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2018-12-05
Basta con l’import selvaggio di riso. Per una volta Bruxelles ci dà ragione
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Per una volta l'Europa ha ascoltato l'Italia e di fronte all'evidenza dei fatti si è arresa. Stop all'importazione selvaggia, e senza dazi, del riso dalla Cambogia, dalla Birmania e dal Vietnam. È scattata la clausola di salvaguardia che le organizzazioni dei risicoltori italiani, Coldiretti in testa, avevano chiesto a gran voce da almeno tre anni, che l'allora ministro dell'agricoltura Maurizio Martina aveva tiepidamente invocato anche per non dispiacere all'Alto rappresentante alla politica estera dell'Ue Federica Mogherini che con l'incondizionato supporto del Pd e dunque del gruppo socialista al'Europarlamento ha sempre usato i prodotti agricoli mediterranei – dall'olio ai pomodori passando per la frutta e appunto il riso – come merce di scambio nella diplomazia dell'assistenza con i Paesi emergenti o del Sud del mondo.
È proprio in questo quadro che rientrava l'accordo d'importazione di riso Indica (sarebbe quello che noi conosciamo come Basmati) dai Paesi del Sud-Est asiatico senza dazi. Questa importazione selvaggia ha provocato danni enormi alla risicoltura italiana che è di gran lunga la maggiore per quantità e qualità di tutta Europa, determinando un crollo dei prezzi anche del riso Japonica, quello da risotti per intenderci. che è quasi un'esclusiva italiana e una saturazione dei mercati. Il neoministro dell'agricoltura e del turismo Gian Marco Cetinaio, appena insediato, ha aperto subito il dossier riso mettendo mano a tre provvedimenti che hanno già determinato un cambio di passo del mercato interno e hanno avuto significative e positive ripercussioni su quello comunitario. I tre provvedimenti sono l'obbligo di etichettatura come riso classico per alcuni tipi di riso che devono essere corrispondenti al cento per cento alla qualità dichiarata in etichetta, l'obbligo di etichettatura biologico per i risi che davvero provengono dall'intero ciclo di produzione bio e infine la ripresa della richiesta di clausola di salvaguardia. E stavolta la richiesta è stata accettata.
L'Ue ha svolto un'indagine che è durata oltre un anno per verificare se effettivamente l'importazione senza dazio del riso birmano e cambogiano in particolare procurava danni ai risicoltori europei ed italiani in particolare e il 5 novembre scorso ha depositato le conclusioni di questa indagine che ha rilevato come effettivamente nel periodo «2012-2017 le importazioni di riso da Cambogia e Birmania sono esplose con incrementi nel periodo fino all'80% e un ingresso di circa 30.000 tonnellate all'anno senza dazio sul mercato comunitario». Inoltre questa indagine ha concluso che il riso birmano viene da un Paese che viola sistematicamente i diritti umani e quello cambogiano da un Paese dove i controlli sanitari sono insufficienti.
Dunque ha proposto ai 28 Paesi membri la revoca del regime di «preferenza commerciale europea» e proprio due giorni fa l'Ue ha fatto scattare la clausola di salvaguardia, come da richiesta dell'Italia, che era stata appoggiata anche da altri sette paesi - Francia, Spagna, Grecia, Portogallo, Ungheria, Romania e Bulgaria che sono anch'essi, sia pure con quantità minime produttori di riso - che prevede la reintroduzione dei dazi. Il ministro per l'agricoltura e il turismo Gian Marco Centinaio ha commentato a caldo: «È un risultato importante che riconosce al nostro Paese il danno economico causato dalle importazioni a dazio zero da Cambogia e Birmania e anche il grande lavoro che stiamo portando avanti a sostegno di un settore che per troppo tempo è stato penalizzato. Abbiamo perso oltre il 50% della superficie investita per la coltivazione. Non possiamo più permettercelo. Adesso basta».
Egualmente soddisfatto è il neopresidente di Coldiretti Ettore Prandini, che ha ricordato come sulla Birmania pesi anche l'accusa di aver praticato il genocidio contro la minoranza musulmana dei Rohinghya «e dunque non v'era nessuna giustificazione a questa situazione che ha determinato una gravissima crisi della risicoltura italiana». La Coldiretti due giorni fa per «festeggiare» questa vittoria diplomatico-commerciale ha anche organizzato a Roma una mostra per «raccontare la straordinaria ricchezza della biodiversità della nostra risicoltura». Che è un volano economico indispensabile per una parte importante del Paese.
Basta ricordare che l'Italia produce 1,5 milioni di tonnellate di riso, che il comparto vale oltre 1,5 miliardi di fatturato e che impiega oltre 4200 aziende agricole. Ma è un settore in profonda crisi perché i margini agricoli sono stati compressi proprio dalle importazioni massicce e selvagge. Per contrastarle i risicoltori italiani hanno espiantato il riso Japonica e impiantato quello Indica, cioè come quello che arriva dal sud est asiatico e che soprattutto nel nord Europa è il più consumato. Così siamo passati da una situazione di dieci anni fa con solo il 30% di superficie coltivata a Indica, alla situazione attuale con oltre il 60% di superficie coltivata con questo riso dal chicco allungato, ma il prezzo del risone è precipitato dai 450 euro al quintale sotto i 300 euro. Questo ha segnato l'abbandono di produzione.
Proprio per contrastare questa crisi, Centinaio ha varato l'obbligo di etichettatura del riso classico, che si accompagna a quella di «riso italiano». Si può etichettare come classico solo il riso che effettivamente appartiene a queste varietà: Carnaroli, Arborio, Baldo, Roma, Sant'Andrea, Vialone Nano e Ribe. Questo perché la legislazione precedente consentiva di utilizzare anche altre qualità di riso equivalenti. Il riso infatti è diviso in varie categorie a seconda delle dimensioni, la forma, la collosità dei chicchi e così ad esempio Carnaroli e Carnac sono nella stessa tipologia di riso e possono essere venduti miscelati, ma oggi l'etichettatura obbligatoria con la dicitura classico indica al consumatore che in quella confezione di Canaroli c'è colo ed effettivamente riso Canaroli.
Questa specificazione serve a incrementare il valore percepito dei risi e se poi il riso vuole dirsi bio bisogna che sia stato piantato e raccolto senza ausili chimici e che la coltivazione sia stata fatta in modo tradizionale. Tutto questo dovrebbe dare un nuovo slancio alla risicoltura e dovrebbe essere d'esempio anche per la cerealicoltura. Insieme al decreto sul riso classico è stato infatti confermato quello sulla pasta che deve avere il cento per cento di grano italiano se vuole dirsi tale. Questo ha portato alla riscoperta di antiche cultivar di grano duro (dalla Tumilia alla Saragolla, dall'Ariete al Simeto) ma anche allo sfatare il luogo comune secondo il quale i gran italiani, poiché meno proteici, sarebbero inadatti ala moderna pastificazione.
Non tutto il riso viene per scuocere
Il riso italiano è il migliore del mondo, ma alla sapienza dei nostri risicoltori non sempre corrisponde un'altrettanta giusta educazione al consumo. I risi sono diversi e la loro classificazione prende alcuni parametri: forma e dimensione del chicco, quantità di amido, collosità alla cottura. E per ottenere i migliori risultati in cucina ma anche per usare il riso giusto per il piatto giusto occorre imparare a conoscerlo. Ecco un breve vademecum per usare al meglio il riso. Intanto la prima differenza è tra riso japonica che è quello che noi in Italia usiamo per fare i risotti ed è il più consumato, e il riso “indica" che è quello che noi conosciamo come Basmati e che è il più usato ad esempio in tutte le preparazioni di cucina orientale (sushi a parte) ed è molto consumato nel Nord Europa. Tra i primati italiani ci sono ad esempio il riso Venere che è un brevetto italiano ottenuto dall'incrocio di un riso nero (indica) asiatico e un riso originario (japonica) a Vercelli e che adattissimo er insalate, per pilaf, per preparazioni particolari e che ha una forte componente di antociani e dunque è un riso che fa bene. Anche se per la verità tutto il riso fa bene: non contenendo glutine è il cibo preferito dai celiaci e la sua versatilità lo ha fatto diventare il nuovo alimento di moda anche se è consumato da migliaia di anni ed è il primo alimento per oltre metà della popolazione mondiale. Ma la trasformazione del riso – dalle farine alle gallette passando per i succedanei del pane – oggi alimenta un business e un'industria in piena espansione anche in Italia. Un altro vanto della risicoltura italiana sono i risi rossi, ma non quelli bianchi fermentati che pure sono ottimi che si trovano ormai in bellavista in tutti i supermercati e sono considerati quasi dei cibi probiotici (si usano per insalate, timballi, minestre) ma quelli orange che sono naturalmente colorati di rossoarancio per via del colore del loro pericarpo e sono una coltivazione quasi esclusiva italiana. Si tratta comunque di risi indica.
Un'altra parola magica che incontriamo nel riso è il cosiddetto parboiled, quello che non scuoce. Non è una varietà di riso, ma è invece un trattamento a cui il riso viene sottoposto. Semplicemente una sorta di pre-cottura. Il riso viene prima immerso in acqua a 50 gradi, poi sottoposto a getti di vapore, infine di nuovo essiccato. Questo fa si che gli amidi sula superfice del chicco si cristallizzino. In questo modo il riso non scuoce, i chicchi restano sgranati. Dal punto di vista nutrizionale non cambia nulla rispetto ad un riso naturale, cambia in cucina. Potete usarlo per piatti freddi, per timballi, per insalate, ma farci un risotto è u delitto perché non rilascia amido e dunque non si ottiene quella deliziosa cremosità del risotto.
Veniamo alla classificazione: comune, semifino, fino, superino. Questa classificazione non indica la qualità, ma le caratteristiche fisiche e di tenuta in cottura del riso. Ciò rede i vari tipi di riso più o meno adatti ad una certa preprazione. Vediamole.
Comune – È tondo con chicchi relativamente piccoli. Fanno parte di questo riso l'Originario, il Balilla l'Elio e il selenio. Sono ottimi da minestra o per preparazioni dolci come la torta di riso o le frittelle.
Semifino – Sono risi il cui chicco è leggermente più allungato e di medie dimensioni. Il re dei Semifini è il Vialone nano che ottimo da risoti anche se va benissimo in preparazioni dove la cremosità è data dal risotto all'onda piuttosto che dalla perdita di amido del riso o per risotti cl pesce. Vanno benissimo questi risi per far dei timballi e tra di essi ci sono le varietà Padano, Argo, Cripto, Lido.
Fino – Sono chicchi sia medi che lunghi, di buona cessione di amido. In questa categoria di risi troviamo tra i medi l'Europa, il Rva, il Loto, tra i lunghi il più conosciuto è il Ribe, ma ci sono anche il Sant'Andrea, l'Ariete il Cervo. Sono ottimi per preparazioni tipo pilaf o per essere serviti come succedanei del pane o della pasta da condire al momento. Sono straordinari risi da sushi.
Il Superfino – È la categoria dei grandi risi da risotto. Anche in questo caso la classificazione è divisa in due: il lungo di tipo A di cui il protagonista principale è l'Arborio il riso vercellese per eccellenza e che comprende anche il Roma, il Carnaroli il riso principe della Lomellina anche se ormai ha conquistato tutti, il Baldo e il lungo di tipo B che ha chicchi di calibro particolarmente generoso come il Thaibonnet, il Graldo, il Panda e il Pegaso. Se i tipo A sono il meglio per i risotti il tipo b sono il meglio per i supplì, per i timballi, per il sartù.
A conferma dell'eccellenza della produzione italiana vi è da dire che alcuni colossi industriali del riso come, Curti, Gallo, Scotti che è il principale operatore si stano oggi confrontando sul terreno della qualità sono stati tra i primi a raccoglierla sfida del classico. Ci sono poi degli artigiani del riso che hanno puntato altissimo nel segmento di massima valorizzazione del riso italiano. Ad esempio Riso Buono di Caslbeltrame è oggi l'azienda che ha maggiore credito tra i grandi chef europei ed è anche una delle poche che ha il ciclo chiuso in azienda: dalla piantina alla farina di riso; Acquarello, quella del riso in lattina è oggi una delle riserie che ha puntato tutto sull' innovazione basti dire che la sola a reintegrare il riso con il germe, ma anche aziende storiche come il Principato di Lucedio stanno oggi avendo importantissimi risultati sul piano della diffusione della cultura della qualità del riso. C'è infine da notare che oltre alle zone di coltivazione famose del riso come il Vercellese, l'Oltrepò, il mantovano e il veronese, oggi sono in fortissima ripresa le coltivazioni di riso nel parco del Delta del Po dove le Bonifiche Ferraresi stanno rilanciando la risicoltura con criteri modernissimi, in Maremma, in Sardegna dove si fa un ottimo Carnaroli e in Sicilia dove il riso fu il prodotto principe portato dagli arabi. E l'arancino è lì a testimoniarlo!
Si fa presto a dire spaghetti. La lotta del grano italiano
È la guerra della pasta. Che si combatte sue due fronti uno interno, l'altro mondiale. Di che si tratta? Di uno dei prodotti simbolo del made in Italy. L'Italia è al vertice mondiale e si può dire che un pacco ogni quattro di quelli consumati nel mondo è prodotto in Italia. Eppure non c'è da stare allegri perché alcuni competitor si stano facendo sotto: la Turchia in primis che in forza anche della svalutazione della lira turca si sta insinuando nei segmenti entry level del mercato mondiale. Per avere un'idea: l'Italia produce circa 3,4 milioni di tonnellate di pasta e ne vende all'estero circa 1,9 milioni di tonnellate (in Europa il 75% di pasta consumata è prodotta in Italia), la Turchia in cinque anni ha raddoppiato la propria produzione passando da 800 a 1,5 milioni di tonnellate e ne vende all'estero circa mezzo milione di tonnellate. Ma se lo scenario economico mondiale fa pensare che per la pasta non ci sarà crisi in termini di consumo (il business complessivo vale 14 miliardi di euro, il mercato a volume cresce del 2,3% l'anno), sono grossi guai per la tenuta agricola del comparto. In Italia la cerealicoltura ha perso in dieci anni quasi un milioni di ettari di coltivazione. Perché? È presto detto: il grano ha prezzi stracciati. La colpa sostengono le organizzazioni agricole è delle importazioni che arrivano dai paesi del Nord come il Canada e di grani afghani e dell'Asia centrale. Li comprano i grandi pastai e la scusa per comprarli è che i grani duri che vengono dall'estero hanno una carica proteica superiore e dunque sono migliori. Ma la verità - questa è la guerra sul fronte interno - è che i grani italiani costano di più (e sono più buoni). A far scattare la guerra è stato un provvedimento giusto assunto dall'allora ministro Maurizio Martina che ascoltando i cerealicoltori varò l'etichettatura pasta italiana al 100% indicando come in etichetta debba essere denunciata la provenienza del grano. Contro questo provvedimento si sono schierati i grandi pastai, ma le cose stanno cambiando. E il neoministro Gian Marco Centinaio sta favorendo patti di filiera e promozione di prodotto 100% italiano per rilanciare la cerealicoltura nazionale. Molte inchieste sono state condotte sul grano d'importazione e hanno dimostrato che spesso quel grano è contaminato da funghi (le micidiali aflatossine) o contaminato da glifosato uno dei più potenti erbicidi chimici, fortemente contestato. Negli Usa la Monsanto che produce il glifosato è stata condannata a pagare un risarcimento multimilionario a vantaggio di un giardiniere che si è ammalato di tumore dopo una prolungata esposizione al glifosato. E in Europa v'è stato un feroce scontro quando si è deciso - Italia contraria - di autorizzare ancora per cinque anni l'uso di questa sostanza. Dunque la forza dei fatti sta convincendo anche i grandi pastai a produrre almeno in parte pasta con grano italiano. Questo dovrebbe consentire il rilancio della cerealicoltura italiana. Anche perché abbiamo una consistente biodiversità di tricticum durum che può conferire alla pasta sfumature di gusto del tutto peculiari. Sulla scorta di queste tendenze alcune settimane fa è stato siglato un accordo (vale a regime quasi 60 miliardi) di filiera che coinvolge i pastai, i coltivatori, le associazioni agricole, i mulini e i distributori per l'affermazione totale della pasta cento per cento italiana.
Per adesso il consumatore riceve solo informazioni parziali, ma c'è da sapere che ogni regione italiana potrebbe avere la sua pasta fatta con un particolare grano duro. La differenza tra usare i grani d'importazione e i grani italiani è che quelli autoctoni pur essendo meno produttivi possono essere coltivati in biologico perché avendo spighe molto alte non consentono naturalmente la formazione e la crescita di erbe parassite nei campi. Molti di questi grani hanno maglie glutiniche meno forti e dunque hanno un minor impatto sulle intolleranze e in più i picchi glicemici dei grani italiani sono molto contenuti. Dunque sono più amici della salute. È stato sfatato anche il mito dei grani italiani meno proteici, usato dai maggiori pastai per spiegare come mai comprano grano d'importazione ben sapendo che l'Italia è comunque deficitaria in quanto a produzione di materia prima. La media dei nostri duri si colloca tra il 12% e il 14% di massa proteica in linea con i garni d'importazione. E anche la differenza di prezzo che oscilla tra i 40 centesimi e l'euro al chilo di pasta per il consumatore non è tale da scoraggiare la produzione di pasta 100% italiana.
È questo un caso in cui i pastifici artigiani hanno piegato l'industria a cambiare (almeno in parte) il proprio modo di produrre. Perché l'uso di grani d'importazione a forte maglia glutinica si giustifica soprattutto per chi vuole essiccare la pasta in tempi molto brevi, facendo di fatto vetrificare il glutine (per questo regge così tanto in cottura!). Ma chi ha lavorazioni a impasti lunghi ed essiccazioni lente ha un grande vantaggio nell'uso del grano duro italiano.
Vediamo qui una rassegna di alcune produzioni particolari.
Massimo Mancini nelle Marche ha messo in produzione una linea che si chiama di Turanici. I Turanici sono gli antenati dei grani duri. Sempre nelle Marche Carla Latini, in collaborazione con il pastificio abruzzese De Luca, sta riscoprendo alcune antiche cultivar autoctone come la Saragolla e un piccolo pastificio che si è salvato dal terremoto come la Pasta di Camerino ha messo in produzione una pasta di grano Hammurabi che è un antichissimo grano monococco la cui farina può essere solo ottenuta da macinazione a pietra. Lo stesso ha fatto Fabbri in Chianti, hanno fatto i Martelli di Lari ha fatto la Pasta Tosca che usano solo grani toscani. Ma come detto è significativo che anche grandi gruppi comincino a pastificare grani italiani. All'avanguardia c'è sicuramente il gruppo Bonifiche Ferraresi che con la pasta Le Stagioni d'Italia ha chiuso la filiera reimpiantando solo grani italiani e aumentando il reddito dell'impresa. La Barilla si è concentrata con Voiello sulla produzione da grano Aureo, la Granoro è stata la prima a fare pasta con grano solo italiano, la pasta Chigi è oggi la pasta emblema di questo settore, Felicetti produce con i monograni, Armando ha inaugurato una linea tutta italiana, Cavallieri ha grano pugliese, Setaro e altri di Gragnano come Liguori, Città della Pasta e Gentili si stanno lanciando sul 100% italiano. Ed è significativo che anche alcune private label ormai preferiscano i grani nostrani.
Le varietà? Tantissime. Dalla Timilia, al Russello, dalla Saragolla al Khorasan italiano, dal Pisano all'Aureo, dall'Ariete ai Turanici per avere paste che hanno sfumature dal cacao al salato, ma tutte fatte con i grani di casa nostra. Senza dimenticare il grano Senatore Cappelli, il monumento al genio di Nazzareno Strampelli, l'uomo del grano che ibridando oltre 400 varietà aveva un solo obbiettivo: produrre il meglio per sfamare i contadini. E ora sembra che con la pasta 100% italiana forse quel sogno possa diventare di nuovo realtà. E avremo tra un po' nuovi campi biondi di spighe. Perché lo spaghetto se non è italiano che spaghetto è?
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L'Italia, primo produttore del continente, ottiene di nuovo i dazi sui cereali coltivati in Birmania e Cambogia. L'Europa ha fatto scattare la clausola di salvaguardia chiesta a gran voce da Coldiretti e osteggiata dal Pd. Il riso italiano è il migliore del mondo, ma alla sapienza dei nostri risicoltori non sempre corrisponde un'altrettanta giusta educazione al consumo. Ecco un vademecum per ottenere i migliori risultati in cucina. La pasta rappresenta uno dei prodotti simbolo del made in Italy. Un pacco ogni quattro di quelli consumati nel mondo è prodotto nel nostro Paese. Eppure non c'è da star tranquilli perché alcuni competitor si stano facendo sotto. Lo speciale contiene tre articoli.Per una volta l'Europa ha ascoltato l'Italia e di fronte all'evidenza dei fatti si è arresa. Stop all'importazione selvaggia, e senza dazi, del riso dalla Cambogia, dalla Birmania e dal Vietnam. È scattata la clausola di salvaguardia che le organizzazioni dei risicoltori italiani, Coldiretti in testa, avevano chiesto a gran voce da almeno tre anni, che l'allora ministro dell'agricoltura Maurizio Martina aveva tiepidamente invocato anche per non dispiacere all'Alto rappresentante alla politica estera dell'Ue Federica Mogherini che con l'incondizionato supporto del Pd e dunque del gruppo socialista al'Europarlamento ha sempre usato i prodotti agricoli mediterranei – dall'olio ai pomodori passando per la frutta e appunto il riso – come merce di scambio nella diplomazia dell'assistenza con i Paesi emergenti o del Sud del mondo.È proprio in questo quadro che rientrava l'accordo d'importazione di riso Indica (sarebbe quello che noi conosciamo come Basmati) dai Paesi del Sud-Est asiatico senza dazi. Questa importazione selvaggia ha provocato danni enormi alla risicoltura italiana che è di gran lunga la maggiore per quantità e qualità di tutta Europa, determinando un crollo dei prezzi anche del riso Japonica, quello da risotti per intenderci. che è quasi un'esclusiva italiana e una saturazione dei mercati. Il neoministro dell'agricoltura e del turismo Gian Marco Cetinaio, appena insediato, ha aperto subito il dossier riso mettendo mano a tre provvedimenti che hanno già determinato un cambio di passo del mercato interno e hanno avuto significative e positive ripercussioni su quello comunitario. I tre provvedimenti sono l'obbligo di etichettatura come riso classico per alcuni tipi di riso che devono essere corrispondenti al cento per cento alla qualità dichiarata in etichetta, l'obbligo di etichettatura biologico per i risi che davvero provengono dall'intero ciclo di produzione bio e infine la ripresa della richiesta di clausola di salvaguardia. E stavolta la richiesta è stata accettata.L'Ue ha svolto un'indagine che è durata oltre un anno per verificare se effettivamente l'importazione senza dazio del riso birmano e cambogiano in particolare procurava danni ai risicoltori europei ed italiani in particolare e il 5 novembre scorso ha depositato le conclusioni di questa indagine che ha rilevato come effettivamente nel periodo «2012-2017 le importazioni di riso da Cambogia e Birmania sono esplose con incrementi nel periodo fino all'80% e un ingresso di circa 30.000 tonnellate all'anno senza dazio sul mercato comunitario». Inoltre questa indagine ha concluso che il riso birmano viene da un Paese che viola sistematicamente i diritti umani e quello cambogiano da un Paese dove i controlli sanitari sono insufficienti.Dunque ha proposto ai 28 Paesi membri la revoca del regime di «preferenza commerciale europea» e proprio due giorni fa l'Ue ha fatto scattare la clausola di salvaguardia, come da richiesta dell'Italia, che era stata appoggiata anche da altri sette paesi - Francia, Spagna, Grecia, Portogallo, Ungheria, Romania e Bulgaria che sono anch'essi, sia pure con quantità minime produttori di riso - che prevede la reintroduzione dei dazi. Il ministro per l'agricoltura e il turismo Gian Marco Centinaio ha commentato a caldo: «È un risultato importante che riconosce al nostro Paese il danno economico causato dalle importazioni a dazio zero da Cambogia e Birmania e anche il grande lavoro che stiamo portando avanti a sostegno di un settore che per troppo tempo è stato penalizzato. Abbiamo perso oltre il 50% della superficie investita per la coltivazione. Non possiamo più permettercelo. Adesso basta».Egualmente soddisfatto è il neopresidente di Coldiretti Ettore Prandini, che ha ricordato come sulla Birmania pesi anche l'accusa di aver praticato il genocidio contro la minoranza musulmana dei Rohinghya «e dunque non v'era nessuna giustificazione a questa situazione che ha determinato una gravissima crisi della risicoltura italiana». La Coldiretti due giorni fa per «festeggiare» questa vittoria diplomatico-commerciale ha anche organizzato a Roma una mostra per «raccontare la straordinaria ricchezza della biodiversità della nostra risicoltura». Che è un volano economico indispensabile per una parte importante del Paese.Basta ricordare che l'Italia produce 1,5 milioni di tonnellate di riso, che il comparto vale oltre 1,5 miliardi di fatturato e che impiega oltre 4200 aziende agricole. Ma è un settore in profonda crisi perché i margini agricoli sono stati compressi proprio dalle importazioni massicce e selvagge. Per contrastarle i risicoltori italiani hanno espiantato il riso Japonica e impiantato quello Indica, cioè come quello che arriva dal sud est asiatico e che soprattutto nel nord Europa è il più consumato. Così siamo passati da una situazione di dieci anni fa con solo il 30% di superficie coltivata a Indica, alla situazione attuale con oltre il 60% di superficie coltivata con questo riso dal chicco allungato, ma il prezzo del risone è precipitato dai 450 euro al quintale sotto i 300 euro. Questo ha segnato l'abbandono di produzione.Proprio per contrastare questa crisi, Centinaio ha varato l'obbligo di etichettatura del riso classico, che si accompagna a quella di «riso italiano». Si può etichettare come classico solo il riso che effettivamente appartiene a queste varietà: Carnaroli, Arborio, Baldo, Roma, Sant'Andrea, Vialone Nano e Ribe. Questo perché la legislazione precedente consentiva di utilizzare anche altre qualità di riso equivalenti. Il riso infatti è diviso in varie categorie a seconda delle dimensioni, la forma, la collosità dei chicchi e così ad esempio Carnaroli e Carnac sono nella stessa tipologia di riso e possono essere venduti miscelati, ma oggi l'etichettatura obbligatoria con la dicitura classico indica al consumatore che in quella confezione di Canaroli c'è colo ed effettivamente riso Canaroli.Questa specificazione serve a incrementare il valore percepito dei risi e se poi il riso vuole dirsi bio bisogna che sia stato piantato e raccolto senza ausili chimici e che la coltivazione sia stata fatta in modo tradizionale. Tutto questo dovrebbe dare un nuovo slancio alla risicoltura e dovrebbe essere d'esempio anche per la cerealicoltura. Insieme al decreto sul riso classico è stato infatti confermato quello sulla pasta che deve avere il cento per cento di grano italiano se vuole dirsi tale. Questo ha portato alla riscoperta di antiche cultivar di grano duro (dalla Tumilia alla Saragolla, dall'Ariete al Simeto) ma anche allo sfatare il luogo comune secondo il quale i gran italiani, poiché meno proteici, sarebbero inadatti ala moderna pastificazione.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/non-tutto-il-riso-viene-per-scuocere-2622379065.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="non-tutto-il-riso-viene-per-scuocere" data-post-id="2622379065" data-published-at="1766066393" data-use-pagination="False"> Non tutto il riso viene per scuocere Il riso italiano è il migliore del mondo, ma alla sapienza dei nostri risicoltori non sempre corrisponde un'altrettanta giusta educazione al consumo. I risi sono diversi e la loro classificazione prende alcuni parametri: forma e dimensione del chicco, quantità di amido, collosità alla cottura. E per ottenere i migliori risultati in cucina ma anche per usare il riso giusto per il piatto giusto occorre imparare a conoscerlo. Ecco un breve vademecum per usare al meglio il riso. Intanto la prima differenza è tra riso japonica che è quello che noi in Italia usiamo per fare i risotti ed è il più consumato, e il riso “indica" che è quello che noi conosciamo come Basmati e che è il più usato ad esempio in tutte le preparazioni di cucina orientale (sushi a parte) ed è molto consumato nel Nord Europa. Tra i primati italiani ci sono ad esempio il riso Venere che è un brevetto italiano ottenuto dall'incrocio di un riso nero (indica) asiatico e un riso originario (japonica) a Vercelli e che adattissimo er insalate, per pilaf, per preparazioni particolari e che ha una forte componente di antociani e dunque è un riso che fa bene. Anche se per la verità tutto il riso fa bene: non contenendo glutine è il cibo preferito dai celiaci e la sua versatilità lo ha fatto diventare il nuovo alimento di moda anche se è consumato da migliaia di anni ed è il primo alimento per oltre metà della popolazione mondiale. Ma la trasformazione del riso – dalle farine alle gallette passando per i succedanei del pane – oggi alimenta un business e un'industria in piena espansione anche in Italia. Un altro vanto della risicoltura italiana sono i risi rossi, ma non quelli bianchi fermentati che pure sono ottimi che si trovano ormai in bellavista in tutti i supermercati e sono considerati quasi dei cibi probiotici (si usano per insalate, timballi, minestre) ma quelli orange che sono naturalmente colorati di rossoarancio per via del colore del loro pericarpo e sono una coltivazione quasi esclusiva italiana. Si tratta comunque di risi indica. Un'altra parola magica che incontriamo nel riso è il cosiddetto parboiled, quello che non scuoce. Non è una varietà di riso, ma è invece un trattamento a cui il riso viene sottoposto. Semplicemente una sorta di pre-cottura. Il riso viene prima immerso in acqua a 50 gradi, poi sottoposto a getti di vapore, infine di nuovo essiccato. Questo fa si che gli amidi sula superfice del chicco si cristallizzino. In questo modo il riso non scuoce, i chicchi restano sgranati. Dal punto di vista nutrizionale non cambia nulla rispetto ad un riso naturale, cambia in cucina. Potete usarlo per piatti freddi, per timballi, per insalate, ma farci un risotto è u delitto perché non rilascia amido e dunque non si ottiene quella deliziosa cremosità del risotto. Veniamo alla classificazione: comune, semifino, fino, superino. Questa classificazione non indica la qualità, ma le caratteristiche fisiche e di tenuta in cottura del riso. Ciò rede i vari tipi di riso più o meno adatti ad una certa preprazione. Vediamole. Comune – È tondo con chicchi relativamente piccoli. Fanno parte di questo riso l'Originario, il Balilla l'Elio e il selenio. Sono ottimi da minestra o per preparazioni dolci come la torta di riso o le frittelle. Semifino – Sono risi il cui chicco è leggermente più allungato e di medie dimensioni. Il re dei Semifini è il Vialone nano che ottimo da risoti anche se va benissimo in preparazioni dove la cremosità è data dal risotto all'onda piuttosto che dalla perdita di amido del riso o per risotti cl pesce. Vanno benissimo questi risi per far dei timballi e tra di essi ci sono le varietà Padano, Argo, Cripto, Lido. Fino – Sono chicchi sia medi che lunghi, di buona cessione di amido. In questa categoria di risi troviamo tra i medi l'Europa, il Rva, il Loto, tra i lunghi il più conosciuto è il Ribe, ma ci sono anche il Sant'Andrea, l'Ariete il Cervo. Sono ottimi per preparazioni tipo pilaf o per essere serviti come succedanei del pane o della pasta da condire al momento. Sono straordinari risi da sushi. Il Superfino – È la categoria dei grandi risi da risotto. Anche in questo caso la classificazione è divisa in due: il lungo di tipo A di cui il protagonista principale è l'Arborio il riso vercellese per eccellenza e che comprende anche il Roma, il Carnaroli il riso principe della Lomellina anche se ormai ha conquistato tutti, il Baldo e il lungo di tipo B che ha chicchi di calibro particolarmente generoso come il Thaibonnet, il Graldo, il Panda e il Pegaso. Se i tipo A sono il meglio per i risotti il tipo b sono il meglio per i supplì, per i timballi, per il sartù. A conferma dell'eccellenza della produzione italiana vi è da dire che alcuni colossi industriali del riso come, Curti, Gallo, Scotti che è il principale operatore si stano oggi confrontando sul terreno della qualità sono stati tra i primi a raccoglierla sfida del classico. Ci sono poi degli artigiani del riso che hanno puntato altissimo nel segmento di massima valorizzazione del riso italiano. Ad esempio Riso Buono di Caslbeltrame è oggi l'azienda che ha maggiore credito tra i grandi chef europei ed è anche una delle poche che ha il ciclo chiuso in azienda: dalla piantina alla farina di riso; Acquarello, quella del riso in lattina è oggi una delle riserie che ha puntato tutto sull' innovazione basti dire che la sola a reintegrare il riso con il germe, ma anche aziende storiche come il Principato di Lucedio stanno oggi avendo importantissimi risultati sul piano della diffusione della cultura della qualità del riso. C'è infine da notare che oltre alle zone di coltivazione famose del riso come il Vercellese, l'Oltrepò, il mantovano e il veronese, oggi sono in fortissima ripresa le coltivazioni di riso nel parco del Delta del Po dove le Bonifiche Ferraresi stanno rilanciando la risicoltura con criteri modernissimi, in Maremma, in Sardegna dove si fa un ottimo Carnaroli e in Sicilia dove il riso fu il prodotto principe portato dagli arabi. E l'arancino è lì a testimoniarlo! <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/non-tutto-il-riso-viene-per-scuocere-2622379065.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="si-fa-presto-a-dire-spaghetti-la-lotta-del-grano-italiano" data-post-id="2622379065" data-published-at="1766066393" data-use-pagination="False"> Si fa presto a dire spaghetti. La lotta del grano italiano È la guerra della pasta. Che si combatte sue due fronti uno interno, l'altro mondiale. Di che si tratta? Di uno dei prodotti simbolo del made in Italy. L'Italia è al vertice mondiale e si può dire che un pacco ogni quattro di quelli consumati nel mondo è prodotto in Italia. Eppure non c'è da stare allegri perché alcuni competitor si stano facendo sotto: la Turchia in primis che in forza anche della svalutazione della lira turca si sta insinuando nei segmenti entry level del mercato mondiale. Per avere un'idea: l'Italia produce circa 3,4 milioni di tonnellate di pasta e ne vende all'estero circa 1,9 milioni di tonnellate (in Europa il 75% di pasta consumata è prodotta in Italia), la Turchia in cinque anni ha raddoppiato la propria produzione passando da 800 a 1,5 milioni di tonnellate e ne vende all'estero circa mezzo milione di tonnellate. Ma se lo scenario economico mondiale fa pensare che per la pasta non ci sarà crisi in termini di consumo (il business complessivo vale 14 miliardi di euro, il mercato a volume cresce del 2,3% l'anno), sono grossi guai per la tenuta agricola del comparto. In Italia la cerealicoltura ha perso in dieci anni quasi un milioni di ettari di coltivazione. Perché? È presto detto: il grano ha prezzi stracciati. La colpa sostengono le organizzazioni agricole è delle importazioni che arrivano dai paesi del Nord come il Canada e di grani afghani e dell'Asia centrale. Li comprano i grandi pastai e la scusa per comprarli è che i grani duri che vengono dall'estero hanno una carica proteica superiore e dunque sono migliori. Ma la verità - questa è la guerra sul fronte interno - è che i grani italiani costano di più (e sono più buoni). A far scattare la guerra è stato un provvedimento giusto assunto dall'allora ministro Maurizio Martina che ascoltando i cerealicoltori varò l'etichettatura pasta italiana al 100% indicando come in etichetta debba essere denunciata la provenienza del grano. Contro questo provvedimento si sono schierati i grandi pastai, ma le cose stanno cambiando. E il neoministro Gian Marco Centinaio sta favorendo patti di filiera e promozione di prodotto 100% italiano per rilanciare la cerealicoltura nazionale. Molte inchieste sono state condotte sul grano d'importazione e hanno dimostrato che spesso quel grano è contaminato da funghi (le micidiali aflatossine) o contaminato da glifosato uno dei più potenti erbicidi chimici, fortemente contestato. Negli Usa la Monsanto che produce il glifosato è stata condannata a pagare un risarcimento multimilionario a vantaggio di un giardiniere che si è ammalato di tumore dopo una prolungata esposizione al glifosato. E in Europa v'è stato un feroce scontro quando si è deciso - Italia contraria - di autorizzare ancora per cinque anni l'uso di questa sostanza. Dunque la forza dei fatti sta convincendo anche i grandi pastai a produrre almeno in parte pasta con grano italiano. Questo dovrebbe consentire il rilancio della cerealicoltura italiana. Anche perché abbiamo una consistente biodiversità di tricticum durum che può conferire alla pasta sfumature di gusto del tutto peculiari. Sulla scorta di queste tendenze alcune settimane fa è stato siglato un accordo (vale a regime quasi 60 miliardi) di filiera che coinvolge i pastai, i coltivatori, le associazioni agricole, i mulini e i distributori per l'affermazione totale della pasta cento per cento italiana. Per adesso il consumatore riceve solo informazioni parziali, ma c'è da sapere che ogni regione italiana potrebbe avere la sua pasta fatta con un particolare grano duro. La differenza tra usare i grani d'importazione e i grani italiani è che quelli autoctoni pur essendo meno produttivi possono essere coltivati in biologico perché avendo spighe molto alte non consentono naturalmente la formazione e la crescita di erbe parassite nei campi. Molti di questi grani hanno maglie glutiniche meno forti e dunque hanno un minor impatto sulle intolleranze e in più i picchi glicemici dei grani italiani sono molto contenuti. Dunque sono più amici della salute. È stato sfatato anche il mito dei grani italiani meno proteici, usato dai maggiori pastai per spiegare come mai comprano grano d'importazione ben sapendo che l'Italia è comunque deficitaria in quanto a produzione di materia prima. La media dei nostri duri si colloca tra il 12% e il 14% di massa proteica in linea con i garni d'importazione. E anche la differenza di prezzo che oscilla tra i 40 centesimi e l'euro al chilo di pasta per il consumatore non è tale da scoraggiare la produzione di pasta 100% italiana. È questo un caso in cui i pastifici artigiani hanno piegato l'industria a cambiare (almeno in parte) il proprio modo di produrre. Perché l'uso di grani d'importazione a forte maglia glutinica si giustifica soprattutto per chi vuole essiccare la pasta in tempi molto brevi, facendo di fatto vetrificare il glutine (per questo regge così tanto in cottura!). Ma chi ha lavorazioni a impasti lunghi ed essiccazioni lente ha un grande vantaggio nell'uso del grano duro italiano. Vediamo qui una rassegna di alcune produzioni particolari. Massimo Mancini nelle Marche ha messo in produzione una linea che si chiama di Turanici. I Turanici sono gli antenati dei grani duri. Sempre nelle Marche Carla Latini, in collaborazione con il pastificio abruzzese De Luca, sta riscoprendo alcune antiche cultivar autoctone come la Saragolla e un piccolo pastificio che si è salvato dal terremoto come la Pasta di Camerino ha messo in produzione una pasta di grano Hammurabi che è un antichissimo grano monococco la cui farina può essere solo ottenuta da macinazione a pietra. Lo stesso ha fatto Fabbri in Chianti, hanno fatto i Martelli di Lari ha fatto la Pasta Tosca che usano solo grani toscani. Ma come detto è significativo che anche grandi gruppi comincino a pastificare grani italiani. All'avanguardia c'è sicuramente il gruppo Bonifiche Ferraresi che con la pasta Le Stagioni d'Italia ha chiuso la filiera reimpiantando solo grani italiani e aumentando il reddito dell'impresa. La Barilla si è concentrata con Voiello sulla produzione da grano Aureo, la Granoro è stata la prima a fare pasta con grano solo italiano, la pasta Chigi è oggi la pasta emblema di questo settore, Felicetti produce con i monograni, Armando ha inaugurato una linea tutta italiana, Cavallieri ha grano pugliese, Setaro e altri di Gragnano come Liguori, Città della Pasta e Gentili si stanno lanciando sul 100% italiano. Ed è significativo che anche alcune private label ormai preferiscano i grani nostrani. Le varietà? Tantissime. Dalla Timilia, al Russello, dalla Saragolla al Khorasan italiano, dal Pisano all'Aureo, dall'Ariete ai Turanici per avere paste che hanno sfumature dal cacao al salato, ma tutte fatte con i grani di casa nostra. Senza dimenticare il grano Senatore Cappelli, il monumento al genio di Nazzareno Strampelli, l'uomo del grano che ibridando oltre 400 varietà aveva un solo obbiettivo: produrre il meglio per sfamare i contadini. E ora sembra che con la pasta 100% italiana forse quel sogno possa diventare di nuovo realtà. E avremo tra un po' nuovi campi biondi di spighe. Perché lo spaghetto se non è italiano che spaghetto è?
Addobbi natalizi a Senigallia (Marche) di notte (iStock)
ll profumo del frustingo e del vino cotto si mescola all’aria fredda, le luminarie illuminano i vicoli acciottolati già bui alle cinque del pomeriggio, gli addobbi e gli alberi di Natale decorano piazze e vetrine nei centri storici, mentre il rintocco delle campane e le musiche stile Jingle Bells fanno da colonna sonora a mercatini e presepi.
Dalle calme acque dell’Adriatico fino alle vette silenziose dell’Appennino, le Marche si trasformano nel periodo dell’Avvento. Diventano un teatro a cielo aperto sospeso tra memoria e meraviglia. In scena storie e tradizioni, colori e sapori di città e paesi che, vestiti a festa e allestiti a regola d’arte, sembrano volere raccontare la propria versione della magia natalizia, invitando a scoprirla, chiamando a viverla.
In una gara di soli vincenti, in uno spettacolo di soli protagonisti, piccole e grandi province marchigiane regalano tutte qualcosa di speciale. A partire da «Il Natale che non ti aspetti». Un evento diffuso che coinvolge fino al 6 gennaio una ventina di borghi tra Pesaro e Urbino. Da tranquilli centri diventano mondi incantati. Si animano e scendono in strada con mercatini artigianali, performance itineranti, giochi e giostre per far sognare adulti e bambini. Lo stesso succede con il «Grande Natale di Corinaldo», che accende di vita e di festa il piccolo borgo, tra i più belli d’Italia: spettacoli, mercatini, eventi, che toccano l’apice con la Festa conclusiva della Befana, il 6 gennaio. Altrettanto coinvolgente e forse ancor più suggestiva, «Candele a Candelara» (www.candelara.it; nell’immagine in alto a destra, scorci del borgo durante l’evento. Foto: Archivio fotografico Regione Marche - Associazione Turistica Pro Loco di Candelara APS).
Arrivata alla 22esima edizione, la festa delle fiammelle di cera va in scena nel borgo medievale vicino a Pesaro fino al 14 dicembre, con un calendario di eventi, visite guidate, attrazioni e divertimenti, oltre all’immancabile rito nel cuore del borgo. Qui ogni sera si spengono le luci artificiali per lasciare posto a migliaia di fiammelle tremolanti accese. Per qualche minuto tutto sembra sospeso: il tempo rallenta, il silenzio avvolge le vie, l’atmosfera si carica di poesia e la grande bellezza delle piccole cose semplici affiora e travolge.
Spostandosi ad Ancona con il naso all’insù, ecco che il periodo di Natale ha il passo della modernità che danza con la tradizione o, meglio, vola: una ruota panoramica alta trenta metri domina il centro, regalando una vista unica sul porto e sulla città illuminata. Da lassù si vedono i mercatini tra piazza Cavour e corso Garibaldi rimpicciolirsi e i fiumi di persone che girano per il centro diventare sinuose serpentine.
A Macerata e dintorni, invece, il Natale porta allegria, sulla scia della pista di pattinaggio su ghiaccio in piazza Cesare Battisti, dei villaggi di Babbo Natale che accolgono con renne ed elfi, e dei tanti mercatini che tentano il palato con dolci e salati, caldarroste e vin brulè, e attirano con prodotti perfetti da regalare a Natale. Mentre Fermo e Porto San Giorgio invitano a immergersi in compagnia in villaggi natalizi pieni di luci e mercatini, riscoprendo il valore dello stare insieme al di là dei display. Stessa cosa succede nella provincia di Ascoli Piceno, ma in una formula ancora più intensa, complice «Piceno Incantato», cartellone che raccoglie attorno a piazza Arringo concerti, gospel, villaggi natalizi, presepi artigianali e viventi. A proposito di presepi, da non perdere il Presepe di San Marco a Fano. Costruito nelle cantine settecentesche di Palazzo Fabbri, copre una superficie di ben 350 metri quadrati. Ed è composto da una cinquantina di diorami (scene), che riproducono episodi del Vecchio e Nuovo Testamento, con più di 500 statue a movimenti meccanizzati creati ad hoc da maestri artigiani. Una rarità, ma soprattutto un’opera d’arte. Info: www.letsmarche.it
La tradizione è servita in tavola
Non solo olive ascolane. Nelle Marche, terra fertile e generosa, sono tante, tantissime le ricette e le specialità che imbandiscono la tavola, dando forse il meglio d’inverno. Ingredienti di stagione, sapori intensi, piatti robusti e vini corposi sposano a regola d’arte le temperature che si fanno via via più fredde, stuzzicando il palato e riscaldando l’atmosfera. Al bando diete e via libera a calorie e piatti di sostanza. Ecco che le cucine tornano a profumare di tradizione e la convivialità marchigiana diventa, più che un invito al ristorante, un rito semplice, lento e gustoso, servito in indirizzi intimi, curati, con prezzi e porzioni che a Milano e Roma si sognano, e incorniciato da colline morbide e pendii che guardano il mare.
Nel menù ingredienti semplici, genuini, figli di una terra che non ha mai tradito il legame con la stagionalità. Il brodetto, con le sue note calde e avvolgenti, diventa un abbraccio capace di scaldare e colorare le giornate più grigie. Le paste tirate a mano tornano protagoniste, con i vincisgrassi che la fanno da padrone. Imponente e generosa, questa pasta all’uovo, cotta al forno, stratificata con ragù ricco di carni miste e una vellutata besciamella, è un inno calorico alle tradizioni contadine e all’amore profondo per la cucina casalinga.
I cappelletti in brodo di cappone, piccoli scrigni di pasta fatta a mano con ripieno, immersi in un brodo fumante, riportano all’infanzia, ai pranzi delle feste, a un’idea di famiglia che non si lascia scalfire dal tempo. Nei camini e forni accesi, l’arrosto di maiale diffonde un profumo che vola nell’aria, mentre le erbe spontanee, raccolte nei campi addormentati dall’inverno, insaporiscono minestre e ripieni con un carattere rustico e sincero.
I formaggi stagionati, dalle tome ai pecorini più strutturati, raccontano il lavoro meticoloso dei casari, custodi di saperi antichi. E poi ci sono i legumi, piccoli tesori che diventano zuppe dense e nutrienti: ceci, cicerchie, fagioli che profumano di terra buona e di gesti lenti. E poi c’è la gioia della gola per eccellenza: il fritto misto all’ascolana. Che nel piatto presenta pezzi di carne e verdure avvolti in una pastella leggera e dorata che scrocchia a ogni morso, raccontando un’arte culinaria che sa essere golosa e raffinata al tempo stesso. Da accompagnare, senza esitazione, con un calice di Rosso Piceno o di Rosso Conero, che con i loro profumi avvolgenti e il tannino morbido sposano perfettamente le note decise di questo piatto. In alternativa la Lacrima di Morro d’Alba, vino locale, raro e aromatico, regala un tocco di originalità.
Non manca poi il carrello dei dessert. Sfilano veri tesori dolciari. Sul podio, in ordine sparso, il miele, prodotto con cura da apicoltori del territorio, il mitico frustingo, dolce natalizio a base di frutta secca e spezie, e i cavallucci, biscotti speziati che raccontano storie antiche e profumano le feste (e non solo). Da abbinare rigorosamente a un’altra specialità marchigiana: il vino cotto. Ottenuto dalla lenta riduzione del mosto d’uva, nel calice è una liquida e dolce coccola.
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