2020-01-06
No. L'impeachment non c'entra nulla con l'uccisione di Soleimani
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Molti giornali e commentatori stanno sostenendo che Donald Trump abbia ordinato l'uccisione del generale iraniano, Qasem Soleimani, per mero opportunismo legato alla politica interna. In particolare, si sostiene che il presidente americano avrebbe preso questa decisione per trarne un vantaggio elettorale e - forse soprattutto - per contrastare più efficacemente i democratici sulla questione dell'impeachment.Secondo una certa vulgata, Trump - sul fronte internazionale - agirebbe o per improvvisazione o per tornaconto personale. Ma le cose stanno veramente così? A ben vedere, forse, la situazione appare un po' più complicata.È senz'altro vero che, molto spesso, i presidenti statunitensi usino la politica estera per rispondere a problemi di politica interna. Il punto è che, nel caso specifico di Soleimani, questa interpretazione è priva di consistenza. In primo luogo, non regge la tesi secondo cui Trump abbia agito per guadagnare consenso elettorale. Se guardiamo la questione nel dettaglio, capiremo che un'azione come l'uccisione del generale iraniano costituisca, per l'inquilino della Casa Bianca, più un rischio che un'opportunità nella battaglia per la rielezione. E questo essenzialmente per due motivi. Innanzitutto l'eliminazione di Soleimani ha rinfocolato le tensioni con l'Iran, aprendo alla concreta possibilità - se non proprio di una guerra - almeno di uno stato prolungato di conflittualità: uno scenario che potrebbe rivelarsi problematico per un presidente che, nel 2016, ha vinto le elezioni grazie (anche) alla promessa di porre un freno alle cosiddette guerre senza fine che gli Stati Uniti avevano disseminato in Medio Oriente. Tra l'altro, l'affaire Soleimani ha spinto l'amministrazione americana ad inviare altri tremila soldati nell'area, quando Trump - è noto - si è sempre detto favorevole a una linea di disimpegno militare da scacchieri, come la Siria e l'Afghanistan. L'altro aspetto da considerare riguarda poi la figura stessa di Soleimani: una figura mediaticamente non certo nota al grande pubblico, come potevano essere per esempio Osama bin Laden o Al Baghdadi. È difficile ritenere che l'elettore americano si interessasse granché al generale iraniano. Ed è altrettanto arduo credere che voterà a novembre in funzione della sua eliminazione. Da tutto questo, si comprende come - elettoralmente parlando - Trump rischi più di rimetterci che guadagnarci dall'uccisione di Soleimani.In secondo luogo, la stessa tesi secondo cui il presidente americano avrebbe agito per contrastare l'impeachment appare abbastanza fuori luogo. Parliamoci chiaro: finora Trump non ha riscontrato troppe difficoltà nella questione della messa in stato d'accusa. Non solo la strategia dei democratici si è mostrata abbastanza farraginosa, in quanto basata su testimonianze ed evidenze oggettivamente lacunose. Ma gran parte del Partito Repubblicano si è mostrata compatta nel difendere il presidente: non solo alla Camera ma anche al Senato, dove – presumibilmente a gennaio – dovrebbe iniziare il processo vero e proprio. Da mesi, Trump ha già guadagnato il sostegno della maggioranza dei senatori repubblicani: anche di quegli stessi falchi con cui, in politica estera, ha spesso intrattenuto un rapporto problematico. Lindsey Graham, per esempio, si è nettamente schierato sull'impeachment dalla parte di Trump da molto tempo: il presidente non aveva quindi necessità di uccidere Soleimani per conquistare il suo appoggio durante il processo. Per avvalorare la loro tesi, alcuni commentatori sostengono che i presidenti sotto impeachment o a rischio di impeachment ricorrano alla politica estera come strumento di distrazione. Un elemento che può (forse) essere vero per Bill Clinton, il quale bombardò Baghdad dal 16 al 19 dicembre del 1998: negli stessi giorni, cioè, in cui la Camera votava per metterlo in stato d'accusa. Dimostrare una cosa del genere con Richard Nixon è invece già molto più difficile, visto che i fondamenti della sua azione internazionale risalivano alla campagna elettorale del 1968: quattro anni prima, cioè, che avessero luogo i fatti del Watergate. Qualcuno cita addirittura i bombardamenti della Cambogia: bombardamenti che iniziarono però nel marzo del 1969 e terminarono nell'agosto del 1973: ricordiamo che lo scandalo Watergate avrebbe iniziato a faresi pressante per Nixon soltanto nell'ottobre del 1973, quando il presidente licenziò il procuratore speciale Archibald Cox, innescando così quella serie di eventi che lo avrebbe portato alle dimissioni l'estate successiva. Dire quindi che i bombardamenti della Cambogia siano stati un'arma di distrazione per la politica interna, risulta sostanzialmente infondato.Alla luce di tutto questo, per quale ragione allora Trump avrebbe ordinato l'uccisione di Soleimani? Iniziamo col dire che l'assalto di dimostranti filoiraniani all'ambasciata americana di Baghdad martedì scorso abbia rappresentato una svolta fondamentale in questa intricata vicenda. Al di là della salvaguardia dei cittadini statunitensi in loco, la questione ha sin da subito assunto un risvolto potentemente simbolico. Trump ha temuto il ripetersi di eventi drammatici della storia americana recente: la crisi degli ostaggi in Iran del 1979 e l'attacco terroristico a Bengasi nel 2012. Un disastro di tali proporzioni non avrebbe costituito soltanto un ovvio smacco alla persona del presidente ma anche un pericolosissimo segnale di debolezza militare e geopolitica a livello internazionale. Tollerare passivamente una situazione simile sarebbe stato come certificare, tra l'altro, l'indebolimento americano in un territorio - l'Iraq - in cui gli Stati Uniti si fronteggiano da tempo con l'Iran, in una serrata competizione per l'accrescimento della rispettiva influenza geopolitica e militare. In questo senso, Soleimani costituiva una figura chiave, visto il suo coinvolgimento nell'organizzazione dei gruppi paramilitari sciiti iracheni filoiraniani e dello stesso assalto all'ambasciata americana di Baghdad. In un quadro più ampio, inoltre, l'eliminazione del generale ha avuto un suo senso strategico: decapitare un pezzo importante della classe dirigente iraniana. Non dimentichiamo d'altronde che Soleimani pare nutrisse alcune ambizioni in vista delle presidenziali del 2021.Certo: il tempo ci dirà quale tipo di orientamento Trump vorrà conferire a questa uccisione. Cederà ai falchi più aggressivi e avvierà una guerra? Oppure cercherà di aumentare la pressione per costringere Teheran a sedere al tavolo delle trattative? È probabile che il presidente auspichi questa seconda ipotesi, visto che - negli scorsi giorni - ha dichiarato di non volere un conflitto né un cambio di regime in Iran. Molto dipenderà tuttavia da come si svolgeranno gli eventi nelle prossime settimane e – sulla carta – ancora tutto è possibile. Quel che è certo è che - criticabile o meno - Trump non abbia ordinato l'uccisione di Soleimani per tornaconto personale. Perché, come abbiamo visto, questa scelta getta più di un rischio sulle possibilità della sua rielezione. No, per quanto la sua decisione possa suscitare sostegno o riprovazione, Trump non ha agito da candidato. Ma da comandante in capo. E se è vero che adesso i democratici lo stanno criticando per non aver chiesto l'autorizzazione preventiva del Congresso, è altrettanto vero che Barack Obama con l'intervento militare in Libia nel 2011 fece esattamente lo stesso. Così: giusto per ricordarlo.