Le discussioni, le polemiche, le divisioni che ancora animano l’intera società e il pubblico dibattito in tema di pandemia dimostrano che anche dopo tempo non si sono ancora sopiti gli spiriti banali che praticano il pensiero orizzontale, cioè quel pensiero che divide tutto in tifoserie e fazioni senza scrutare al fondo reale dei problemi.
Mentre una parte del cosiddetto mondo scientifico continua a portare avanti la dicotomizzazione della realtà secondo paradigmi non scientifici, ma ideologici, come sì vax-novax, sì mask-no mask, sì pass-no pass, bisognerebbe che tutti gli altri cominciassero a praticare il pensiero verticale, cioè l’unico in grado di trascendere le tifoserie e le ideologizzazioni per cercare di comprendere davvero la realtà. In tale direzione un profilo altamente problematico è offerto da tutta quella serie di temi giuridici che sono stati centrali nel periodo pandemico e che, non essendo stati ancora risolti, si trascinano come ombre nel tempo presente continuando a produrre perfino effetti negativi e nefasti, come La Verità testimonia quotidianamente con pazienza e coraggio ormai da anni.
I problemi sono molteplici ovviamente, ma a parere di chi scrive i seguenti sono i principali: la chiusura delle chiese da parte dello Stato; la previsione del consenso informato in presenza di obbligo vaccinale; l’emanazione del green pass; lo stravolgimento dell’ordine delle fonti giuridiche e del principio di legalità; il rifiuto di praticare autopsie e di riconoscere gli effetti avversi; l’aver creato competizione e contraddizione tra diritti fondamentali come quello al lavoro e quello alla salute; l’esclusione della responsabilità medica; la compressione dei casi di obiezione di coscienza e di obiezione di scienza; l’istituzionalizzazione diretta o indiretta di strategie dell’esclusione che hanno criminalizzato decine di migliaia di cittadini innocenti; la soppressione di diritti fondamentali come il diritto di critica che dovrebbe sempre essere considerato il fulcro centrale di un contesto democratico.
Non vi è modo di esaminarli in tutta la loro interezza e complessità, ma a titolo esemplificativo si consideri il problema del consenso informato il quale, secondo la costante e consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale, costituisce un diritto fondamentale tanto che la sua eventuale violazione è ritenuta causa legittima per una richiesta autonoma di risarcimento del tutto distinta rispetto al danno alla salute cagionato dall’eventuale errore medico.
Per di più è necessario osservare come nel periodo pandemico, cioè nel tempo più giuridicamente schizofrenico della convulsa storia repubblicana, il senso etico e giuridico del consenso informato è stato profondamente stravolto in quanto si è affiancato all’obbligo vaccinale.
Delle due l’una: o i vaccini, come tutti gli altri ritrovati terapeutici, sono liberamente scelti dai soggetti a cui vengono somministrati e allora il consenso informato è necessario e inderogabile, o sono imposti per obbligo di legge e allora non sono somministrati consensualmente, ma, appunto, ope legis, rendendo formalmente ultroneo e sostanzialmente inutile il consenso informato almeno nelle modalità con cui è stato messo in essere durante la campagna vaccinale pandemica.
In sostanza: ciò che è obbligatorio, specialmente se l’obbligo discende dalla legge, non è consensuale, e, per converso, ciò che è consensuale non può essere obbligatorio.
Il sovvertimento della ratio iuris del consenso informato costituisce una spia accesa sul quadro generale del modo con cui in Italia è stato gravemente frainteso, e quindi leso, il diritto nel periodo pandemico.
Il diritto, infatti, è stato subordinato alle presunte esigenze scientifiche, e queste ultime a loro volta sottomesse alle visioni politiche e ideologiche di chi era chiamato a gestire la res pubblica in periodo pandemico.
Le difficoltà giuridiche irrisolte all’epoca, peraltro, si rendono ancora oggi visibili, poiché chi non ha colto la reale natura del diritto, la sua autonomia epistemica dalle discipline scientifiche, la sua indisponibilità anche in caso di emergenza sanitaria, la sua vocazione a tutelare sempre e comunque la persona prima e al di là delle ragioni sanitarie, belliche, climatiche, energetiche o di qualsivoglia altra specie, continua a dimostrare la propria inossidabile propensione ad equivocare il ruolo, la natura e lo scopo del diritto in se stesso considerato.
Non a caso quanti ancora oggi si adoperano nel sostegno cieco e ideologico delle misure pandemiche, ritenute indiscutibili, sono gli stessi che militano all’interno di quella rivolta antropologica in corso da decenni contro l’umano e per i quali, in sostanza, non dovrebbe essere ammessa la possibilità di rifiutare un vaccino non sufficientemente sperimentato, ma invece dovrebbe essere concessa la possibilità di chiedere il suicidio medicalmente assistito.
Una duplice distorsione della legge, insomma, che rivela peraltro le drammatiche incoerenze logiche di chi non ha adeguatamente compreso cosa sia in realtà la ragione in se stessa considerata e quella giuridica in particolare.
di Aldo Rocco Vitale, Filosofia del Diritto Università Europea di Roma
La recente sentenza n. 115/2025 della Corte costituzionale costituisce l’ennesima manifestazione di un progressivo scollamento dell’ordinamento giuridico positivo dai principi supremi dell’ordine naturale, compromettendo strutturalmente l’architettura costituzionale repubblicana e sovvertendo, con un gesto eminentemente ideologico, la nozione stessa di paternità. Sostenere che una «madre intenzionale», priva di legame biologico e maschile, sia titolare del diritto al congedo obbligatorio di paternità, equivale a trasformare una realtà naturale, fondata sulla differenza sessuata e sulla procreazione, in un costrutto ideologico, fungibile e privo di ancoraggio ontologico. In ciò si consuma una frattura epistemologica profonda: il diritto positivo viene sciolto dalla realtà e, mediante un artificio volontaristico, assume una funzione creatrice che non gli compete, riducendo la genitorialità a un atto di volontà soggettiva, svincolato da ogni radicamento naturale. La pronuncia travisa radicalmente l’articolo 3 della Costituzione, piegandolo alla logica dell’egualitarismo formale assoluto, che non riconosce più la giustizia come adeguamento all’ordine delle cose, ma la interpreta come livellamento indiscriminato di situazioni ontologicamente diseguali. Trattare in maniera identica la madre biologica, la madre intenzionale e il padre naturale significa ignorare la struttura relazionale dell’essere umano e disconoscere il valore fondativo della differenza sessuata nella genesi della persona e nella responsabilità genitoriale. Il diritto alla paternità non può essere svincolato dalla realtà dell’essere padre: ciò che la Corte denomina «genitore intenzionale» è una figura giuridicamente artificiale, priva di corrispondenza antropologica, e la sua equiparazione alla paternità maschile costituisce un abuso ermeneutico e normativo.
Sul piano costituzionale, la Corte contraddice il principio di legalità sostanziale e il rispetto della riserva di legge in materia di diritti fondamentali. Essa, infatti, non si limita a dichiarare l’illegittimità parziale di una disposizione legislativa, ma introduce surrettiziamente un nuovo soggetto titolare di diritti, operando una torsione interpretativa della legge ordinaria (d.lgs. n. 151/2001) che si traduce, di fatto, in un’attività di normazione primaria mascherata. L’effetto è quello di un’impropria sostituzione del legislatore da parte dell’organo di garanzia, il quale non si limita, come già accaduto, a custodire la Costituzione, ma la rilegge alla luce di un ethos postmoderno dominato dal primato della volontà soggettiva e della fluidità identitaria.
Il richiamo a strumenti internazionali e sovranazionali non attenua, ma anzi aggrava, la disarticolazione dell’ordine giuridico interno, in quanto esso viene invocato non per garantire una tutela conforme al bene oggettivo del minore, ma per giustificare un’omologazione culturale ai modelli assiologici del post-costituzionalismo. In tal senso, l’affermazione secondo cui «l’orientamento sessuale non incide di per sé sulla idoneità all’assunzione di responsabilità genitoriale» disconosce radicalmente la struttura antropologica dell’essere umano, secondo cui la generazione della vita e la crescita armonica del minore presuppongono la presenza simbolica e reale della complementarietà sessuale, principio fondante del diritto naturale e della stessa architettura costituzionale italiana, che riconosce nella famiglia fondata sul matrimonio (art. 29 Cost.) il luogo naturale della procreazione e dell’educazione. Infine, l’identificazione della madre intenzionale come figura «equiparabile» alla paternità costituisce un cortocircuito semantico e filosofico, pericoloso per la coerenza sistematica dell’intero ordinamento. Equiparare una funzione paterna a una madre intenzionale, il cui unico titolo è la volontà di genitorialità, significa dissolvere ogni distinzione di ruoli, funzioni e riferimenti, consegnando l’infanzia all’arbitrio dell’adulto e riducendo il diritto al rango di strumento di legittimazione del desiderio. In questo scenario, il giudice delle leggi abdica al suo ruolo di garante dell’ordine costituzionale fondato sulla realtà della persona umana, divenendo complice di un progetto ideologico che, sotto il manto dell’inclusione, mina alla radice l’oggettività del diritto, la funzione ordinante della legge naturale e la stessa intelligibilità della differenza sessuata come fondamento del vivere civile. È la vittoria dell’ideologia sulla ragione, del costruttivismo sulla natura, del potere sulla verità.
(Università Europea di Roma)
(Ssml/Istituto di grado
universitario «san Domenico»
di Roma)
Nel dibattito odierno sulla liceità costituzionale della morte medicalmente assistita, il contributo del professor Andrea Pugiotto dell’Università degli Studi di Ferrara, pubblicato sul quotidiano L’Unità l’8 luglio, si propone quale manifesto culturale e giuridico dell’autodeterminazione assoluta, declinata in chiave eutanasica. Tale prospettiva, tuttavia, merita un confronto serrato non solo sul piano della legittimità costituzionale, ma anche sotto il profilo del fondamento antropologico e giuridico dell’ordinamento italiano. Proprio l’assunto centrale del professore, che peraltro è un insigne e autorevolissimo costituzionalista, secondo cui la legge italiana sulla fine vita rifletterebbe una «ideologia dei fascisti» oggi da superare, esige una risposta non emotiva né ideologica, bensì fondata sulla «ratio» dell’ordinamento giuridico vigente, sulla sua coerenza sistemica e sulla tradizione costituzionale che lo anima.
La Costituzione vigente, pur nella sua dimensione «anfibologica», non conosce un diritto soggettivo alla morte procurata. L’art. 2, nel riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo, include il diritto alla vita come fondamento imprescindibile di ogni altro diritto. Tale diritto non può essere inteso come pura disponibilità soggettiva o come mero bene a disposizione dell’individuo. La vita, nel dettato costituzionale, non è meramente «mia», ma è anche elemento relazionale, inscritto nel tessuto comunitario e orientato alla realizzazione del bene comune. La concezione iperindividualistica sottesa alla retorica del «corpo è mio» omette volutamente il legame tra persona e ordine costituzionale, tra libertà e responsabilità. L’argomento di Pugiotto, centrato sulla contrapposizione tra autodeterminazione e Codice Rocco, trascura il fatto che la norma incriminatrice dell’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) è stata confermata come compatibile con la Costituzione dalla stessa Corte costituzionale (cfr. la sent. n. 50/2022), la quale ha riconosciuto un nucleo non disponibile della vita umana, sottratto anche al consenso individuale. In particolare, nella sentenza n. 135/2024, il giudice delle leggi precisa che «se è vero che ogni scelta di legalizzazione di pratiche di suicidio assistito o di eutanasia amplia gli spazi riconosciuti all’autonomia della persona nel decidere liberamente sul proprio destino, essa crea, al tempo stesso, rischi che l’ordinamento ha il dovere di evitare, in adempimento del dovere di tutela della vita umana che, esso pure, discende dall’art. 2 Cost.».
Sostenere, allora, che la legge penale sia «dei fascisti» non è solo una semplificazione storicamente scorretta, bensì implica una delegittimazione dell’intero impianto giuspenalistico costruito dopo la Costituzione. La permanenza nel Codice penale del 1930 di alcune norme del periodo pre-repubblicano non ne comporta automaticamente la loro incompatibilità costituzionale: esse devono essere giudicate secondo la loro attuale «ratio» e la loro funzione nel sistema normativo. L’art. 579 c.p. tutela la vita anche contro il consenso, proprio perché riconosce un valore intrinseco a tale bene, sottratto a logiche utilitaristiche o di efficienza terapeutica. Sostenere il contrario significherebbe accettare un relativismo giuridico radicale, in cui la legge non è più espressione di un ordine razionale e comune, ma strumento della volontà mutevole della maggioranza contingente. Il richiamo a situazioni di sofferenza esistenziale, come quelle di Dj Fabo, non può costituire il fondamento di una rivoluzione normativa. La pietà non è un criterio di validazione giuridica e non può sostituire il principio di indisponibilità della vita. Il compito del diritto, specialmente penale, non è quello di facilitare la morte, ma di tutelare la vita anche quando essa appare gravosa.
L’alternativa all’accanimento terapeutico non è l’aiuto al suicidio, ma l’attivazione di cure palliative efficaci e di una medicina che accompagni e non sopprima. Il diritto alla non sofferenza non coincide con il diritto alla morte, e confondere questi due orizzonti significa travisare il fondamento stesso del diritto costituzionale. Né può essere condivisa la critica secondo cui si stia imponendo «una etica maggioritaria» contraria all’autodeterminazione. Il diritto non è il luogo dell’etica individuale, ma della normazione generale orientata alla giustizia. La pretesa di trasformare ogni volontà individuale in diritto soggettivo esigibile è la negazione della dimensione oggettiva del bene comune e dell’ordinamento giuridico come struttura di limiti e di garanzie. Il rischio non è che una etica maggioritaria si imponga, ma che la politica, inseguendo mode culturali, dissolva il diritto in una molteplicità di desideri confliggenti. È altresì infondata l’idea, avanzata da Pugiotto, secondo cui la Consulta sarebbe oggi chiamata a «rimediare» alla logica del divieto assoluto, ponendosi in rottura rispetto alla propria giurisprudenza.
Al contrario, l’intervento della Corte deve essere ispirato al rispetto della gradualità normativa e del principio di legalità in materia penale. L’idea che si possa «forzare» la Costituzione per rispondere a singoli casi emotivamente forti è, in fondo, una forma di populismo giuridico che contraddice la funzione di garanzia propria della Corte. Non si tratta di una presunta contrapposizione tra volontà individuale e diritto penale «autoritario», ma del riconoscimento che la libertà deve articolarsi entro i limiti della natura umana e della sua dignità intrinseca, non riducibile a pura funzionalità biologica o a mera qualità della vita.
Infine, non si può ignorare che ogni apertura al suicidio medicalmente assistito, sia pure nei casi più tragici, finisce per ridefinire la relazione medico-paziente, trasformando il curante in un potenziale esecutore della volontà di morte. La neutralizzazione del ruolo terapeutico del medico è una deriva già osservata in altri ordinamenti e costituisce un pericolo sistemico per il paradigma ippocratico su cui si fonda la medicina occidentale. La Consulta, se vuole rimanere fedele al suo compito istituzionale e alla struttura della Costituzione del 1948, non può e non deve cedere all’emozione né alla pressione dell’opinione pubblica. Essa è chiamata a custodire un ordine razionale e giusto, fondato sulla non disponibilità della vita, sull’unità della persona umana e sul primato della legge morale naturale, riconoscibile dalla retta ragione. L’autodeterminazione, se svincolata da ogni riferimento alla verità e alla natura, non emancipa l’uomo, ma lo espone al dominio dell’arbitrio e dell’indifferenza. In questa prospettiva, non è la legge a dover essere riformata, ma la cultura ad essere ricondotta al senso del limite, della dipendenza e del dovere di cura. È in questo orizzonte, non in quello della morte a domanda, che si gioca il futuro del diritto e della civiltà costituzionale.
Aldo Rocco Vitale (Universitá Europea di Roma)
Daniele Trabucco (SSML/Istituto di grado universitario «San Domenico» di Roma)




