità per tutti i protagonisti.Insomma, il centrodestra è in movimento mentre Giorgia Meloni osserva la partita dalla tribuna dello stadio. Forse ha ragione Enrico Crosetto: «Salvini ha bisogno di Forza Italia perché vuole riportare la Lega verso una collocazione che originariamente aveva, più centrista. Una specie di ritorno alle origini».Lo scenario agita le anime delle truppe, soprattutto quelle azzurre ormai racchiuse nel fortino del 7%, anche se (come diceva Enrico Cuccia) «in certe partite i voti non si contano ma si pesano». La proposta condivisa di una federazione - guai dalle parti di Arcore chiamarla predellino due - va avanti come una strada nella boscaglia: rami secchi da tagliare, ponti da gettare, passi da muovere con cautela e soldati scettici da convincere ad affrontare l'ignoto. Rassicura tutti Giorgio Mulé, sottosegretario alla Difesa e portavoce del partito: «Non ho paura di contaminarmi, questa è una necessaria evoluzione del nostro percorso politico. Ora serve tempo per lasciar sedimentare l'idea nell'elettorato e nella nostra classe dirigente. Noi ci siamo sempre mostrati come orgogliosi portatori di idee, pragmatiche e rivoluzionarie: questa è la strada per distinguerci dai nostri alleati». Eppure si avverte stridore di freni. Eppure i primi slogan contrari affiorano, soprattutto al Sud dove gli equilibri sono più sottili e dove l'avanzata leghista non è impetuosa come i leader del Carroccio vorrebbero. Una frase della senatrice siciliana Gabriella Giammanco mostra il perimetro della critica: «Non è tempo di saldi di fine stagione. Forza Italia non può disperdere il suo tesoretto di voti e svendere la sua storia». Sono in tanti a fare argine e le nuove parole d'ordine sembrano titoli di Repubblica: «Non moriremo leghisti», «Non siamo ancora biodegradabili», «Questa è un'annessione mascherata». Il fronte del no è governativo, nel senso che sono quasi tutti ministri: Mara Carfagna, Maria Stella Gelmini, Renato Brunetta. Più un colonnello di peso come Maurizio Gasparri, il leader dei giovani Marco Bestetti, un forzista della prima ora come Sestino Giacomini. E il più influente di tutti, l'inossidabile Gianni Letta che ha già fatto sentire con più di una telefonata al grande capo la sua contrarietà. La paura più grande è perdere l'identità, veder annacquare valori fondativi come liberalismo (liberale con la e finale, niente a che vedere con il circo Medrano che i progressisti italiani scimmiottano dai dem americani), garantismo, europeismo, anche se un po' ingessato da ceto medio riflessivo. Oggi è un giorno strano, nel quale non è difficile raccogliere dichiarazioni ma nomi e cognomi. Come se uscire allo scoperto significasse davvero mettersi di traverso rispetto al fondatore, all'uomo che nella strategia rimane un maestro. Il Cavaliere. Ci ha provato Carfagna («Così altri 50 parlamentari rischiano di andare via») riferendosi a qualche uscita per aderire al progetto Coraggio Italia di Giovanni Toti e del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro. È stata subito zittita da una federatrice convinta, Annamaria Bernini: «È una minaccia mafiosa?». Ancora Carfagna: «No, io la mafia la conosco». Ancora Bernini: «Io per fortuna no». Allora la ministra per il Mezzogiorno e la coesione sociale passa dalla protesta alla proposta: «Credo che qualunque decisione sulla futuro di Forza Italia debba essere presa confrontandoci nel merito e sulla base di proposte definite. Oltre a federazione o fusione esiste una terza via: lavorare per riaffermare la centralità dei liberali nella coalizione. Molti dei nostri elettori non si sentirebbero a loro agio in un assetto a trazione leghista. In più una fusione con un partito sovranista, legato a forze euroscettiche, sarebbe giudicata male all'interno del Ppe. Al Sud, unificarci con il Carroccio significherebbero perdere consenso e regalarlo al partito di Giorgia Meloni».Così si avanza piano, anche i malumori non esplodono ma rimangono a mezza voce. E nel magma azzurro prende forma una parola impronunciabile, un tempo definita «menagramo» da Berlusconi: congresso. Dal 1994 ne sono stati organizzati due con gastriti diffuse. Meglio aspettare, far sedimentare. Antonio Tajani, numero due del partito che con Bernini, Mulé e Alessandro Cattaneo è favorevole alla federazione (non certo alla fusione), stempera gli attriti: «Non saremo mai succubi di nessuno perché siamo fieri della nostra storia. Ma dobbiamo rafforzare la collaborazione fra partiti di centrodestra che sostengono il governo. L'obiettivo è far valere le nostre linee comuni».Il progetto prevede nuovi capigruppo, Riccardo Molinari (Lega) alla Camera e Bernini (Forza Italia) al Senato. Il nuovo assetto dovrebbe partire dall'autunno per essere pronti alla sfida per la successione di Sergio Mattarella. Berlusconi spinge con il doppio scopo di ridare centralità numerica al partito e tentare la scalata impossibile (sapendo che per lui niente è impossibile) al Quirinale. Un segnale forte anche alla sinistra: Romano Prodi, Massimo D'Alema, Walter Veltroni o simili arnesi del progressismo di Palazzo non passeranno. Gli autobus di San Francisco - quelli doppiamente ibridi - non si incendiano mai, funzionano sempre.