2025-07-10
Il «diritto alla morte» viola la Costituzione
Il reato di omicidio del consenziente è stato riconosciuto compatibile con la Carta dalla Consulta. La quale, ora, non deve cedere all’opinione pubblica. La «pietà», infatti, non è un criterio giuridico e non può sostituire il principio di indisponibilità dell’esistenzaNel dibattito odierno sulla liceità costituzionale della morte medicalmente assistita, il contributo del professor Andrea Pugiotto dell’Università degli Studi di Ferrara, pubblicato sul quotidiano L’Unità l’8 luglio, si propone quale manifesto culturale e giuridico dell’autodeterminazione assoluta, declinata in chiave eutanasica. Tale prospettiva, tuttavia, merita un confronto serrato non solo sul piano della legittimità costituzionale, ma anche sotto il profilo del fondamento antropologico e giuridico dell’ordinamento italiano. Proprio l’assunto centrale del professore, che peraltro è un insigne e autorevolissimo costituzionalista, secondo cui la legge italiana sulla fine vita rifletterebbe una «ideologia dei fascisti» oggi da superare, esige una risposta non emotiva né ideologica, bensì fondata sulla «ratio» dell’ordinamento giuridico vigente, sulla sua coerenza sistemica e sulla tradizione costituzionale che lo anima. La Costituzione vigente, pur nella sua dimensione «anfibologica», non conosce un diritto soggettivo alla morte procurata. L’art. 2, nel riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo, include il diritto alla vita come fondamento imprescindibile di ogni altro diritto. Tale diritto non può essere inteso come pura disponibilità soggettiva o come mero bene a disposizione dell’individuo. La vita, nel dettato costituzionale, non è meramente «mia», ma è anche elemento relazionale, inscritto nel tessuto comunitario e orientato alla realizzazione del bene comune. La concezione iperindividualistica sottesa alla retorica del «corpo è mio» omette volutamente il legame tra persona e ordine costituzionale, tra libertà e responsabilità. L’argomento di Pugiotto, centrato sulla contrapposizione tra autodeterminazione e Codice Rocco, trascura il fatto che la norma incriminatrice dell’omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) è stata confermata come compatibile con la Costituzione dalla stessa Corte costituzionale (cfr. la sent. n. 50/2022), la quale ha riconosciuto un nucleo non disponibile della vita umana, sottratto anche al consenso individuale. In particolare, nella sentenza n. 135/2024, il giudice delle leggi precisa che «se è vero che ogni scelta di legalizzazione di pratiche di suicidio assistito o di eutanasia amplia gli spazi riconosciuti all’autonomia della persona nel decidere liberamente sul proprio destino, essa crea, al tempo stesso, rischi che l’ordinamento ha il dovere di evitare, in adempimento del dovere di tutela della vita umana che, esso pure, discende dall’art. 2 Cost.». Sostenere, allora, che la legge penale sia «dei fascisti» non è solo una semplificazione storicamente scorretta, bensì implica una delegittimazione dell’intero impianto giuspenalistico costruito dopo la Costituzione. La permanenza nel Codice penale del 1930 di alcune norme del periodo pre-repubblicano non ne comporta automaticamente la loro incompatibilità costituzionale: esse devono essere giudicate secondo la loro attuale «ratio» e la loro funzione nel sistema normativo. L’art. 579 c.p. tutela la vita anche contro il consenso, proprio perché riconosce un valore intrinseco a tale bene, sottratto a logiche utilitaristiche o di efficienza terapeutica. Sostenere il contrario significherebbe accettare un relativismo giuridico radicale, in cui la legge non è più espressione di un ordine razionale e comune, ma strumento della volontà mutevole della maggioranza contingente. Il richiamo a situazioni di sofferenza esistenziale, come quelle di Dj Fabo, non può costituire il fondamento di una rivoluzione normativa. La pietà non è un criterio di validazione giuridica e non può sostituire il principio di indisponibilità della vita. Il compito del diritto, specialmente penale, non è quello di facilitare la morte, ma di tutelare la vita anche quando essa appare gravosa. L’alternativa all’accanimento terapeutico non è l’aiuto al suicidio, ma l’attivazione di cure palliative efficaci e di una medicina che accompagni e non sopprima. Il diritto alla non sofferenza non coincide con il diritto alla morte, e confondere questi due orizzonti significa travisare il fondamento stesso del diritto costituzionale. Né può essere condivisa la critica secondo cui si stia imponendo «una etica maggioritaria» contraria all’autodeterminazione. Il diritto non è il luogo dell’etica individuale, ma della normazione generale orientata alla giustizia. La pretesa di trasformare ogni volontà individuale in diritto soggettivo esigibile è la negazione della dimensione oggettiva del bene comune e dell’ordinamento giuridico come struttura di limiti e di garanzie. Il rischio non è che una etica maggioritaria si imponga, ma che la politica, inseguendo mode culturali, dissolva il diritto in una molteplicità di desideri confliggenti. È altresì infondata l’idea, avanzata da Pugiotto, secondo cui la Consulta sarebbe oggi chiamata a «rimediare» alla logica del divieto assoluto, ponendosi in rottura rispetto alla propria giurisprudenza. Al contrario, l’intervento della Corte deve essere ispirato al rispetto della gradualità normativa e del principio di legalità in materia penale. L’idea che si possa «forzare» la Costituzione per rispondere a singoli casi emotivamente forti è, in fondo, una forma di populismo giuridico che contraddice la funzione di garanzia propria della Corte. Non si tratta di una presunta contrapposizione tra volontà individuale e diritto penale «autoritario», ma del riconoscimento che la libertà deve articolarsi entro i limiti della natura umana e della sua dignità intrinseca, non riducibile a pura funzionalità biologica o a mera qualità della vita. Infine, non si può ignorare che ogni apertura al suicidio medicalmente assistito, sia pure nei casi più tragici, finisce per ridefinire la relazione medico-paziente, trasformando il curante in un potenziale esecutore della volontà di morte. La neutralizzazione del ruolo terapeutico del medico è una deriva già osservata in altri ordinamenti e costituisce un pericolo sistemico per il paradigma ippocratico su cui si fonda la medicina occidentale. La Consulta, se vuole rimanere fedele al suo compito istituzionale e alla struttura della Costituzione del 1948, non può e non deve cedere all’emozione né alla pressione dell’opinione pubblica. Essa è chiamata a custodire un ordine razionale e giusto, fondato sulla non disponibilità della vita, sull’unità della persona umana e sul primato della legge morale naturale, riconoscibile dalla retta ragione. L’autodeterminazione, se svincolata da ogni riferimento alla verità e alla natura, non emancipa l’uomo, ma lo espone al dominio dell’arbitrio e dell’indifferenza. In questa prospettiva, non è la legge a dover essere riformata, ma la cultura ad essere ricondotta al senso del limite, della dipendenza e del dovere di cura. È in questo orizzonte, non in quello della morte a domanda, che si gioca il futuro del diritto e della civiltà costituzionale.Aldo Rocco Vitale (Universitá Europea di Roma) Daniele Trabucco (SSML/Istituto di grado universitario «San Domenico» di Roma)
Edoardo Raspelli (Getty Images)
Nel riquadro: Mauro Micillo, responsabile Divisione IMI Corporate & Investment Banking di Intesa Sanpaolo (Getty Images)
L'ex procuratore di Pavia Mario Venditti (Ansa)