2019-05-20
Paghiamo 25 milioni ogni anno
per non espellere i clandestini
Nel solo 2018, 60.000 migranti si sono opposti alle autorità che hanno negato loro lo status di rifugiati. E a oltre 21.000 tra questi è stato concesso il patrocinio gratuito: fino a 1.200 euro per causa, a carico dei contribuenti.Fino a 25 milioni di euro in un anno. Ecco quanto ci costano i ricorsi dei clandestini. Di quelli che non fuggono da nessuna guerra e che, dopo essere vissuti per qualche tempo sulle nostre spalle, grazie alle coop del business dell'accoglienza, non accettano di dover tornare a casa e di non poter diventare dei rifugiati a tutti gli effetti. Opporsi è semplice: basta fare ricorso, rivolgendosi ai giudici affinché ribaltino il pronunciamento. E se i soldi mancano, nessun problema: paghiamo noi. Quelli che ci provano sono tantissimi: nel solo 2018 più di 60.000 immigrati clandestini si sono opposti al diniego alla loro domanda d'asilo. Un diritto, certo. Ma più di un terzo di questi lo ha fatto a spese nostre: chiedendo e ottenendo il gratuito patrocinio, cioè di essere seguiti da un avvocato assegnato d'ufficio, che lavora gratis per il cliente e viene pagato dallo Stato. Quanto? Circa 1.200 euro a causa. E i conti sono presto fatti.L'autorità competente per decidere in merito alla domanda d'asilo è la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale. Le Commissioni attualmente sono 20 e, a queste, si aggiungono sezioni secondarie composte dai membri supplenti, necessarie a fare fronte all'eccezionale incremento delle domande degli ultimi anni. La domanda viene presentata dal richiedente asilo nel momento stesso del suo ingresso in Italia presso la polizia di frontiera o la questura. Se lo straniero è in possesso di passaporto dovrà consegnarlo alla polizia, ma il modulo può essere inoltrato anche da chi non possiede un documento. In questi casi, a fare fede per chi dovrà valutare le situazioni di pericolo effettivo da cui il sedicente profugo sta fuggendo, sarà l'autocertificazione anagrafica del clandestino, molto spesso non corretta. Con tutte le difficoltà e le lungaggini che questo comporta. Ma poco male: fino a quando la domanda non viene evasa il clandestino può rimanere in Italia, con un permesso di soggiorno temporaneo, che però grazie alle maglie larghe delle norme europee, vale come un permesso di lungo corso e quindi dà diritto al lavoro, ai sussidi e a tutte le forme di welfare riservate agli immigrati regolari.Dopo aver valutato la situazione del singolo richiedente, la Commissione territoriale può riconoscere una forma di protezione internazionale, asilo politico o protezione sussidiaria, oppure può non riconoscere alcuna forma di protezione o rigettare la domanda per manifesta infondatezza. Nel 2018 sono state esaminate circa 95.000 domande di protezione (erano 81.500 nel 2017) e si tratta del numero massimo mai toccato nel nostro Paese. Nello stesso anno i richiedenti protezione respinti sono stati oltre 60.000. Più di due domande su tre sono state respinte con percentuali negative in forte crescita da fine estate: nel mese di ottobre, per esempio, l'82% delle domande è stato rifiutato.Contro questi dinieghi il sedicente profugo può presentare ricorso. E si tratta di una possibilità sempre conveniente, anche se le probabilità di successo sono basse o nulle: attraverso il ricorso, infatti, l'immigrato può continuare a godere di tutti i diritti garantiti dall'aver presentato la domanda d'asilo. Ma come farà a pagarsi l'avvocato un sedicente profugo, sbarcato da qualche mese, ospite di una cooperativa e nullafacente da mattina a sera con vitto e alloggio pagati? Semplice. Indirizzato nella scelta dalla solita cooperativa che vede (o meglio vedeva, prima dei tagli imposti dal ministero dell'Interno) nel prolungamento della sua permanenza in struttura una possibilità di maggiori entrate, chiederà il gratuito patrocinio, che in Italia viene concesso a chi dimostra di avere un reddito inferiore agli 11.493,82 euro e ha necessità di essere seguito da un legale. E, così, infatti, è andata negli ultimi anni. Sempre nel 2018, per esempio, contro le risposte di diniego alla protezione internazionale sono stati presentati 60.620 ricorsi, dei quali 21.012 sono stati seguiti da avvocati assegnati d'ufficio, cioè pagati dallo Stato. A ogni avvocato che segue d'ufficio queste cause lo Stato, secondo i compensi individuati dal Consiglio nazionale forense, liquida fino a 1.200 euro. Così il totale dei costi nell'anno appena concluso ha superato i 25,2 milioni di euro in spese legali. I dati del 2017 non sono molto diversi: in quell'anno vennero presentati ai tribunali italiani 55.722 ricorsi e probabilmente, anche in quel caso, almeno uno su tre ottenne il gratuito patrocinio. Ma non è finita: in Italia infatti i gradi di giudizio sono tre e dunque se il ricorso viene respinto si può ritentare con la corte d'Appello o, perché no, anche con la Cassazione. Sempre a spese nostre, se necessario.Se da un lato i flussi di immigrazione clandestina sono notevolmente calati negli ultimi mesi, grazie alle politiche del ministero dell'Interno (dal primo gennaio 2019 al 17 maggio 2019 sono sbarcate 1.200 persone, cioè l'88,74% in meno rispetto allo stesso periodo del 2018), i giudici sembrano aver preso una direzione opposta. Qualche giorno fa il tribunale di Venezia ha accettato il ricorso di un giovane del Mali, che non fuggiva da persecuzioni né da guerre, ma… era ben integrato. I togati hanno escluso che il ricorrente possa considerarsi un «rifugiato», cioè che sia «oggetto di persecuzione per razza, religione o appartenenza a un determinato gruppo sociale», ma hanno stabilito che meritasse comunque la concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari «per il livello molto avanzato di integrazione sociale raggiunto in Italia».
Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)
Ecco #EdicolaVerità, la rassegna stampa podcast del 12 settembre con Carlo Cambi
iStock
Dopo l'apertura dei lavori affidata a Maurizio Belpietro, il clou del programma vedrà il direttore del quotidiano intervistare il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, chiamato a chiarire quali regole l’Italia intende adottare per affrontare i prossimi anni, tra il ruolo degli idrocarburi, il contributo del nucleare e la sostenibilità economica degli obiettivi ambientali. A seguire, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, offrirà la prospettiva di un territorio chiave per la competitività del Paese.
La transizione non è più un percorso scontato: l’impasse europea sull’obiettivo di riduzione del 90% delle emissioni al 2040, le divisioni tra i Paesi membri, i costi elevati per le imprese e i nuovi equilibri geopolitici stanno mettendo in discussione strategie che fino a poco tempo fa sembravano intoccabili. Domande cruciali come «quale energia useremo?», «chi sosterrà gli investimenti?» e «che ruolo avranno gas e nucleare?» saranno al centro del dibattito.
Dopo l’apertura istituzionale, spazio alle testimonianze di aziende e manager. Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, dialogherà con Belpietro sulle opportunità di sviluppo del settore energetico italiano. Seguiranno gli interventi di Maria Rosaria Guarniere (Terna), Maria Cristina Papetti (Enel) e Riccardo Toto (Renexia), che porteranno la loro esperienza su reti, rinnovabili e nuova «frontiera blu» dell’offshore.
Non mancheranno case history di realtà produttive che stanno affrontando la sfida sul campo: Nicola Perizzolo (Barilla), Leonardo Meoli (Generali) e Marzia Ravanelli (Bf spa) racconteranno come coniugare sostenibilità ambientale e competitività. Infine, Maurizio Dallocchio, presidente di Generalfinance e docente alla Bocconi, analizzerà il ruolo decisivo della finanza in un percorso che richiede investimenti globali stimati in oltre 1.700 miliardi di dollari l’anno.
Un confronto a più voci, dunque, per capire se la transizione energetica potrà davvero essere la leva per un futuro più sostenibile senza sacrificare crescita e lavoro.
Continua a leggereRiduci