
Il direttore creativo di Drumohr Massimiliano Giornetti: «Coniugo l’heritage britannico con la leggerezza italiana. Ridarò nobiltà alle fibre banalizzate».Nato a Carrara, cresciuto tra la materia viva del marmo e l’armonia fiorentina del Rinascimento, Massimiliano Giornetti ha costruito la propria carriera intorno al concetto di equilibrio: tra artigianalità e innovazione, eredità e contemporaneità. Dopo aver guidato le collezioni di Salvatore Ferragamo e Shanghai Tang, oggi è direttore creativo di Drumohr, uno dei marchi più antichi della maglieria inglese, divenuto negli anni simbolo di una raffinata eleganza internazionale. Lo incontriamo per parlare di cultura, formazione e del nuovo modo di intendere il tempo, quello della moda e quello della bellezza.Partiamo dalle radici. Carrara, poi Firenze e una formazione che passa dalle lingue alla moda: quanto hanno inciso nella sua visione creativa?«Tantissimo. Carrara è una città dove la creatività è letteralmente scolpita nella pietra. Crescere circondato dai laboratori di scultura e poi studiare a Firenze, dove la bellezza è una presenza quotidiana, mi ha educato all’armonia delle forme. Mio padre, invece, era un orafo di Arezzo: vederlo trasformare l’oro grezzo in un gioiello mi ha insegnato il valore della costruzione, della forma che prende vita. Tutto questo si è naturalmente riflesso nel mio modo di pensare la moda».Da bambino non ha seguito la strada dell’oreficeria, ma quella del design e della cultura inglese. Come è nato questo legame con il mondo britannico?«Fin da ragazzo ho subito il fascino della cultura anglosassone. Ho sempre sognato Londra e, in un certo senso, è curioso che oggi lavori per un marchio nato in Scozia nel 1770. Drumohr è entrato nella mia vita molto prima di diventare il mio lavoro: la mia prima maglia “di valore” era proprio di Drumohr, comprata a Forte dei Marmi con i miei genitori».C’è, quindi, anche una componente emotiva nel suo rapporto con Drumohr. «Sì, assolutamente. Quella maglia è passata da me alle mie nipoti e per me rappresenta il valore della continuità. È un oggetto senza tempo: non segue la logica del consumo, ma quella della memoria. Nella moda di oggi, fatta di accelerazione continua, credo sia un concetto rivoluzionario: creare capi che durano e che si tramandano».Ha lavorato in maison come Ferragamo e Shanghai Tang, realtà molto diverse ma accomunate da un forte legame familiare. Che cosa ti ha colpito di più di quelle esperienze? «Proprio il valore della famiglia. Che fosse Ferragamo, la famiglia Ciocca per Drumohr o i Tang per Shanghai Tang, mi ha sempre affascinato quel senso di identità autentica. Oggi la moda è spesso dominata da grandi gruppi, ma in queste famiglie ho ritrovato il rapporto umano, la continuità dei valori. Non è nostalgia: è la consapevolezza che un marchio ha senso solo se rimane fedele al suo spirito originario».Oltre a dirigere Drumohr, lei è anche direttore di Polimoda. In che modo la scuola e il suo lavoro da designer si influenzano a vicenda? «Sono due mondi che si alimentano a vicenda. Polimoda è un osservatorio straordinario, con studenti provenienti da 74 Paesi: lì vedo nascere nuovi linguaggi e nuove sensibilità. Mi ha colpito il loro modo di intendere la moda come collaborazione, non più come competizione. Hanno riportato al centro l’autenticità, non il successo fine a sé stesso. La scuola per me è anche un laboratorio umano: il sapere si condivide, come nel modello del mentore dell’antica Grecia. È la stessa filosofia che porto in Drumohr, dove l’artigianato incontra la contemporaneità attraverso un dialogo continuo».Lavorare per un marchio come Drumohr significa confrontarsi con un patrimonio storico unico. Come riesce a coniugare l’eredità britannica con la leggerezza italiana? «L’heritage britannico ha un fascino innegabile, ma è rimasto ancorato a una tradizione che oggi non sempre funziona. Non possiamo pensare di proporre Shetland pesanti o flanelle da 450 grammi quando gli inverni sono miti. Drumohr conserva il gusto inglese, ma con una costruzione alleggerita, più confortevole, più italiana. È un dialogo tra due culture del bello».E in questo dialogo, qual è la sua firma?«Direi la capacità di leggere il Dna del brand con sensibilità contemporanea. Ho voluto coniugare la disciplina britannica con un tocco di eccentricità e spontaneità italiana. Penso a figure come Gianni Agnelli, grande cliente di Drumohr: la sua eleganza nasceva dal conoscere la regola per poi romperla con intelligenza. È ciò che cerco di fare anch’io».Drumohr è sinonimo di filati pregiati. Quali sono, oggi, le sfide nella ricerca dei materiali? «La vera sfida è restituire nobiltà a fibre che l’industria ha banalizzato. Il cashmere, ad esempio, lo trovi ovunque, anche a 30 euro. Ma non è più il cashmere di una volta. Voglio riportarlo a un livello di autenticità, la differenza oggi non la fa solo la materia, ma il modo in cui la trasformi: la ricerca, la mano, la costruzione. È lì che si misura la vera eccellenza».E guardando avanti, dove sta andando Drumohr? «Stiamo costruendo una community Drumohr. Il brand è nato come marchio maschile, ma oggi vogliamo raccontare uno stile di vita completo: uomo, donna, accessori e, perché no, anche bambino. Mi affascina l’idea della trasmissione generazionale, di un gusto che si tramanda. Penso anche a una linea homeware: coperte, cuscini, oggetti semplici ma curati, che portino la qualità Drumohr nella quotidianità. Resteremo un marchio di nicchia, certo, ma con un’identità solida, coerente e aperta ai tempi».
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Mauro Micillo: «Le iniziative avviate dall’amministrazione americana in ambiti strategici come infrastrutture e intelligenza artificiale offrono nuove opportunità di investimento». Un ponte anche per il made in Italy.
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All’ex procuratore devono essere restituiti cellulari, tablet, hard disk, computer: non le vecchie agende datate 2017 e 2023. E sulla Squadretta spunta una «famiglia Sempio».
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