Non è una polemica accademica. È una doppia traccia tra le carte dell’inchiesta sulla morte di Camilla Canepa: da una parte le mail inviate alle autorità sanitarie, dall’altra le parole rese ai magistrati. Le Scienziate per la Società avevano messo in guardia contro gli Open day Astrazeneca, scrivendo a Nicola Magrini, il direttore generale dell’Aifa, e a Cinzia Caporale, la bioeticista del Cts. Valeria Poli, biologa molecolare dell’Università di Torino, in Procura a Genova lo ricorda bene quel confronto: «Ci rispose (la Caporale, ndr) che avevano consultato i migliori immunologi e che non c’era nessun problema… noi abbiamo ri-risposto che invece secondo noi c’era, leggere la letteratura… ma insomma ci ha rintuzzato ma insomma ci ha rintuzzato». Della mail inviata a Magrini, invece, ha riferito ai pm Anna Rubartelli, medico chirurgo in pensione e ricercatrice specializzata in ematologia, «non fu mai data risposta». Eppure, ben 12 componenti del loro gruppo, il 28 maggio 2021 avevano scandito in quella mail numeri e dubbi. L’incipit fotografava l’entusiasmo dei territori per gli Open day: Alto Adige, Sardegna, Sicilia e Liguria che comunicavano il successo della campagna o promuovevano gli eventi. Poi lo strappo: «Noi nutriamo grosse perplessità sulla appropriatezza dell’iniziativa». I punti deboli erano stati messi nero su bianco. «Astrazeneca è meno efficace nel prevenire l’infezione». Ma soprattutto: «Il difetto principale di Astrazeneca è legato alla Vitt». L’analisi portava a una conclusione netta: «La Vitt a seguito di vaccinazione con Astrazeneca rappresenta negli under 40 sani un rischio più alto del Covid-19». Seguiva anche una spiegazione: «In questa fascia di età la letalità per Covid-19 in Italia è vicina allo zero ed è rarissima l’ospedalizzazione». Il cuore della mail, però, coincideva con una richiesta a Magrini: «Le chiediamo di rivedere i criteri per la somministrazione di Astrazeneca e in particolare di bloccare gli Open day senza restrizioni per fascia di età». Quasi in coda c’era anche un passaggio più politico: «Ci sembra che la scelta del governo e delle agenzie regolatorie di limitare Astrazeneca agli ultrasessantenni e poi di lasciarlo somministrare ai diciottenni sia eticamente discutibile». E la chiusura non lasciava spazio a interpretazioni: «Qualunque sia la risposta queste domande, la salute dei giovani non è barattabile con lo smaltimento di dosi di vaccino rifiutato dalle fasce d’età cui è destinato». Lo scambio di email con la Caporale, invece, comincia il 4 giugno. E parte proprio dalla Poli, che parla a nome del gruppo: «Siamo costernate dalla organizzazione degli Open day… aperti a tutte le età e persino rivolti ai maturandi». La lettera entrava nel dettaglio: «Il rischio di trombosi trombocitopenica indotta da vaccino (Vitt), rara ma potenzialmente letale (circa il 25 per cento dei casi), è particolarmente frequente negli individui, soprattutto donne, sotto i 50 anni». Contestava le stime ufficiali: «La frequenza stimata di 1 caso su 100.000 non è realistica: i dati inglesi suggeriscono almeno quattro volte tanto». Caporale rispose il giorno dopo: «Oggi ho consultato diversi esperti di diversa provenienza e ho avuto risposte univoche. Siete molto scrupolose e attente, resto a disposizione». Una risposta che non convinceva le scienziate. Poli, infatti, ribadì: «Noi studiamo i dati e i dati questo dicono. Grazie per esserti mossa, anche se sei giunta a conclusioni che non sono le nostre. Io spero con tutto il cuore che ci stiamo sbagliando e che non succeda nulla, anche un solo morto sarebbe imperdonabile». La Caporale replicò piccata: «Anche noi studiamo i dati e l’etica. Nessuna azione umana è certamente esente da rischi e non è possibile epistemologicamente ottenere una prova di innocuità». Due posizioni difficili da far convergere.
La loro è stata un’inutile corsa contro il tempo e contro le decisioni «horror» del nostro governo di allora. Dagli atti dell’inchiesta genovese sulla morte della diciottenne Camilla Canepa emerge come, per mesi, un gruppo di coraggiose scienziate abbia, inutilmente, provato a impedire che decine di persone, per lo più giovani e donne, rischiassero di morire di trombosi.
Un’impresa che è riuscita solo in parte. Gli inquirenti liguri, il 25 marzo 2022, hanno ascoltato la versione di Valeria Poli, ordinario di biologia molecolare a Torino, e di Anna Rubartelli, ematologa e ricercatrice in pensione. In quel momento fanno entrambe parte del team di esperte (una decina in tutto) denominato «Scienziate per la società», che comprende anche immunologhe, nefrologhe e farmacologhe titolari di cattedre universitarie e alla guida di centri di ricerca d’eccellenza. Si tratta di studiose impegnate anche nel sociale o in associazioni che si occupano di diritti delle persone. Ai magistrati hanno spiegato sconfortate che per mesi hanno provato a convincere il Comitato tecnico scientifico e il ministero della Salute a non inoculare il vaccino Astrazeneca nei ragazzi, soprattutto se di sesso femminile, visto che, in quel target, comportava molti più rischi che benefici.
Pigrizia, ignavia, malafede. Nei verbali di sommarie informazioni, le due donne non sanno dare una spiegazione alle mosse del governo e dei suoi consiglieri. Ma descrivono perfettamente il proprio sbigottimento nel momento in cui hanno appreso che il Cts, il 12 maggio 2021, circa due mesi dopo la scoperta della Vitt (reazione ai vaccini a vettore virale, caratterizzata da gravi trombosi e contemporanea riduzione di piastrine) da parte di un luminare tedesco, il professore Andreas Greinacher, aveva dato il via libera alle giornate vaccinali per gli over 18. Senza distinzione di età o di genere. «Con orrore abbiamo visto che questi Open day […] hanno cominciato a dare Astrazeneca e Johnson & Johnson», dichiara la Poli ai pm. Anche la Rubartelli confessa il proprio turbamento di fronte alla decisione del Cts di dare il via libera agli Open day con Astrazeneca: «Non commento […] dopo che il ministero aveva detto che si consiglia di non fare il vaccino sotto i 60 anni… boh…».
Il 16 marzo 2021 Greinacher riceve il primo campione di sangue di una paziente vaccinata con Astrazeneca che presenta trombosi associata a piastrinopenia. Nel giro di 24-48 ore il suo gruppo dà un nome alla nuova sindrome, la «Vaccine induced immune thrombotic thrombocytopenia». È stata osservata in soggetti da 20 a 50 anni, in maggioranza donne, con dei sintomi precisi: cefalea, dolore addominale, disorientamento e perdita dell’equilibrio. Il tutto a 5-15 giorni circa dalla prima vaccinazione con Astrazeneca. Il 20 marzo il professore tedesco presenta i dati della sua scoperta durante una conferenza stampa.
Due giorni dopo la Siset, Società italiana di emostasi e trombosi, pubblica un documento con indicazioni su diagnosi e trattamento e il 24 marzo organizza un webinar proprio sulla Vitt. Per tutto questo, il giorno seguente, viene modificato il consenso informato collegato ad Astrazeneca, con l’inserimento del rischio di coaguli e bassi livelli di piastrine. Il ministero della Salute, però, diffonde una nota informativa concordata con Aifa (l’Agenzia italiana del farmaco) ed Ema (l’Agenzia europea per i medicinali) per ribadire che i benefici superano i rischi, pur ammettendo un legame possibile con casi molto rari di trombosi. In Italia iniziano a morire diverse persone, soprattutto donne. Il 7 aprile il Comitato per la valutazione dei rischi per la farmacovigilanza dell’Ema inserisce le forme rare di trombosi tra gli effetti collaterali molto rari del vaccino e raccomanda di aggiornare la sua scheda tecnica. Conferma, però, che i benefici restano superiori ai rischi. Lo stesso giorno il ministero della Salute raccomanda l’uso preferenziale sopra i 60 anni. La strada sembra segnata. Il 9 aprile lo studio di Greinacher viene pubblicato sul New England journal of medicine, praticamente la Cassazione in termini scientifici. La comunità internazionale non può più ignorare la scoperta. L’11 aprile la professoressa Rossella Mannucci, in un’intervista, afferma: «Giusto limitare l’uso di Astrazeneca. C’è una cura per la reazione avversa». E il 15 aprile le Scienziate per la società prendono ulteriore coraggio (prima dell’uscita su New England non volevano «andare a spaventare la gente», ma adesso «era giusto che si sapesse») e pubblicano sul Corriere della Sera una lettera intitolata «Le trombosi, i due studi e la malattia». Alla Rubartelli non va proprio giù il verbale del Cts del 12 maggio 2021: «Riporta l’incidenza (delle trombosi, ndr) senza stratificare per età… ma io mi sono segnata che già allora Ema e il Winton center di Cambridge (legato all’università e consulente dell’Ema, ndr), che è un grosso centro di statistica, in realtà avevano fatto dei bei grafici dove si vedeva chiaramente che sotto la fascia di età dei 40 anni sono maggiori i rischi che non i benefici. E infatti mi ero segnata “ma perché il Cts non ne parla? Perché non stratifica per età?”».
La pm prova a fare l’avvocato del diavolo: «Il Cts può non averli recepiti...». La Rubartelli non ci sta: «Ma non è possibile, se c’è un Comitato tecnico scientifico, se lo so io, lo deve sapere anche lui». La donna evidenzia che lei ne era venuta a conoscenza di quelle notizie da pensionata, «facendo la nonna» e qualche consulenza, insomma per «interesse» personale. Mentre per i membri del Cts «era il loro lavoro, figuriamoci se non dovevano saperlo». La dottoressa insiste: «Figuriamoci se non lo sapevano, lo sapevano quanto noi. Tant’è che una volta c’era stato un battibecco con uno (Cinzia Caporale, ndr) che, invece, ci aveva risposto dicendo “guardate che gli immunologi da noi consultati dicono che non è vero che c’è questo rischio così alto” e noi avevamo risposto “vabbè, speriamo che abbiate ragione voi”. Ma, invece, avevamo ragione noi». In quel periodo gli unici che non tengono conto di quelle scoperte sono i «luminari» del Cts, di cui la Rubartelli ha «sempre avuto una gran stima»: «Li conosco tutti, cioè nel senso che siamo stati colleghi per tanti anni». Una consuetudine che non porta a nulla: «Abbiamo scritto al Cts in diverse occasioni, ma non ci hanno mai risposto niente». La toga chiede conferma: «Ah, non ha risposto nessuno?». Rubartelli: «No, mai. Oppure risposto cose insensate». Con loro era diventato difficile comunicare: «Sfuggivano molto. Quello che più conoscevo, per esempio, non voleva parlare e, comunque, non ero così in confidenza da potergli telefonare dicendo “Oh!! Ma sei scemo?!”, come avrei fatto». Per questo, «non potendogli dire così», alla fine, ha preferito non insistere.
Le scienziate, alla fine, vengono totalmente «ignorate». Ma non si arrendono. A fine maggio 2021, 24 medici vaccinatori liguri, tra cui la Rubartelli, firmano una lettera aperta sull’Huffington Post, intitolata «Astrazeneca non è un vaccino per giovani». Ma l’ordine dei medici risponde minacciando procedimenti disciplinari. Roberto Burioni avverte che i camici bianchi «devono sostenere la campagna e vaccinare, non scatenare dubbi e sospetti nelle persone». La pm rilegge l’articolo, mentre raccoglie le sommarie informazioni. È un articolo durissimo. Per esempio c’è scritto: «Ci sembra che la scelta del governo e delle agenzie regolatorie di sconsigliare Astrazeneca sotto i 60 anni e poi di lasciarlo somministrare ai diciottenni sia sconcertante». I ribelli fanno sapere di «disapprovare» gli Open day perché non mettono «correttamente in guardia giovani dai rischi, per bassi che siano, e approfitta del loro lecito desiderio di riprendere una vita normale […] forse per utilizzare le dosi di Astrazeneca conservate nei frigoriferi perché rifiutate dagli ultrasessantenni». La Rubartelli ripete davanti agli inquirenti il leit-motiv di quella missiva («Siamo sconcertati») e ne trasmette il senso: «Io ero furibonda». Anche perché persino Astrazeneca aveva ceduto di fronte alle evidenze scientifiche sul rischio di trombosi: «Ha capito che era vero, non ha dubitato e, infatti, lo ha subito scritto sul bugiardino». Per l’esperta i membri del Cts non avrebbero alzato un dito per impedire che delle ragazze andassero a morire: «Nel momento in cui si sapeva che le giovani donne erano a rischio di questa complicanza, mentre il rischio di morire per Covid sinceramente era molto basso nelle donne sane e giovani, ed essendoci altri vaccini, sembrava un po’ assurdo non...». Cambiare rotta. Ma, invece, è andata proprio così.
La teste ricorda quei momenti convulsi: «Il 14 maggio si cominciano a organizzare gli open day per gli over 18 e anche Giovanni Toti (all’epoca governatore della Liguria, ndr) dichiara al Quotidiano Sanità che siccome il parere finale del Cts è che si possono fare, li fa anche lui, giustamente». La donna snocciola aneddoti personali: «Comincio a ricevere telefonate continue di amici/amiche che mi dicono mio figlio/mia figlia… mia figlia stessa mi dice: “Mamma vado subito a farmi vaccinare”. Io le rispondo: “No tu non vai da nessuna parte”». Ed estese il divieto anche agli altri parenti più giovani: «Ai miei nipoti ho detto: “Guai a voi se fate Astrazeneca”». La Rubartelli commenta: «I ragazzi non vedevano l’ora, ma giustamente, perché potevano tornare a vivere, potevano tornare a divertirsi, ovviamente i ragazzi figli delle famiglie pro-vaccino...». L’ex docente ripensa alla decisione del governo: «Lo avevano tolto sotto i 60 anni e adesso lo facevano addirittura...». Si interrompe. Quindi riprende, ancora più dura: «Non mi ricordo dove, ma ne hanno fatto uno (si riferisce ai vaccination day, ndr) addirittura solo per i maturandi, cioè proprio carne da macello».
Anche la Poli, di fronte agli inquirenti, non fa sconti: «Per un buon periodo sono stata… siamo state tranquille perché avevamo visto che Astrazeneca era riservato agli over 60 e ci sembrava che il pericolo fosse scongiurato». Ma poi arriva il verbale del Cts del 12 maggio, una seduta in cui, anziché raccomandare Astrazeneca alle persone tra i 50 e i 59 anni, come auspicato dal ministero, viene concesso un incredibile nulla osta agli Open day vaccinali per gli over 18. «Questo è quello che mi ha impressionato» ammette la Poli. «Il Cts non prendeva mai in considerazione il rapporto rischio/beneficio, la stratificazione per età». Tutte informazioni note, come detto da marzo e aprile. Le scienziate avevano iniziato la loro battaglia ancora prima che uscissero gli studi: «Abbiamo scritto, anche in tempi precedenti, al Cts, al ministro Speranza, descrivendo in modo dettagliato quello che si sapeva dei vaccini, dicendo “usiamoli tutti, ma usiamoli correttamente”». Poi, quando sono iniziati gli Open day hanno spedito una mail al presidente di Aifa Nicola Magrini e all’unica donna del Cts, la bioeticista Caporale (vedere articolo a pagina 3). «Noi abbiamo scritto al Cts quando si è cominciato a sapere che usavano Astrazeneca, però, non si sapeva ancora che era stato il Cts ad averlo autorizzato.
Cioè, chi lo doveva sapere lo sapeva, però, il grande pubblico, per lo meno noi, non lo sapevamo e questa cosa, in realtà, è stata resa pubblica dal presidente Toti che, dopo la morte di Camilla Canepa, ha detto: “Beh, non è stata colpa mia, è il Cts che ci ha scritto che potevamo farlo”. Ed effettivamente c’è questa lettera ufficiale del Cts». Il resoconto della docente si fa drammatico e ricostruisce il tentativo, dopo gli articoli sui giornali, di divulgare un ulteriore alert: «Io mi ricordo di questa corsa contro il tempo per far uscire questa lettera pensando giustamente che avrebbe avuto, venendo dall’Associazione Luca Coscioni, una maggiore risonanza. Però, devo dire che abbiamo fatto tardi. Probabilmente lo avessimo fatto prima, magari Camilla non sarebbe morta, perché appunto prima abbiamo provato a utilizzare delle vie che non avrebbero portato la cosa alla ribalta… noi pensavamo fosse meglio così rispetto alla confusione che si sarebbe creata e poi niente... poi ci siamo arresi». E sono usciti allo scoperto. Portando la loro battaglia sui media. In Procura chiedono se dopo la morte della Canepa abbiano avuto contatti con i membri del Cts. «No, mai .... non ci hanno mai più (chiamati, ndr)… noi non li abbiamo ovviamente più contattati...» è la replica. Gli inquirenti constatano: «Siete stati ignorati». Poli conferma: «Completamente, nel bene e nel male, non ci sono stati riscontri... poi magari avranno anche avuto le loro pressioni». Chi le abbia messe in atto non è ancora stato chiarito.
Agli atti la responsabilità di Speranza sulla scelta ferale. Le pressioni del governo sul Cts, il verbale «ritoccato», il colloquio con Figliuolo, la mail del Commissario: il politico dem ha trasformato, senza metterci la faccia, i dubbi degli esperti nell’ok ad Astrazeneca sui giovani.
Clicca i link qui sotto per consultare il documento inviato alle Regioni e il verbale dell’ex commissario Figliuolo.
Documento inviato alle Regioni.pdf
Verbale Figliuolo 20 luglio 2022.pdf
Nella riunione del Comitato tecnico scientifico del 9 giugno 2021, l’allora ministro Roberto Speranza era stato netto: «Non mi voglio sostituire alla Scienza…». Ma, in realtà, solo un mese prima, l’aveva fatto, eccome. Spingendo a più non posso affinché l’organo consultivo del governo allargasse la platea dei cittadini a cui poter raccomandare il vaccino Astrazeneca, allo scopo di smaltire le ingenti scorte e provare, perché no?, a conquistare lo scettro di Paese più vaccinatore del mondo. Nel maggio del 2021, non essendo riuscito a incassare dal Cts la raccomandazione del siero per la fascia di età compresa tra i 50 e i 59 anni, aveva ottenuto il via libera ai vaccination day aperti agli over 18. Un semaforo verde che ha causato la morte della ligure Camilla Canepa, da poco diventata maggiorenne.
Giovanni Rezza, ex direttore generale della Prevenzione del ministero della Salute, ai pm che gli chiedevano come avesse conciliato il proprio scetticismo sulla somministrazione di quel vaccino ai giovani e la decisione del Cts, aveva rivendicato: «Noi come Dipartimento della prevenzione sanitaria non abbiamo mai incentivato i vaccination day, infatti non è stata emessa alcuna circolare inerente a questa iniziativa».
Ma il ministero di Rezza e Speranza in questa brutta vicenda ha lasciato le impronte digitali.
Come detto nei giorni scorsi, dopo la presentazione del quesito sui cinquantenni, il coordinatore del Cts, Franco Locatelli, nonostante l’argomento fosse stato trattato solo en passant, inserì nel verbale della riunione del 12 maggio 2021, (da lui «accuratamente rivisto»), cinque righe che risultarono decisive per l’apertura dei vaccination day. Le ricordiamo ai lettori: «Inoltre, alla luce di tutte le considerazioni sopra esposte, il Cts non rileva motivi ostativi a che vengano organizzate dalle differenti realtà regionali o legate a province autonome, iniziative, quali i vaccination day, mirate a offrire, in seguito ad adesione/richiesta volontaria, i vaccini a vettore adenovirale a tutti i soggetti di età superiore ai 18 anni».
Davanti ai pm Locatelli non aveva saputo spiegare il perché di quell’intervento: «Io non mi ricordo perché c'è stata l'aggiunta e lo dico in assoluta sincerità e trasparenza […] non mi ricordo la genesi di quella frase…».
Il vecchio segretario del Cts, l’avvocato Sergio Fiorentino, non era stato più esaustivo: «Non ricordo come siamo arrivati a scrivere questa cosa […]. L’argomento (open day, ndr) non era incluso nel quesito proposto dal professor Locatelli. Ricordo, però, che, nel corso della riunione, sebbene in modo marginale, il tema era stato affrontato».
Adesso La Verità ha recuperato dei documenti che sembrano avere impresse sopra le impronte digitali proprio di Speranza.
Partiamo dalla mail che Fiorentino, alle 19:26 del 13 maggio 2021, spedisce ai membri del Cts. Questo è il testo: «Vi invio, ai fini dell’approvazione o della proposta di modifiche, l’estratto del verbale della seduta di ieri, relativo alla questione della raccomandazione dei vaccini a vettore adenovirale. Considerata l’urgenza di conoscere il parere da parte del ministero della Salute, vi chiedo di pronunciarvi entro domani alle 11».
Già da queste poche righe è chiaro che il Cts ha il fiato sul collo e a soffiare è il ministero.
Ma perché tanta fretta se, sulla questione all’ordine del giorno della seduta (la raccomandazione di Astrazeneca ai cinquantenni), il comitato non era riuscito a trovare un accordo?
Per capirlo basta scartabellare tra gli atti entrati in nostro possesso.
Nel verbale riassuntivo, innanzitutto, viene rilevato come sia rimasto «non risposto il quesito formulato dal Comitato in esito alla riunione del 10 maggio 2021, cioè la richiesta di informazioni relative al verificarsi di trombosi in sedi inusuali associate a piastrinopenia, nei soggetti di età compresa tra i 55 e i 59 anni in Francia, ove i vaccini a vettore adenovirale sono raccomandati». Per questo motivo il consesso di esperti non si azzarda ad allargare la platea, anche se per non scontentare del tutto il governo tenta un’arrampicata sugli specchi. Basta leggere le «proposizioni» che il Cts «unanimemente condivide».
E qui il documento diventa la sagra dell’ovvio.
Come dimostra la prima frase: «Attualmente l’uso di entrambi i vaccini a vettore adenovirale (Astrazeneca e Johnson&Johnson,ndr) è approvato sia dell’Ema (l’Agenzia europea per i medicinali, ndr), sia dall’Aifa (l’Agenzia italiana del farmaco, ndr) per i soggetti al di sopra dei 18 anni».
Il Cts ribadisce anche che «i dati a oggi disponibili dimostrano che», con tali sieri, «vi è un vantaggio nel rapporto rischi/benefici che è incrementale con l’aumento dell’età».
La nota ricorda pure che, per esempio, nel Regno Unito «l’uso estensivo» di vaccini a vettore adenovirale «ha consentito di ottenere largo controllo sia del numero dei decessi, sia della circolazione virale».
Solo a questo punto viene precisato che «i fenomeni di trombosi» legati ai vaccini a vettore adenovirale si sono verificati «in larga prevalenza in persone sotto i 60 anni (con una preponderanza di casi nel genere femminile») e che questo «ha motivato l’indicazione preferenziale» per gli over 60.
Ma ciò non porta i professori a sconsigliare l’uso di tali sieri sui giovani. Anzi, nell’estratto, il Comitato, dopo avere «ribadito che i vaccini a vettore adenovirale possono essere impiegati in tutte le fasce di età dei soggetti attualmente vaccinabili», anziché rimarcare le statistiche negative di Astrazeneca, evidenzia come «l’incidenza di eventi trombotici associati all’uso» di Johnson&Johnson, «sia più bassa». Dopo tale considerazione arrivano le uniche vere conclusioni. Il Cts fa sapere che «si può condividere un’indicazione preferenziale» di Johnson&Johnson, «per popolazioni speciali», non identificate nel documento, «per le quali risulti indicato completare nel più breve tempo possibile la vaccinazione (questo siero era monodose, ndr)».
L’ultimo capoverso, invece, riporta pari pari l’inserto fatto da Locatelli sui vaccination day.
Quindi il verbale di cui il ministero chiede la rapida approvazione contiene solo due risultati: sì a Johnson&Johnson per le popolazioni speciali e sì ai vaccination day con sieri a vettore adenovirale.
E per quale di queste conclusioni friggesse Speranza lo spiega bene ai magistrati l’allora commissario all’emergenza Covid, il generale degli Alpini Francesco Paolo Figliuolo, il quale svela di avere appreso quale fosse il punto nodale della riunione del 12 maggio 2021 direttamente dal politico dem: «Io lo seppi informalmente il giorno dopo la riunione dal ministro Speranza, che mi disse: "Guarda, ti informo che è stato autorizzato ... c'è il nullaosta su questi vaccination day, chiamiamoli open day… come vogliamo…"». A questo punto il militare mette un po’ le mani avanti: «Però qualche Regione si era già spinta avanti qualche giorno prima, mi pare che la Campania e il Lazio avessero fatto queste cose qui». Figliuolo, con gli inquirenti, specifica pure che, sulla discussa questione, alcune Regioni si erano fatte avanti anche con la struttura da lui guidata, in particolare il Lazio e la Campania («Ma personalmente non ho mai spinto sull'argomento»). Nelle versione riassuntiva delle sommarie informazioni testimoniali, le parole di Figliuolo, sono state così limate: «In merito al verbale che mi avete mostrato, quanto scritto l'ho appreso in via del tutto informale qualche giorno dopo dal ministro Speranza. All'epoca, ancor prima che uscisse il parere del Cts del 12 maggio 2021 sapevo che alcune Regioni avevano già iniziato a fare i vaccination day. Mi pare di ricordare che il Lazio avesse iniziato a fare gli open day a partire dai diciottenni, mentre la Campania dai trentenni. Io, con una nota del 17 maggio 2021, a firma del mio capo di gabinetto, mi sono limitato a circolarizzare (sic, ndr) quanto indicato nel verbale numero 17, annesso in copia a tutte le Regioni e alle Province autonome».
In realtà la mail dello stretto collaboratore del commissario non era così neutra come ha provato a far credere ai magistrati il generale. Infatti, il colonnello Cosimo Gabriele Garau, dopo avere richiamato «l’attenzione» dei destinatari «sul parere in oggetto, contenuto nel primo punto all’ordine del giorno», aggiunge immediatamente la seguente locuzione: «In particolare, si evidenzia, tra le varie raccomandazioni inserite nel summenzionato parere, “il Cts non rileva motivi ostativi…”». Segue l’intera frase vergata da Locatelli.
Dunque la struttura commissariale detta la linea, anche se nella riunione del 9 giugno 2021, come gli ha rinfacciato la Procura il 20 luglio 2022, dirà che «gli Astra-day se li sono inventati le Regioni con mia grande incazzatura».
I magistrati ricordano a Figliuolo anche un’altra sua dichiarazione sui vaccination day: «Il Comitato diede l'apertura che poi io declinai con una lettera». Il generale replica che quella battuta non aveva «alcun riferimento negativo» e che il verbale del 12 maggio 2021 è stato inviato a tutte le Regioni per una mera «questione logistica […] allo scopo di organizzare eventualmente gli open day e richiedere alla struttura il quantitativo di dosi necessarie a soddisfare tale iniziativa». Quindi non ci sarebbe stata, da parte sua, nessuna adesione ideale.
Anche se il suo capo di gabinetto, nella mail di accompagnamento inviata ai governatori, dopo avere sottolineato la ferale «raccomandazione», assicura che se ospedalizzazioni e decessi sono diminuiti ciò «è diretta conseguenza dell’immunizzazione delle classi target nonché di comportamenti responsabili da continuare a perseguire». Il colonnello alla sua missiva allega il verbale esteso della riunione del 12 maggio del Cts senza nessuna nota del ministero. E anche se Locatelli ha più volte chiarito che i pareri del comitato erano solo consultivi, in questo caso diventano «raccomandazioni» da sottolineare. In tal modo il ministero, senza sporcarsi le mani direttamente, è riuscito ad avallare i vaccination day. Un gioco delle tre carte per cui la Procura di Genova non ha individuato alcun responsabile.
Le discussioni, le polemiche, le divisioni che ancora animano l’intera società e il pubblico dibattito in tema di pandemia dimostrano che anche dopo tempo non si sono ancora sopiti gli spiriti banali che praticano il pensiero orizzontale, cioè quel pensiero che divide tutto in tifoserie e fazioni senza scrutare al fondo reale dei problemi.
Mentre una parte del cosiddetto mondo scientifico continua a portare avanti la dicotomizzazione della realtà secondo paradigmi non scientifici, ma ideologici, come sì vax-novax, sì mask-no mask, sì pass-no pass, bisognerebbe che tutti gli altri cominciassero a praticare il pensiero verticale, cioè l’unico in grado di trascendere le tifoserie e le ideologizzazioni per cercare di comprendere davvero la realtà. In tale direzione un profilo altamente problematico è offerto da tutta quella serie di temi giuridici che sono stati centrali nel periodo pandemico e che, non essendo stati ancora risolti, si trascinano come ombre nel tempo presente continuando a produrre perfino effetti negativi e nefasti, come La Verità testimonia quotidianamente con pazienza e coraggio ormai da anni.
I problemi sono molteplici ovviamente, ma a parere di chi scrive i seguenti sono i principali: la chiusura delle chiese da parte dello Stato; la previsione del consenso informato in presenza di obbligo vaccinale; l’emanazione del green pass; lo stravolgimento dell’ordine delle fonti giuridiche e del principio di legalità; il rifiuto di praticare autopsie e di riconoscere gli effetti avversi; l’aver creato competizione e contraddizione tra diritti fondamentali come quello al lavoro e quello alla salute; l’esclusione della responsabilità medica; la compressione dei casi di obiezione di coscienza e di obiezione di scienza; l’istituzionalizzazione diretta o indiretta di strategie dell’esclusione che hanno criminalizzato decine di migliaia di cittadini innocenti; la soppressione di diritti fondamentali come il diritto di critica che dovrebbe sempre essere considerato il fulcro centrale di un contesto democratico.
Non vi è modo di esaminarli in tutta la loro interezza e complessità, ma a titolo esemplificativo si consideri il problema del consenso informato il quale, secondo la costante e consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale, costituisce un diritto fondamentale tanto che la sua eventuale violazione è ritenuta causa legittima per una richiesta autonoma di risarcimento del tutto distinta rispetto al danno alla salute cagionato dall’eventuale errore medico.
Per di più è necessario osservare come nel periodo pandemico, cioè nel tempo più giuridicamente schizofrenico della convulsa storia repubblicana, il senso etico e giuridico del consenso informato è stato profondamente stravolto in quanto si è affiancato all’obbligo vaccinale.
Delle due l’una: o i vaccini, come tutti gli altri ritrovati terapeutici, sono liberamente scelti dai soggetti a cui vengono somministrati e allora il consenso informato è necessario e inderogabile, o sono imposti per obbligo di legge e allora non sono somministrati consensualmente, ma, appunto, ope legis, rendendo formalmente ultroneo e sostanzialmente inutile il consenso informato almeno nelle modalità con cui è stato messo in essere durante la campagna vaccinale pandemica.
In sostanza: ciò che è obbligatorio, specialmente se l’obbligo discende dalla legge, non è consensuale, e, per converso, ciò che è consensuale non può essere obbligatorio.
Il sovvertimento della ratio iuris del consenso informato costituisce una spia accesa sul quadro generale del modo con cui in Italia è stato gravemente frainteso, e quindi leso, il diritto nel periodo pandemico.
Il diritto, infatti, è stato subordinato alle presunte esigenze scientifiche, e queste ultime a loro volta sottomesse alle visioni politiche e ideologiche di chi era chiamato a gestire la res pubblica in periodo pandemico.
Le difficoltà giuridiche irrisolte all’epoca, peraltro, si rendono ancora oggi visibili, poiché chi non ha colto la reale natura del diritto, la sua autonomia epistemica dalle discipline scientifiche, la sua indisponibilità anche in caso di emergenza sanitaria, la sua vocazione a tutelare sempre e comunque la persona prima e al di là delle ragioni sanitarie, belliche, climatiche, energetiche o di qualsivoglia altra specie, continua a dimostrare la propria inossidabile propensione ad equivocare il ruolo, la natura e lo scopo del diritto in se stesso considerato.
Non a caso quanti ancora oggi si adoperano nel sostegno cieco e ideologico delle misure pandemiche, ritenute indiscutibili, sono gli stessi che militano all’interno di quella rivolta antropologica in corso da decenni contro l’umano e per i quali, in sostanza, non dovrebbe essere ammessa la possibilità di rifiutare un vaccino non sufficientemente sperimentato, ma invece dovrebbe essere concessa la possibilità di chiedere il suicidio medicalmente assistito.
Una duplice distorsione della legge, insomma, che rivela peraltro le drammatiche incoerenze logiche di chi non ha adeguatamente compreso cosa sia in realtà la ragione in se stessa considerata e quella giuridica in particolare.
di Aldo Rocco Vitale, Filosofia del Diritto Università Europea di Roma
Finora è con il silenzio che se la sono cavata. Grazie a una congiura iniziata anni fa e che ancora oggi prosegue. Bastava osservare le prime pagine dei grandi quotidiani di ieri: c’erano le intemerate di Giuseppe Remuzzi contro Robert Kennedy Jr. che taglia i fondi ai vaccini Mrna, c’erano le parole del ministro Orazio Schillaci sui miliardi in più da spendere per la sanità. Ma della commissione d’inchiesta sul Covid e delle clamorose rivelazioni da essa emerse non v’era traccia. Il che è decisamente allucinante visto quanto ci è costata la pandemia in termini umani, economici, politici e sociali. I più continuano a stare zitti, a fare finta che non sia accaduto niente. Se salta fuori un mezzo pasticcio combinato da un politico (preferibilmente di destra) dieci anni fa, i media ne discutono per settimane, gli inviati dei talk show s’avventano sul presunto colpevole e lo addentrano finché non cede. Ma sul Covid niente: come se non fosse mai esistito.
Tutto ciò, chiaramente, ha reso piuttosto facili le cose per coloro che hanno gestito il grande carrozzone pandemico, Roberto Speranza in primis. L’ex ministro l’arte del silenzio l’ha praticata a lungo: ha sempre rifiutato confronti e interviste serie, ha evitato le domande dei cronisti e pure quelle dei comuni cittadini, malati compresi. In compenso ha scritto un libro ricco di bugie, ma in pochissimi gliene hanno chiesto conto.
Anche ora Speranza tace. Eppure se volesse potrebbe difendersi con forza. Potrebbe rispondere alle pesantissime affermazioni di Giuseppe Ippolito, già direttore per la ricerca e l’innovazione del ministero della Salute, componente del primo e secondo Cts, insomma uno dei capoccioni chiamati a fronteggiare la pandemia in prima linea, uno che evidentemente non ci sta a prendersi colpe che non ritiene essere sue. Ippolito parla della tanto sbandierata task force anti Covid e la definisce «un bailamme di persone che ogni giorno cambiavano». Dice che i pazienti, se lasciati a casa e non concentrati in ospedale, «avrebbero sicuramente avuto un esito migliore». Ma soprattutto dice e ripete: «Noi fornivamo pareri e la politica decideva cosa farci». Tradotto: la politica, non la scienza, ha guidato la gestione dell’affaire Covid. Tanto che, a un certo punto, i componenti del Cts pensarono di togliersi di torno perché i politici continuavano a subissarli di domande a cui non sapevano bene che cosa rispondere. A tale riguardo il racconto di Ippolito è vivido: «Più volte», spiega, «abbiamo ipotizzato di “sminarci” da una situazione per cui, in una giornata fatta di 14-15 ore in un sotterraneo, da noi arrivava sul tavolo di tutto: se si dovevano chiudere gli stadi, se le partite si potevano far giocare a porte chiuse, se si potevano importare le auto, le mascherine, il trattamento delle ostie, le acquasantiere. Era una specie di porto di mare».
Di questo scaricabarile continuo tra scienza e politica qualcuno dovrebbe rendere conto. In particolare, Roberto Speranza dovrebbe rendere conto delle bugie raccontate a proposito della task force, che fu venduta come la risposta più efficiente possibile al virus. Dovrebbe rendere conto del mancato utilizzo del piano pandemico, su cui Ippolito ha parole chiarissime. Del resto il suo intervento era scritto nero su bianco anche nei verbali della suddetta task force: lui disse che il piano sarebbe stato bene attivarlo, ma non ci fu alcuna discussione in merito, e la politica non prese alcuna decisione.
In questo quadro, le possibilità sono due: o Ippolito mente clamorosamente, e allora andrebbe pubblicamente sbugiardato, oppure dice il vero, e allora qualcuno dovrebbe pagare. Tanto più che qualche giorno fa la Cassazione ha stabilito che pure le condotte omissive possono integrare il reato di epidemia colposa: se non è omissione non attivare il piano pandemico, che cosa potrebbe esserlo?
Non solo però Speranza non risponde né smentisce. Non solo i politici che allora stavano al governo tacciono. Ci sono persino esponenti di Pd e 5 stelle che hanno il coraggio di lamentarsi perché le frasi di Ippolito sono state rese pubbliche.
Il pentastellato Alfonso Colucci e la dem Ylenia Zambito, membri della Commissione d’inchiesta, hanno diffuso un comunicato di fuoco sostenendo che la testimonianza dell’ex funzionario del ministero sia stata pubblicata prima del tempo. «Per l’ennesima volta la Commissione Covid viene usata da Buonguerrieri e da Fratelli d’Italia a scopi esclusivamente politici, con il risultato di travisarne gravemente il senso e l’utilità istituzionale, oltre a svilire un’istituzione del rilievo costituzionale di una commissione bicamerale d’inchiesta», dicono Pd e 5 stelle. «Che poi questa violazione sia stata perpetrata, per dire, in tutta fretta, che le decisioni prese dalla politica in quel periodo erano prese per l’appunto dalla politica e non direttamente dagli scienziati è di una banalità sconcertante e conferma che i colleghi di Fratelli d’Italia non hanno compreso nulla di quanto accaduto durante la pandemia».
Come replicano Colucci e Zambito alle parole di Ippolito? Semplice: non replicano. In compenso ripetono la solita solfa: «Come è sempre stato detto, il governo di allora si affidò alla scienza per avere indicazioni da tradurre poi in decisioni che tenessero conto di tutti gli aspetti interessati da quella tragica vicenda, compresi quelli sociali ed economici». Già, ribadiscono che tutte le decisioni sulla pandemia furono prese «seguendo la scienza». Peccato che un illustre rappresentante della suddetta scienza abbia detto di fronte al Parlamento che avvenne esattamente il contrario: i politici chiedevano ma poi agivano per conto proprio, salvo poi cercare di scaricare le responsabilità.
Purtroppo, lo squallido giochino è riuscito. E riesce ancora adesso grazie al silenzio generale.







