2023-03-31
Non esiste «l’Europa». Esiste fare politica
Il commissario Ue all’Economia Paolo Gentiloni (Ansa)
Le critiche al governo per i tanti fronti aperti (dal Pnrr ai migranti, da case e auto green al Mes) hanno un pregio: aiutano a capire che non esistono le contrapposizioni astratte tra filo-Ue e populisti, ma una laica battaglia di interessi che va capita e combattuta.«Io sono un italiano che rappresenta l’interesse europeo», ha detto l’altro giorno il commissario Ue all’Economia Paolo Gentiloni, aggiungendo: «Non posso essere un italiano che rappresenta l’interesse italiano contro l’insieme dell’Unione europea, non solo perché abbiamo fatto un giuramento ma anche perché così funziona questo club e questa famiglia». L’ex premier parlava a proposito del suo rapporto, oggi di grande attualità, con Raffaele Fitto, ministro degli Affari europei e soprattutto principale regista del Pnrr sottoscritto da Giuseppe Conte e profondamente riadattato da Mario Draghi.Tra le righe, ma nemmeno troppo, Gentiloni ha affacciato una categoria essenziale, spesso soffocata dalla retorica che invade pagine e discorsi quando si parla di Unione europea: quella appunto di interesse. A ben vedere, l’ex presidente del Consiglio ha quasi detto che quello italiano e quello europeo possono essere contrapposti, il che in parte spiega la quantità di «fronti» aperti tra il nostro Paese e le istituzioni comunitarie: il Mes, il Pnrr stesso, la gestione dei fenomeni migratori, il pacchetto concorrenza, le direttive su auto e case green.Rispetto a non molto tempo fa, la categoria narrativa delle formazioni «populiste», decise a combattere l’ordine costituito sovranazionale, ha perso mordente e non viene quasi più utilizzata. Di più: la media ostilità di cui gode l’esecutivo sui diversi giornali sta producendo un paradossale effetto positivo, senza alcun merito particolare da parte del governo stesso. Pian piano, infatti, appare finalmente un quadro in cui - come ha spiegato Gentiloni - ci sono forze contrastanti che sfociano in un contrasto politico. Ad esempio, quando Repubblica o La Stampa malcelano la soddisfazione per gli scarsi risultati pratici incassati dalla Meloni nei vertici Ue, stanno implicitamente ammettendo che quell’orizzonte istituzionale, sempre indicato come l’unico possibile per risolvere problemi complessi, appare perlomeno disfunzionale.Ancora: l’inconcludente rimpallo tra gli ultimi due esecutivi sulle responsabilità dei ritardi sulla tabella di marcia del Pnrr fa emergere un’evidenza. Il problema non sono né Draghi né la Meloni, né Fitto: il problema è il Pnrr, un intricatissimo sistema di debito e di prestiti (il cui costo reale è peraltro ancora da chiarire) con una rete di vincoli già impossibili da rispettare tre anni fa, figuriamoci adesso dopo un anno di inflazione a doppia cifra o quasi, una crisi energetica in atto e una guerra ai confini dell’Ue. Ovviamente in Italia il Recovery «pesa» nel dibattito anche perché Giuseppe Conte ha scelto di legare il nostro Paese a questa forma di finanziamento a debito garantito dall’Ue in misura maggiore rispetto a tutti gli altri, in termini assoluti. Ma non è solo per questo che, negli altri Paesi, non si assiste a un furibondo scontro sulle scadenze. Lo strumento salvifico dell’Europa buona che si chinava sui Paesi piagati dalla pandemia semplicemente non è mai stato uno strumento salvifico, ma una complicazione immane e dirigista figlia del fatto che la Bce non era politicamente e statutariamente in grado di garantire le emissioni di debito di tutti: ora che c’è la Meloni, forse si può dire.Ancora un passo e si potrà anche dire che le direttive «green» su case e auto sono a dir poco discutibili e che - soprattutto - non sono buone per il fatto stesso di arrivare dall’«Europa». Sono progetti espressione di rapporti di forza e di interessi, che fanno danni a qualcuno e avvantaggiano altri, come è avvenuto con la costruzione della moneta unica e con i passaggi dell’integrazione europea, e come in fondo avviene più o meno per qualunque provvedimento di legge a qualunque livello.Forse, piano piano, sta crollando un’impalcatura narrativa allucinata e deviante in cui da una parte c’è «l’Europa» che dispone con neutra saggezza medicine anche amare perché vuole il nostro bene e dall’altra scomposti agitatori di popolo che per bassi fini sobillano i peggiori istinti e si oppongono alle giuste ricette. Due giorni fa, come ha segnalato con soddisfazione il presidente di Confedilizia Giorgio Spaziani Testa, i ministri tedeschi dell’Edilizia e della Giustizia (socialdemocratica la prima, liberale il secondo) hanno contemporaneamente avanzato forti dubbi sulla normativa comunitaria che di fatto imporrebbe ristrutturazioni forzose a milioni di proprietari di casa, pena la perdita di valore del loro immobile.Ultimo «disvelamento» banale ma necessario: le uscite dei commissari europei, dalla von der Leyen in giù, così come le iniziative politiche dell’Europarlamento (tra cui la grottesca rampogna all’Italia sui figli ottenuti con l’utero in affitto) vanno lette per quello che sono: mosse da fine legislatura. Perché «l’Europa» non esiste: esistono interessi, uomini, filiere, che cercano di mantenere e accrescere il loro potere, e la scadenza elettorale del 2024 può cambiare molte cose. Se l’anno che ci separa dal voto servisse a laicizzare il dibattito sul ruolo dell’Unione europea, ad aggiungere trasparenza ai suoi meccanismi politici e alla genesi dei suoi provvedimenti, avremmo guadagnato un bene di cui qualunque schieramento partitico beneficerebbe oggi e in futuro. Per tutto il resto, c’è lo scontro tra «l’Europa» e i populisti cattivi.