2024-02-05
«Non abbiamo più mascherine, le hanno regalate ai cinesi»
Il reparto di terapia intensiva per casi di Covid 19, nell'Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo (Ansa)
A quattro anni dal Covid, la viva voce dalle carte di Bergamo. Giorgio Gori messo in allarme dal fratello medico: «Mancano respiratori e posti letto, dobbiamo scegliere chi muore». Nei documenti anche le accuse del governo Conte alla Lombardia, «rea» di fare troppi tamponi.La storia del contrasto alla pandemia, quella che Roberto Speranza sostiene sia «da rivendicare», semmai è una storia da riscrivere. Non è una storia di successo. È la storia di un record di morti. È la storia dell’impreparazione, dell’imperizia, del dilettantismo, della superficialità e dell’opportunismo di chi allora - Pd e Movimento 5 stelle - governava l’Italia. E la trascinò nel baratro.Le carte di cui da alcuni giorni stiamo dando conto provengono da un'inchiesta su questioni migratorie in cui era coinvolto (indagato e poi abbastanza frettolosamente archiviato) Giorgio Gori, il sindaco di Bergamo. Nel corso di quella indagine emersero anche numerose evidenze riguardanti la gestione dell’emergenza Covid nei primi mesi del 2020 e sono proprio queste a mostrare chiaramente gli errori commessi. Da quei documenti emergono prepotenti i disastri realizzati da tecnici e politici che agivano nel pieno del caos, senza una guida e privi degli strumenti che, se fossero stati efficienti, avrebbero dovuto avere. Torniamo al 20 febbraio di quattro anni fa. È il giorno in cui viene scoperto il paziente 1 a Codogno, nel Lodigiano. Si tratta di Mattia Maestri, un ragazzo di 38 anni che poi finisce in terapia intensiva. Già è palese che qualcosa, nel meccanismo messo in piedi dal governo, non funziona: Annalisa Malara, l’infermiera che ha il guizzo di sottoporlo al tampone, avendo appreso che la moglie era stata a cena con un amico di rientro dalla Cina (poi risultato negativo al coronavirus), contravviene alle indicazioni del ministero, che prescrivono il test soltanto a chi è rientrato personalmente dal Paese asiatico o da altre aree considerate a rischio.Il giorno seguente, il sindaco di Bergamo, intercettato, si confronta al telefono con il fratello Andrea, infettivologo al Policlinico di Milano. E quest’ultimo gli rappresenta la tremenda realtà con cui hanno a che fare i sanitari: riferisce - lo annotano gli inquirenti - «che non ci sono mezzi di protezione sufficienti (mascherine eccetera) in quanto le produzioni venivano indirizzate in Cina per l’emergenza». Il dottor Gori, evidentemente molto bene informato, non sta esagerando.Basta andare a spulciare i verbali della task force istituita presso il ministero di Speranza, pubblicati a giugno 2021. Da quei documenti si evinceva che già a gennaio 2020 gli esperti e il governo erano consapevoli della scarsità di dispositivi per schermare dal virus. Non essendo stato aggiornato il piano pandemico, tra l’altro, mancavano conteggi precisi delle scorte.Il 12 febbraio 2020, Giuseppe Ruocco, dirigente del dicastero, comunica che sul fronte dei Dpi «non giungono buone notizie» e, anzi, «la disponibilità è limitata». Eppure, tre giorni dopo, alla base di pronto intervento Onu di Brindisi, su un volo umanitario «organizzato dalla Farnesina», che in quel momento fa capo a Luigi Di Maio, vengono caricate 18 tonnellate di materiale sanitario: 16 hanno il bollino dell’ambasciata del Dragone, ma le altre due sono «finanziate direttamente dalla Cooperazione italiana». Direzione dell’aeroplano? La Cina.È esattamente il quadro dipinto dal fratello del sindaco orobico: noi non abbiamo materiali sanitari, fatichiamo a reperirli, ma intanto li mandiamo a Pechino. Nell’ambito delle «iniziative di solidarietà nei confronti del popolo cinese», di cui parla Speranza l’11 febbraio alla task force, precisando di essersi accordato con «Palazzo Chigi». Ossia, con Giuseppe Conte.Il dramma della «lotta a mani nude», come l’hanno chiamata in tanti, emerge anche il 26 febbraio. Andrea Gori racconta al fratello della «mancanza di dispositivi di protezione da parte dei medici del Policlinico di Milano che causa il diffondersi del contagio tra i sanitari». Poi, si scopre che gli ospedali stanno collassando. Il 28, l’infettivologo dice «di avere appreso dal primario di malattie infettive al Papa Giovanni XXIII (struttura di Bergamo, ndr)», il dottor Marco Rizzi, «della difficoltà nel reperire posti letto per i malati che stanno accedendo in numero elevato in ospedale». Poco dopo, il sindaco contatta il medico, assicura il suo aiuto e poi discute con Massimo Giupponi, direttore dell’Ats, della possibilità che cliniche private forniscano «posti letto alle strutture pubbliche per i pazienti colpiti dal Covid». Una disponibilità che effettivamente sarà garantita: lo conferma, il 29, il direttore sanitario del Papa Giovanni XXIII, Fabio Pezzoli.Nelle primissime fasi, però, Giorgio Gori e i suoi interlocutori si mettono pure a discutere delle presunte mancanze dei medici. Ad esempio, il 4 marzo, Claudio Cancelli, sindaco di Nembro, «esterna disappunto per come l’ospedale di Alzano Lombardo abbia gestito i pazienti affetti da polmonite», facilitando «la diffusione del contagio». Il 12, Gori riprende il discorso con Giuseppe Remuzzi, il direttore del Mario Negri. E lo informa «di avergli inoltrato un documento in cui è contenuta la ricostruzione di quanto avvenuto all’interno dell’ospedale di Alzano Lombardo, documento dal quale si evince che sino alla settimana precedente i malati Covid-19 erano curati unitamente ai malati ordinari». Prendersela con il personale, che affrontava il virus in assenza di linee guida chiare ed efficaci, è l’approccio ufficiale di Conte, che già il 24 febbraio accusa i medici di Codogno di non aver «osservato determinati protocolli favorendo la nascita di uno dei focolai». Forse la peggiore vigliaccheria perpetrata dal pateracchio giallorosso che governava il Paese.Nel frattempo, si fa sentire l’effetto dell’insipienza di chi aveva sprecato un mese tra involtini cinesi e aperitivi sui Navigli per «Milano non si ferma». Il 5 marzo, Andrea Gori comunica a Giorgio che ormai, in reparto, «dovevano assumere decisioni in base alla fascia di età dei malati che giungevano presso i nosocomi in virtù di un’accertata carenza di respiratori», «con la conseguenza che le persone più anziane sono destinate a morire». Una condizione tragica, di cui parla anche Aida Andreassi, dirigente dell’unità organizzativa del Polo ospedaliero di Regione Lombardia, la quale sostiene che «a causa della carenza di apparecchi respiratori i medici erano costretti a scegliere le persone da sottoporre a terapia intensiva preferendo i soggetti giovani rispetto a quelli più anziani». Per fortuna che c’è Di Maio: il 10 marzo, dopo aver sentito l’omologo Wang Yi, il ministro degli Esteri annuncia che la Cina ci fornirà 1.000 ventilatori polmonari, che noi dovremo «acquistare». Insieme a 100 mascherine, 20.000 tute protettive e 50.000 tamponi. Logico, no? Spediamo le poche cose che abbiamo a disposizione ai cinesi e poi le ricompriamo da loro.Persino sui tamponi si pasticcia alla grande. Ricordate la disputa tra Andrea Crisanti e Walter Ricciardi? Quello, operando a Padova, aveva deciso di eseguire test a tappeto nei luoghi dei focolai veneti. Il consigliere del ministro della Salute, invece, il 12 marzo invitava a seguire «le linee guida dettate dall’Oms e dal Centro europeo per il controllo delle malattie. E le evidenze scientifiche indicano l’utilità di effettuare i tamponi a soggetti sintomatici che hanno avuto contatti a rischio o che provengono da aree a rischio». A suo avviso, una delle ragioni per evitare di andare a cercare ovunque il virus era che l’alto numero iniziale di diagnosi aveva focalizzato l’«attenzione mondiale sull’Italia, che ha finito per essere indicata come Paese di “untori”». Quando si trattava di nascondere sotto al tappeto l’incapacità di Conte e Speranza, insomma, la parola d’ordine era limitare i tamponi. Che mesi più tardi, quando il tracciamento degli infetti era ormai divenuto impossibile, sarebbero diventati uno degli strumenti per far piombare in zona rossa intere Regioni.Ebbene, dalle carte bergamasche affiora un illuminante spaccato di quella strategia raffazzonata. Al centro dei colloqui del sindaco di Bergamo c’è la «divergenza tra i dati forniti pubblicamente rispetto ai dati reali dei contagi e dei decessi». Gori, il 16 marzo, ne parla anche con Nino Cartabellotta, il presidente della Fondazione Gimbe. Al suo collega di Brescia, Emilio Del Bono, il primo cittadino orobico spiega che «i dati […] erano falsati poiché le persone che decedevano presso le proprie abitazioni e quelle nelle case di cura non venivano sottoposte al test e quindi non rientravano nelle statistiche dei contagi da Covid-19».Il nodo, appunto, sta nei «criteri di esecuzione dei tamponi». E qui vengono fuori le responsabilità dei tecnici. Il 24 marzo, infatti, nell’ufficio di Gori viene captata una conversazione con il presidente della Regione, Attilio Fontana, al quale il sindaco domanda «esplicitamente […] se fossero state emesse delle apposite linee guida». Risposta: inizialmente, «la linea della Regione era quella di eseguire i tamponi anche a coloro che avevano avuto stretti contatti con i malati da Covid-19», come sarebbe razionale quando si parla di una malattia a trasmissione aerea, «ma dopo circa una settimana e a seguito di contestazioni da parte dell’Istituto superiore di sanità, questa procedura veniva interrotta e il test veniva eseguito esclusivamente alle persone sintomatiche». Capito? La Lombardia fa i test e l’Iss protesta. Filosofia Ricciardi: non deve mica sembrare che in Italia sta accadendo un disastro. Bisogna attenersi ai protocolli - sbagliati - dell’Oms. «Fontana riferiva inoltre che la settimana precedente aveva avuto una riunione con i rappresentanti delle altre Regioni e con il presidente dell’Istituto superiore di sanità, il quale confermava l’indicazione da seguire per l’esecuzione dei tamponi e che detta procedura era stata ribadita dal dottor Brusaferro (Silvio, capo dell’Iss, ndr) […] e dal dottor Locatelli (Franco, a capo del Consiglio superiore di sanità, ndr)». Gli stessi luminari che, in seguito, sarebbero diventati fautori dei test a raffica, utili a stilare bollettini terroristici.D’altro canto, rilevano i carabinieri, financo «tale procedura», cioè quella di procedere alla diagnosi solo sui sintomatici, «risulta in netto contrasto con quanto è avvenuto sostanzialmente nel mese di marzo 2020 in provincia di Bergamo poiché i tamponi venivano eseguiti esclusivamente ai pazienti ammalati che accedevano negli ospedali».Gori intuisce che le cose non stanno funzionando. Il 26 marzo sente proprio Locatelli e si lamenta del Pirellone, che non starebbe «adottando quanto menzionato nelle linee guida dell’Istituto superiore di sanità, sia per i tamponamenti ai sanitari che alle persone che hanno avuto contatti stretti con i malati». Il capo del Css promette comunicati chiarificatori e spedisce al sindaco una mail dal contenuto «estremamente riservato e personale», sulla «metodologia adottata da Regione Lombardia in seno ai tamponi da effettuare alle persone». Ma Fontana, che Gori ascolta in videoconferenza, si difende: lui «sta adottando la metodologia indicata dall’Iss e Oms ovvero di effettuare il tampone a una cerchia ristretta di pazienti».A quattro anni di distanza, abbiamo almeno una certezza: mentre ribadivano di agire «seguendo la scienza», i nostri governanti in realtà annaspavano. Ciò che avrebbero dovuto fare nelle primissime fasi della emergenza fu fatto molto dopo, senza ragione e senza supporto scientifico, in una sorta di maldestro tentativo di recupero rispetto ai precedenti fallimenti.E sorge inoltre un sospetto: che tanta iniziale parsimonia nell’esecuzione dei test dipendesse, oltre che dal desiderio di non far fare una figuraccia internazionale al governo, proprio dalla scarsità di reagenti e di laboratori in cui processare i campioni. Ecco, in effetti di campioni ne avevamo in abbondanza: specie i campioni di disastri. Tipo Conte, Speranza e Di Maio.
A condurre, il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin. In apertura, Belpietro ha ricordato come la guerra in Ucraina e lo stop al gas russo deciso dall’Europa abbiano reso evidenti i costi e le difficoltà per famiglie e imprese. Su queste basi si è sviluppato il confronto con Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, società con 70 anni di storia e oggi attore nazionale nel settore energetico.
Cecconato ha sottolineato la centralità del gas come elemento abilitante della transizione. «In questo periodo storico - ha osservato - il gas resta indispensabile per garantire sicurezza energetica. L’Italia, divenuta hub europeo, ha diversificato gli approvvigionamenti guardando a Libia, Azerbaijan e trasporto via nave». Il presidente ha poi evidenziato come la domanda interna nel 2025 sia attesa in crescita del 5% e come le alternative rinnovabili, pur in espansione, presentino limiti di intermittenza. Le infrastrutture esistenti, ha spiegato, potranno in futuro ospitare idrogeno o altri gas, ma serviranno ingenti investimenti. Sul nucleare ha precisato: «Può assicurare stabilità, ma non è una soluzione immediata perché richiede tempi di programmazione lunghi».
La seconda parte del panel è stata guidata da Giuliano Zulin, che ha aperto il confronto con le testimonianze di Maria Cristina Papetti e Maria Rosaria Guarniere. Papetti ha definito la transizione «un ossimoro» dal punto di vista industriale: da un lato la domanda mondiale di energia è destinata a crescere, dall’altro la comunità internazionale ha fissato obiettivi di decarbonizzazione. «Negli ultimi quindici anni - ha spiegato - c’è stata un’esplosione delle rinnovabili. Enel è stata tra i pionieri e in soli tre anni abbiamo portato la quota di rinnovabili nel nostro energy mix dal 75% all’85%. È tanto, ma non basta».
Collegata da remoto, Guarniere ha descritto l’impegno di Terna per adeguare la rete elettrica italiana. «Il nostro piano di sviluppo - ha detto - prevede oltre 23 miliardi di investimenti in dieci anni per accompagnare la decarbonizzazione. Puntiamo a rafforzare la capacità di scambio con l’estero con un incremento del 40%, così da garantire maggiore sicurezza ed efficienza». Papetti è tornata poi sul tema della stabilità: «Non basta produrre energia verde, serve una distribuzione intelligente. Dobbiamo lavorare su reti smart e predittive, integrate con sistemi di accumulo e strumenti digitali come il digital twin, in grado di monitorare e anticipare l’andamento della rete».
Il panel si è chiuso con un messaggio condiviso: la transizione non può prescindere da un mix equilibrato di gas, rinnovabili e nuove tecnologie, sostenuto da investimenti su reti e infrastrutture. L’Italia ha l’opportunità di diventare un vero hub energetico europeo, a patto di affrontare con decisione le sfide della sicurezza e dell’innovazione.
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Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)