True
2021-11-08
Lavoro? No grazie, voglio vivere
iStock
«Mollo tutto e cambio vita». In un Paese in cui la disoccupazione è al 9,2%, come certificato dall'Istat nelle stime di settembre, e quella giovanile al 29,8% (in salita di 1,8 punti), sta emergendo un'anomalia, un fenomeno che stride con questi numeri: l'aumento delle dimissioni. C'è un esercito di lavoratori che per diversi motivi lascia il posto fisso, magari quello conquistato con mille sacrifici, che ha consentito l'acquisto della casa e di formare una famiglia. Questa ondata di addii alla professione di prima, per andare a fare altro o addirittura a vivere altrove, è stata rilevata inizialmente negli Stati Uniti dove è stata coniata l'espressione «The great resignation». Negli Usa il tasso di chi rinuncia al posto, il peso cioè delle dimissioni sul totale degli occupati, è salito quest'anno del 2,5%. Ma anche l'Italia sorprende con un incremento del 2,1%, stando ai dati del ministero del Lavoro relativi al secondo trimestre di quest'anno sull'andamento delle attivazioni e cessazioni di contratti.
Il fenomeno è stato studiato da Francesco Armillei, ricercatore alla London School of economics e socio del think tank Tortuga. Tra aprile e giugno scorsi ci sono state 484.000 dimissioni su un totale di 2,5 milioni di contratti cessati. «L'aumento del numero di coloro che hanno lasciato il posto rispetto al trimestre precedente è del 37%. Ma la crescita è addirittura dell'85% se si fa il confronto con il secondo trimestre del 2020. Paragonato invece al 2019 c'è stato un balzo del 10%. Questo vuol dire che 1 contratto su 5 si è chiuso con le dimissioni del dipendente», commenta Armillei.
A prendere questa decisione nel trimestre aprile-giugno sono stati molti più uomini (292.000) che donne (192.000). «Bisogna capire quanto durerà il trend, se è una fiammata temporanea e poi si tornerà a livelli normali, o invece se l'aumento resta a livelli alti. Il mercato del lavoro sta vivendo una fase di scongelamento dopo il Covid che è stato caratterizzato dal blocco dei licenziamenti e dall'uso massiccio di cassa integrazione», dice il ricercatore sottolineando che non è ancora possibile individuare un'unica causa dell'ondata di dimissioni. «Potrebbero essere state già programmate due anni fa e bloccate dalla pandemia», ipotizza Armillei, «ma non è escluso che la lunga permanenza a casa con le restrizioni abbia fatto scoprire una nuova dimensione di vita dove le relazioni familiari e il tempo libero hanno più importanza e il lavoro smette di avere un ruolo centrale. Inoltre il quotidiano bollettino dei decessi per il virus ha diffuso la consapevolezza che la vita può cambiare in un istante e quindi bisogna godere dei piaceri che offre, dando più attenzione alla qualità del lavoro».
Armillei osserva che anche lo smart working può aver contribuito a far esplodere il desiderio di cambiare posto di lavoro: «In numerose situazioni il lavoro da remoto ha eliminato i confini tra i vari ambiti dell'esistenza, così l'ansia da prestazione è entrata con ancora più pervasività nella vita di milioni di persone. I casi di burnout, di esaurimento da super lavoro, si sono moltiplicati durante la pandemia. Tutto questo può aver contribuito a far maturare, soprattutto tra i giovani, la voglia di un impiego in grado di garantire una migliore qualità della vita e più tempo libero».
Le dimissioni hanno interessato tutti i settori, anche se secondo Armillei sono più frequenti nel Nord, dove il mercato del lavoro offre maggiori opportunità. Alcuni settori sono entrati in sofferenza. Solo ad agosto il 7% dei lavoratori dell'ospitalità e della ristorazione ha lasciato l'impiego in cerca di nuove opportunità. Secondo la Fipe possono aver influito le chiusure che hanno creato la percezione di un comparto fragile, incapace di offrire la certezza del posto fisso. Ma può avere avuto un peso anche la riscoperta di un tipo di vita più tranquilla. Dopo la lunga permanenza a casa, tornare a un impiego che impone la presenza nei giorni festivi e orari serali è parso a molti come un sacrificio non più sopportabile. Chi ha potuto, ha scelto aziende dove non bisogna lavorare i fine settimana. La flessibilità dell'orario e la salvaguardia del tempo libero sono diventate irrinunciabili.
Pure il settore metalmeccanico, solitamente più ingessato, è stato scosso dalle dimissioni. I sindacati hanno rilevato che soprattutto i giovani specializzati non sono più disposti ad accettare qualsiasi mansione in nome dello stipendio sicuro. Così scelgono aziende che offrono condizioni di maggiore flessibilità nell'orario e prospettive di attività gratificanti. Soddisfazione nel lavoro e più spazi per il privato sono diventate due priorità. Questo cambiamento così repentino ha colto inaspettate le imprese. Il prossimo passo dovrà essere una tipologia di contratti che tenga conto delle nuove esigenze dei lavoratori.
«I giovani non sono più disposti a tutto per avere uno stipendio»
«Non sono più disposti ad accettare tutto pur di lavorare. È questo il fenomeno che si diffonde soprattutto tra i giovani. L'elemento discriminante per accettare un contratto, oltre al salario che mantiene la sua importanza, è la flessibilità dell'orario. Tanti lasciano posizioni basate su uno schema di lavoro rigido, mettendo in difficoltà le imprese che risentono della mancanza di personale e capiscono che devono modificare i ritmi produttivi». Roberto Benaglia, segretario generale della Fim Cisl, dice che il fenomeno dell'aumento delle dimissioni sta interessando anche il settore metalmeccanico: «Emerge una tendenza che porta le persone a cercare un lavoro più adatto».
Cosa intende per lavoro «più adatto»?
«Due anni di pandemia hanno cambiato i ritmi della vita e l'approccio con il lavoro. Si cercano attività che non siano totalizzanti ma lascino spazi al privato. Percepiamo, soprattutto tra i giovani, il desiderio di non fermarsi alla prima occupazione ma di trovare altre opportunità mettendo come priorità la gratificazione personale. Molti vogliono anche lavorare meno per dedicarsi a hobby e passioni».
Che impatto ha questa tendenza sulle imprese?
«Molte attività manifatturiere fanno fatica a trovare manodopera. I lavoratori con professionalità tecniche non sono più disposti ad accettare qualsiasi tipo di contratto. Sempre più aziende ci riferiscono che, nei colloqui di assunzione, i giovani sono interessati soprattutto alle prospettive di crescita e alla flessibilità dell'orario. E sono preferite le aziende che concedono lo smart working».
Servirebbero nuovi tipi di contratti?
«I giovani non sono più disposti a sacrificare tutto per il lavoro, sempre meno gente è disposta a lavorare oltre 40 ore settimanali. È un fenomeno nuovo, eredità della pandemia, che non si può ignorare. Servirebbero contratti in grado di mettere in equilibrio la produttività e la flessibilità. Sono importanti l'orario, il welfare aziendale, la presenza dell'asilo per i figli. Il tempo libero è diventato un tema forte».
Il sindacato come sta affrontando questo cambiamento?
«Stiamo ragionando sui contratti “a menù", cioè la possibilità di lavorare entro schemi di orario che vanno bene all'azienda ma che offrano un margine di libertà di scelta al dipendente».
Nel settore manifatturiero, qual è l'identikit di chi si dimette per cambiare azienda?
«Sono soprattutto giovani, tecnici specializzati, con competenze specifiche. Cercano la qualità nel lavoro, ossia un'attività che li gratifichi e che conceda tempo per il privato. La qualità della vita è al primo posto. Spesso non hanno figli e quindi possono permettersi di tirare la cinghia in attesa di un posto più gratificante, più adatto alle proprie esigenze».
«Si volta pagina per insoddisfazione e avere più tempo»
«Anche io appartengo a quella schiera di lavoratori che durante la pandemia, o subito dopo, si è dimessa perché ha sentito l'esigenza di voltare pagina, di cambiare. Avevo un contratto a tempo indeterminato, quindi la sicurezza, eppure non ero soddisfatta della mia attività, non era ciò che volevo fare. A questo malessere si è aggiunto il peso della mancanza di flessibilità dell'azienda che non concedeva lo smart working per il mio ruolo. Non mi sentivo sicura sul posto di lavoro durante la fase iniziale della pandemia. Ho capito che quello non era il luogo dove volevo passare tutta la mia vita professionale e ho dato un taglio». Alessia Pinto è psicologa del lavoro, esperta nel supporto al ricollocamento professionale e orientamento al lavoro. Dopo una carriera in una società di consulenza e un'esperienza da dipendente, a giugno 2020 ha deciso di lasciare il posto sicuro per avviare un suo progetto, Cambio Verso, e aiutare le persone al cambiamento professionale.
Le persone che vengono da lei come motivano le dimissioni?
«La pandemia ha avuto un impatto psicologico importante. Ci ha fatto riscoprire alcuni valori come quello del tempo da dedicare a noi stessi. Ci ha dato la consapevolezza che la vita può essere messa a repentaglio da un evento esterno. Le persone che si rivolgono a me perché si sono dimesse e cercano un ricollocamento avevano da tempo un'insoddisfazione che la pandemia ha aumentato. La voglia di reagire si è intensificata e i timori di voltare pagina sono diminuiti. La qualità della vita è diventata la discriminante fondamentale nelle scelte professionali».
Questa esigenza la sentono più gli uomini o le donne?
«È uno stato psicologico che non ha genere».
Da quali professioni vengono i dimissionari?
«Sono professionisti che operano in diversi settori e che durante la pandemia si sono guardati attorno perché insoddisfatti e alla ricerca di condizioni migliori. E questo non significa solo uno stipendio migliore ma la possibilità di conciliare meglio l'impegno professionale con la vita privata. Lo smart working per molti ha significato un aumento della pressione lavorativa, più straordinari che restringevano la vita in famiglia. Molti di quanti si rivolgono a me hanno tra le priorità la flessibilità degli orari. La maggior parte di chi lascia un impiego lamenta di non riuscire a gestire il proprio tempo personale. Mi dicono: mi sentivo in gabbia, non ce la facevo più».
Chi si è dimesso e cerca un nuovo lavoro vuol rimanere nello stesso settore o punta a un cambiamento radicale?
«Spesso rimangono nei settori in cui poter sfruttare le proprie competenze, magari puntando a un ruolo di maggiore responsabilità o con flessibilità nell'orario. C'è maggiore consapevolezza che il benessere ci deve essere anche sul lavoro. Non basta più avere un contratto».
Sono frequenti le situazioni di grave malessere sul lavoro?
«Più di quanto si possa immaginare. Ci sono persone che sarebbero disposte a dare dimissioni anche l'indomani se non avessero carichi familiari. I casi di frustrazione e insoddisfazione creano spesso reazioni psicosomatiche, attacchi di panico, ansia, mancanza di sonno, eruzioni cutanee, oltre all'insoddisfazione e alla frustrazione di non sentirsi valorizzati. Tante condizioni di malessere erano latenti e la pandemia le ha fatte esplodere. Il lavoro da remoto ha messo i lavoratori di fronte a una possibile alternativa. Ha fatto capire che si può conciliare vita e occupazione».
Non c'è la paura del salto nel vuoto?
«La maggior parte prima di dare le dimissioni cerca un'alternativa, ma c'è anche chi affronta l'ignoto pur dovendo stringere la cinghia».
A quale età si cambia?
«Per la mia esperienza, la media è dai 35 ai 50 anni».
Le dimissioni sono un fenomeno transitorio o la mobilità aumenterà?
«Ritengo che aumenterà. È scattata una molla che ha portato le persone a interrogarsi su come vivere più serenamente l'ambiente lavorativo e avere più spazi privati. Sento sempre più dire: voglio decidere io quale è il lavoro che fa per me».
«Il Covid e la spinta a rimettersi in gioco»
«In vent'anni di lavoro ho lasciato due posti fissi, prima perché volevo laurearmi e non riuscivo a conciliare il lavoro con lo studio, e successivamente perché dopo tanti anni nello stesso ruolo avevo bisogno di nuovi stimoli». Carlotta Lenoci, 39 anni, è convinta che «mollare un'attività per trovare la propria strada non è un'impresa impossibile e che se lo può permettere anche chi non ha le spalle coperte economicamente. Basta crederci, non cedere alle difficoltà e perseguire l'obiettivo con grinta». Sembra la storia di un «self made man» americano invece siamo in Italia, a Firenze. A 19 anni Carlotta si arruola nell'esercito con l'incarico di conduttore di mezzi pesanti. Nel frattempo studia economia e commercio, «ma conciliare università e lavoro era molto difficile, anche se ero stata inserita in fureria che è stato il mio primo contatto con le risorse umane. Dovevo però raggiungere l'obiettivo della laurea».
Così si dimette per la prima volta portandosi dietro un grande bagaglio di esperienze e di colleghi con cui è rimasta in ottimi rapporti. «Sono entrata in una multinazionale partendo dalla gavetta con uno stage non retribuito trasformato in un contratto di apprendistato e poi a indeterminato. Dopo cinque anni di lavoro senza risparmiarmi, arrivo a occuparmi delle politiche attive del lavoro e divento la referente di 5 regioni. In quel periodo ho scoperto ciò che volevo diventare davvero e ho sentito l'esigenza professionale di raggiungere un ulteriore titolo universitario». Nemmeno la gravidanza è un ostacolo, anzi un'ulteriore fonte di energia. «Lo scorso marzo mi sono laureata in psicologia con il mio bimbo di 3 anni a fare il tifo per me durante la discussione della tesi», racconta: «Il giorno stesso guardandomi allo specchio mi sono detta: o adesso o mai più. Così decido di lasciare il posto fisso che mi aveva consentito di comprare casa e apro la partita Iva. In ufficio qualcuno mi avrà considerato folle, ma io sentivo di poter continuare con la mia crescita personale e professionale».
Quali le ragioni? Non l'ambiente né le persone: «Lavorare in una grande azienda significa talvolta avere ritmi elevati e sacrificare parti della propria vita. Con parenti e amici venuti a mancare da un giorno all'altro per il Covid, ho avuto ancor di più la consapevolezza di volermi rimettere in gioco provando a farcela da sola con una vita di valori e qualità. Avrò forse rinunciato a un percorso di carriera ma sono felicissima così». Voltare pagina richiede una base economica? «Grazie ai contatti professionali generati negli anni ho potuto collaborare con molti professionisti delle risorse umane e molte aziende. Sono partita dal Tfr messo da parte in questi anni, il resto verrà da sé. Faccio consulenza alle imprese formando e gestendo le risorse umane, aiuto chi vuole aprire una startup e chi vuole fare il grande salto nel cambio di vita professionale. Ai giovani dico: non mollate, non vi accontentate di una situazione che non vi soddisfa o del lavoro “fisso". Cambiare si può».
Continua a leggereRiduci
Dagli Usa all'Italia, boom di chi lascia il posto fisso: un contratto su 5 si chiude per le dimissioni dei dipendenti. I neo assunti chiedono maggiore flessibilità. In sofferenza interi settori produttiviIl segretario dei metalmeccanici Cisl: «La pandemia spinge le imprese verso accordi "a menù" in cui la produttività non vada a scapito della vita privata»La psicologa Alessia Pinto : «Non c'è la paura del salto nel vuoto. Lo smart working causa stress e fa aumentare gli impegni in famiglia»Due lauree e altrettanti impieghi abbandonati: «Ora è tutto più precario, non è mai tardi per cambiare»Lo speciale contiene quattro articoli«Mollo tutto e cambio vita». In un Paese in cui la disoccupazione è al 9,2%, come certificato dall'Istat nelle stime di settembre, e quella giovanile al 29,8% (in salita di 1,8 punti), sta emergendo un'anomalia, un fenomeno che stride con questi numeri: l'aumento delle dimissioni. C'è un esercito di lavoratori che per diversi motivi lascia il posto fisso, magari quello conquistato con mille sacrifici, che ha consentito l'acquisto della casa e di formare una famiglia. Questa ondata di addii alla professione di prima, per andare a fare altro o addirittura a vivere altrove, è stata rilevata inizialmente negli Stati Uniti dove è stata coniata l'espressione «The great resignation». Negli Usa il tasso di chi rinuncia al posto, il peso cioè delle dimissioni sul totale degli occupati, è salito quest'anno del 2,5%. Ma anche l'Italia sorprende con un incremento del 2,1%, stando ai dati del ministero del Lavoro relativi al secondo trimestre di quest'anno sull'andamento delle attivazioni e cessazioni di contratti. Il fenomeno è stato studiato da Francesco Armillei, ricercatore alla London School of economics e socio del think tank Tortuga. Tra aprile e giugno scorsi ci sono state 484.000 dimissioni su un totale di 2,5 milioni di contratti cessati. «L'aumento del numero di coloro che hanno lasciato il posto rispetto al trimestre precedente è del 37%. Ma la crescita è addirittura dell'85% se si fa il confronto con il secondo trimestre del 2020. Paragonato invece al 2019 c'è stato un balzo del 10%. Questo vuol dire che 1 contratto su 5 si è chiuso con le dimissioni del dipendente», commenta Armillei. A prendere questa decisione nel trimestre aprile-giugno sono stati molti più uomini (292.000) che donne (192.000). «Bisogna capire quanto durerà il trend, se è una fiammata temporanea e poi si tornerà a livelli normali, o invece se l'aumento resta a livelli alti. Il mercato del lavoro sta vivendo una fase di scongelamento dopo il Covid che è stato caratterizzato dal blocco dei licenziamenti e dall'uso massiccio di cassa integrazione», dice il ricercatore sottolineando che non è ancora possibile individuare un'unica causa dell'ondata di dimissioni. «Potrebbero essere state già programmate due anni fa e bloccate dalla pandemia», ipotizza Armillei, «ma non è escluso che la lunga permanenza a casa con le restrizioni abbia fatto scoprire una nuova dimensione di vita dove le relazioni familiari e il tempo libero hanno più importanza e il lavoro smette di avere un ruolo centrale. Inoltre il quotidiano bollettino dei decessi per il virus ha diffuso la consapevolezza che la vita può cambiare in un istante e quindi bisogna godere dei piaceri che offre, dando più attenzione alla qualità del lavoro».Armillei osserva che anche lo smart working può aver contribuito a far esplodere il desiderio di cambiare posto di lavoro: «In numerose situazioni il lavoro da remoto ha eliminato i confini tra i vari ambiti dell'esistenza, così l'ansia da prestazione è entrata con ancora più pervasività nella vita di milioni di persone. I casi di burnout, di esaurimento da super lavoro, si sono moltiplicati durante la pandemia. Tutto questo può aver contribuito a far maturare, soprattutto tra i giovani, la voglia di un impiego in grado di garantire una migliore qualità della vita e più tempo libero».Le dimissioni hanno interessato tutti i settori, anche se secondo Armillei sono più frequenti nel Nord, dove il mercato del lavoro offre maggiori opportunità. Alcuni settori sono entrati in sofferenza. Solo ad agosto il 7% dei lavoratori dell'ospitalità e della ristorazione ha lasciato l'impiego in cerca di nuove opportunità. Secondo la Fipe possono aver influito le chiusure che hanno creato la percezione di un comparto fragile, incapace di offrire la certezza del posto fisso. Ma può avere avuto un peso anche la riscoperta di un tipo di vita più tranquilla. Dopo la lunga permanenza a casa, tornare a un impiego che impone la presenza nei giorni festivi e orari serali è parso a molti come un sacrificio non più sopportabile. Chi ha potuto, ha scelto aziende dove non bisogna lavorare i fine settimana. La flessibilità dell'orario e la salvaguardia del tempo libero sono diventate irrinunciabili. Pure il settore metalmeccanico, solitamente più ingessato, è stato scosso dalle dimissioni. I sindacati hanno rilevato che soprattutto i giovani specializzati non sono più disposti ad accettare qualsiasi mansione in nome dello stipendio sicuro. Così scelgono aziende che offrono condizioni di maggiore flessibilità nell'orario e prospettive di attività gratificanti. Soddisfazione nel lavoro e più spazi per il privato sono diventate due priorità. Questo cambiamento così repentino ha colto inaspettate le imprese. Il prossimo passo dovrà essere una tipologia di contratti che tenga conto delle nuove esigenze dei lavoratori. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/no-grazie-voglio-vivere-lavoro-2655516096.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-giovani-non-sono-piu-disposti-a-tutto-per-avere-uno-stipendio" data-post-id="2655516096" data-published-at="1636283090" data-use-pagination="False"> «I giovani non sono più disposti a tutto per avere uno stipendio» «Non sono più disposti ad accettare tutto pur di lavorare. È questo il fenomeno che si diffonde soprattutto tra i giovani. L'elemento discriminante per accettare un contratto, oltre al salario che mantiene la sua importanza, è la flessibilità dell'orario. Tanti lasciano posizioni basate su uno schema di lavoro rigido, mettendo in difficoltà le imprese che risentono della mancanza di personale e capiscono che devono modificare i ritmi produttivi». Roberto Benaglia, segretario generale della Fim Cisl, dice che il fenomeno dell'aumento delle dimissioni sta interessando anche il settore metalmeccanico: «Emerge una tendenza che porta le persone a cercare un lavoro più adatto». Cosa intende per lavoro «più adatto»? «Due anni di pandemia hanno cambiato i ritmi della vita e l'approccio con il lavoro. Si cercano attività che non siano totalizzanti ma lascino spazi al privato. Percepiamo, soprattutto tra i giovani, il desiderio di non fermarsi alla prima occupazione ma di trovare altre opportunità mettendo come priorità la gratificazione personale. Molti vogliono anche lavorare meno per dedicarsi a hobby e passioni». Che impatto ha questa tendenza sulle imprese? «Molte attività manifatturiere fanno fatica a trovare manodopera. I lavoratori con professionalità tecniche non sono più disposti ad accettare qualsiasi tipo di contratto. Sempre più aziende ci riferiscono che, nei colloqui di assunzione, i giovani sono interessati soprattutto alle prospettive di crescita e alla flessibilità dell'orario. E sono preferite le aziende che concedono lo smart working». Servirebbero nuovi tipi di contratti? «I giovani non sono più disposti a sacrificare tutto per il lavoro, sempre meno gente è disposta a lavorare oltre 40 ore settimanali. È un fenomeno nuovo, eredità della pandemia, che non si può ignorare. Servirebbero contratti in grado di mettere in equilibrio la produttività e la flessibilità. Sono importanti l'orario, il welfare aziendale, la presenza dell'asilo per i figli. Il tempo libero è diventato un tema forte». Il sindacato come sta affrontando questo cambiamento? «Stiamo ragionando sui contratti “a menù", cioè la possibilità di lavorare entro schemi di orario che vanno bene all'azienda ma che offrano un margine di libertà di scelta al dipendente». Nel settore manifatturiero, qual è l'identikit di chi si dimette per cambiare azienda? «Sono soprattutto giovani, tecnici specializzati, con competenze specifiche. Cercano la qualità nel lavoro, ossia un'attività che li gratifichi e che conceda tempo per il privato. La qualità della vita è al primo posto. Spesso non hanno figli e quindi possono permettersi di tirare la cinghia in attesa di un posto più gratificante, più adatto alle proprie esigenze». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/no-grazie-voglio-vivere-lavoro-2655516096.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="si-volta-pagina-per-insoddisfazione-e-avere-piu-tempo" data-post-id="2655516096" data-published-at="1636283090" data-use-pagination="False"> «Si volta pagina per insoddisfazione e avere più tempo» «Anche io appartengo a quella schiera di lavoratori che durante la pandemia, o subito dopo, si è dimessa perché ha sentito l'esigenza di voltare pagina, di cambiare. Avevo un contratto a tempo indeterminato, quindi la sicurezza, eppure non ero soddisfatta della mia attività, non era ciò che volevo fare. A questo malessere si è aggiunto il peso della mancanza di flessibilità dell'azienda che non concedeva lo smart working per il mio ruolo. Non mi sentivo sicura sul posto di lavoro durante la fase iniziale della pandemia. Ho capito che quello non era il luogo dove volevo passare tutta la mia vita professionale e ho dato un taglio». Alessia Pinto è psicologa del lavoro, esperta nel supporto al ricollocamento professionale e orientamento al lavoro. Dopo una carriera in una società di consulenza e un'esperienza da dipendente, a giugno 2020 ha deciso di lasciare il posto sicuro per avviare un suo progetto, Cambio Verso, e aiutare le persone al cambiamento professionale. Le persone che vengono da lei come motivano le dimissioni? «La pandemia ha avuto un impatto psicologico importante. Ci ha fatto riscoprire alcuni valori come quello del tempo da dedicare a noi stessi. Ci ha dato la consapevolezza che la vita può essere messa a repentaglio da un evento esterno. Le persone che si rivolgono a me perché si sono dimesse e cercano un ricollocamento avevano da tempo un'insoddisfazione che la pandemia ha aumentato. La voglia di reagire si è intensificata e i timori di voltare pagina sono diminuiti. La qualità della vita è diventata la discriminante fondamentale nelle scelte professionali». Questa esigenza la sentono più gli uomini o le donne? «È uno stato psicologico che non ha genere». Da quali professioni vengono i dimissionari? «Sono professionisti che operano in diversi settori e che durante la pandemia si sono guardati attorno perché insoddisfatti e alla ricerca di condizioni migliori. E questo non significa solo uno stipendio migliore ma la possibilità di conciliare meglio l'impegno professionale con la vita privata. Lo smart working per molti ha significato un aumento della pressione lavorativa, più straordinari che restringevano la vita in famiglia. Molti di quanti si rivolgono a me hanno tra le priorità la flessibilità degli orari. La maggior parte di chi lascia un impiego lamenta di non riuscire a gestire il proprio tempo personale. Mi dicono: mi sentivo in gabbia, non ce la facevo più». Chi si è dimesso e cerca un nuovo lavoro vuol rimanere nello stesso settore o punta a un cambiamento radicale? «Spesso rimangono nei settori in cui poter sfruttare le proprie competenze, magari puntando a un ruolo di maggiore responsabilità o con flessibilità nell'orario. C'è maggiore consapevolezza che il benessere ci deve essere anche sul lavoro. Non basta più avere un contratto». Sono frequenti le situazioni di grave malessere sul lavoro? «Più di quanto si possa immaginare. Ci sono persone che sarebbero disposte a dare dimissioni anche l'indomani se non avessero carichi familiari. I casi di frustrazione e insoddisfazione creano spesso reazioni psicosomatiche, attacchi di panico, ansia, mancanza di sonno, eruzioni cutanee, oltre all'insoddisfazione e alla frustrazione di non sentirsi valorizzati. Tante condizioni di malessere erano latenti e la pandemia le ha fatte esplodere. Il lavoro da remoto ha messo i lavoratori di fronte a una possibile alternativa. Ha fatto capire che si può conciliare vita e occupazione». Non c'è la paura del salto nel vuoto? «La maggior parte prima di dare le dimissioni cerca un'alternativa, ma c'è anche chi affronta l'ignoto pur dovendo stringere la cinghia». A quale età si cambia? «Per la mia esperienza, la media è dai 35 ai 50 anni». Le dimissioni sono un fenomeno transitorio o la mobilità aumenterà? «Ritengo che aumenterà. È scattata una molla che ha portato le persone a interrogarsi su come vivere più serenamente l'ambiente lavorativo e avere più spazi privati. Sento sempre più dire: voglio decidere io quale è il lavoro che fa per me». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/no-grazie-voglio-vivere-lavoro-2655516096.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="il-covid-e-la-spinta-a-rimettersi-in-gioco" data-post-id="2655516096" data-published-at="1636283090" data-use-pagination="False"> «Il Covid e la spinta a rimettersi in gioco» «In vent'anni di lavoro ho lasciato due posti fissi, prima perché volevo laurearmi e non riuscivo a conciliare il lavoro con lo studio, e successivamente perché dopo tanti anni nello stesso ruolo avevo bisogno di nuovi stimoli». Carlotta Lenoci, 39 anni, è convinta che «mollare un'attività per trovare la propria strada non è un'impresa impossibile e che se lo può permettere anche chi non ha le spalle coperte economicamente. Basta crederci, non cedere alle difficoltà e perseguire l'obiettivo con grinta». Sembra la storia di un «self made man» americano invece siamo in Italia, a Firenze. A 19 anni Carlotta si arruola nell'esercito con l'incarico di conduttore di mezzi pesanti. Nel frattempo studia economia e commercio, «ma conciliare università e lavoro era molto difficile, anche se ero stata inserita in fureria che è stato il mio primo contatto con le risorse umane. Dovevo però raggiungere l'obiettivo della laurea». Così si dimette per la prima volta portandosi dietro un grande bagaglio di esperienze e di colleghi con cui è rimasta in ottimi rapporti. «Sono entrata in una multinazionale partendo dalla gavetta con uno stage non retribuito trasformato in un contratto di apprendistato e poi a indeterminato. Dopo cinque anni di lavoro senza risparmiarmi, arrivo a occuparmi delle politiche attive del lavoro e divento la referente di 5 regioni. In quel periodo ho scoperto ciò che volevo diventare davvero e ho sentito l'esigenza professionale di raggiungere un ulteriore titolo universitario». Nemmeno la gravidanza è un ostacolo, anzi un'ulteriore fonte di energia. «Lo scorso marzo mi sono laureata in psicologia con il mio bimbo di 3 anni a fare il tifo per me durante la discussione della tesi», racconta: «Il giorno stesso guardandomi allo specchio mi sono detta: o adesso o mai più. Così decido di lasciare il posto fisso che mi aveva consentito di comprare casa e apro la partita Iva. In ufficio qualcuno mi avrà considerato folle, ma io sentivo di poter continuare con la mia crescita personale e professionale». Quali le ragioni? Non l'ambiente né le persone: «Lavorare in una grande azienda significa talvolta avere ritmi elevati e sacrificare parti della propria vita. Con parenti e amici venuti a mancare da un giorno all'altro per il Covid, ho avuto ancor di più la consapevolezza di volermi rimettere in gioco provando a farcela da sola con una vita di valori e qualità. Avrò forse rinunciato a un percorso di carriera ma sono felicissima così». Voltare pagina richiede una base economica? «Grazie ai contatti professionali generati negli anni ho potuto collaborare con molti professionisti delle risorse umane e molte aziende. Sono partita dal Tfr messo da parte in questi anni, il resto verrà da sé. Faccio consulenza alle imprese formando e gestendo le risorse umane, aiuto chi vuole aprire una startup e chi vuole fare il grande salto nel cambio di vita professionale. Ai giovani dico: non mollate, non vi accontentate di una situazione che non vi soddisfa o del lavoro “fisso". Cambiare si può».
Mohamed Shahin (Ansa)
Lo scorso 24 novembre, il Viminale aveva disposto l’espulsione dell’imam, denunciandone il «ruolo di rilievo in ambienti dell’islam radicale, incompatibile con i principi democratici e con i valori etici che ispirano l’ordinamento italiano» e definendolo «messaggero di un’ideologia fondamentalista e antisemita», oltre che «responsabile di comportamenti che costituiscono una minaccia concreta attuale e grave per la sicurezza dello Stato». Il ministero dell’Interno si era mosso dopo che Shahin, alla manifestazione pro Pal del 9 ottobre, si era dichiarato «d’accordo» con le stragi del 7 ottobre 2023, da lui definite una «reazione all’occupazione israeliana dei territori palestinesi». Parole che, a giudizio della Procura torinese, rappresentano l’«espressione di un pensiero che non integra gli estremi di reato».
Lunedì, il verdetto che lo ha liberato dal Cpr siciliano - l’uomo è stato trasferito in una località segreta del Nord - è stato accompagnato da una polemica sul suo dossier, reso top secret dal dicastero. Ciò non ha impedito ai giudici di «prendere atto» di «elementi nuovi», rispetto a quelli disponibili alla convalida del trattenimento. Tra essi, l’immediata archiviazione del procedimento per le frasi sugli attacchi di Hamas. Inoltre, per le toghe, pur avendo partecipato a un blocco stradale, il 17 maggio scorso, nel comportamento dell’imam non si ravvisava alcun «fattore peculiare indicativo di una sua concreta e attuale pericolosità». E i suoi «contatti con soggetti indagati e condannati per apologia di terrorismo», recitava la nota della Corte, «sono isolati e decisamente datati», «ampiamente spiegati e giustificati». Un cittadino modello.
In realtà, scavando, si appura che i controversi legami di Shahin, ancorché «datati» e «giustificati», sono comunque inquietanti. Secondo quanto risulta alla Verità, nel 2012, quest’individuo bene «integrato» sarebbe stato fermato dalla polizia di Imperia assieme a Giuliano Ibrahim Delnevo. Chi era costui? Uno studente genovese di 23 anni, convertito all’islam e ucciso nel 2013 in Siria, dove stava combattendo con i ribelli di Al Nusra, affiliata ad Al Qaida. Sempre nel 2012, l’imam fu immortalato nella foto che pubblichiamo qui accanto, al fianco di Robert «Musa» Cerantonio, il «jihadista più famoso d’Australia» - in Australia si è appena consumata la mattanza di ebrei - condannato nel 2019. Cerantonio fu ripreso anche davanti a San Pietro con la bandiera nera dell’Isis. Minacciò: «Distruggeremo il Vaticano». Cinque anni più tardi, nell’ambito delle indagini su un musulmano radicalizzato a Torino, Halili Elmahdi, sarebbe stata registrata una conversazione nella quale il sospettato consigliava a un’altra persona di rivolgersi a Shahin. Intendiamoci: Halili Elmahdi era considerato il «filosofo dell’Isis» ed evocava il «martirio» e la «guerra santa» come unica via per «i buoni musulmani». Se i contatti di Shahin sono datati, forse c’è una ragione che non ha per forza a che fare con la svolta moderata dell’imam di Torino: Delnevo è morto 12 anni fa; Elmahdi è rimasto in carcere fino al 2023.
Ieri, a 4 di sera su Rete 4, il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, caustico verso certe sentenze «fantasiose», frutto di un «condizionamento ideologico», ha confermato i «segnali di vicinanza di Shahin a soggetti pericolosi», andati «a combattere in scenari di guerra come quello della Siria». Era il caso di Delnevo, appunto. Alla domanda se l’imam fosse pericoloso, Piantedosi ha risposto che «lo era per gli analisti, per gli operatori, per le cose che avevamo agli atti». Non per i giudici. La cui decisione «ci amareggia, perché vanifica il lavoro che c’è dietro, degli operatori di polizia che finora hanno tenuto immune il nostro Paese dagli attentati terroristici».
È questo il nocciolo della questione. Giorgia Meloni, lunedì, ha usato toni durissimi: «Qualcuno mi può spiegare come facciamo a difendere la sicurezza degli italiani», ha tuonato, «se ogni iniziativa che va in questo senso viene sistematicamente annullata da alcuni giudici?». Nell’esecutivo serpeggia autentica preoccupazione. La Verità ha appreso che, da quando a Palazzo Chigi si è insediata la Meloni, sono stati espulsi dall’Italia ben 215 islamici radicalizzati. In pratica, uno ogni cinque giorni. È questa vigilanza, associata al lavoro di intelligence, che finora ha preservato il nostro Paese. La magistratura applica le norme, bilanciando gli interessi legittimi. Ed è indipendente. Ma sarebbe bene collaborasse a tutelare l’incolumità della gente comune. Ad andare troppo per il sottile, si rischia di finire come il Regno Unito, dove i tribunali islamici amministrano una giustizia parallela, basata sul Corano. Per adesso, lo spirito è un altro: l’Anm del Piemonte si è preoccupata solo delle «esternazioni di alcuni membri del governo» e dell’«attività di dossieraggio riscontrata anche nell’ambito di plurimi social network» sui giudici che hanno liberato il predicatore, ai quali l’associazione ha manifestato «piena e incondizionata solidarietà».
Ieri sera, l’imam di Torino ha auspicato di poter «portare avanti quel progetto di integrazione e inclusione, di condivisione di valori positivi e di vita pacifica, di fede e di dialogo, intrapreso tanti anni fa». Ma per lui, la partita giudiziaria non è chiusa. Il Viminale ha annunciato ricorso contro la liberazione dal Cpr. Lunedì ci sarà un’udienza al Tar del Lazio sull’annullamento del decreto di espulsione di Piantedosi. Gli avvocati di Shahin hanno impugnato anche la revoca del permesso di soggiorno di lungo periodo davanti al Tar del Piemonte; se ne riparlerà a gennaio. Infine, c’è la richiesta di protezione internazionale avanzata dall’imam. La Commissione territoriale di Siracusa l’aveva respinta, ma il tribunale di Caltanissetta ha sospeso il pronunciamento alla luce dalla «complessità della vicenda in esame». Un bel paradosso: dovremmo dare asilo a uno che officia i matrimoni plurimi? Altro che pro Pal: in piazza ci vorrebbero le femministe.
Continua a leggereRiduci
Getty Images
Lasciando perdere il periodo della pandemia, credo che sia sufficiente prendere i dati economici conseguiti dal nostro Paese. Secondo le previsioni, l’arrivo a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni, cioè di una populista in camicia nera, avrebbe contribuito a scassare i conti pubblici e a farci perdere quel briciolo di rispetto che era stato conquistato con Mario Draghi alla guida del governo. Invece niente di tutto questo è accaduto. In tre anni sono stati smantellati il reddito di cittadinanza e il Superbonus, dando garanzia ai mercati sul contenimento del deficit sotto il 3 per cento. I poveri non sono aumentati, come invece sosteneva l’opposizione e prima ancora qualche professore. Né sono crollate le imprese edili. I salari sono saliti e, anche se non hanno recuperato il gap degli anni precedenti, quanto meno sono stati al passo con l’inflazione dell’ultimo triennio. Quanto all’occupazione il saldo è positivo, come da tempo non si vedeva. Per non parlare poi dei dazi, di cui la sinistra unita ai suoi trombettieri quotidiani attribuiva la responsabilità indiretta all’attuale maggioranza, giudicata troppo trumpiana. Nonostante l’aumento delle tariffe, l’export delle nostre imprese verso gli Stati Uniti è andato addirittura meglio che in passato.
I centri per il trattenimento e il rimpatrio in Albania, tanto criticati dai compagni e dalla stampa e osteggiati in ogni modo dalla magistratura, dopo oltre un anno di pregiudizi ora sono ritenuti una soluzione possibile se non auspicabile addirittura dal Consiglio d’Europa.
Ma il meglio la classe politica e quella giornalistica l’hanno dato con la guerra in Ucraina. Per anni ci sono state raccontate un cumulo di fesserie, sia sull’efficacia delle sanzioni messe in campo contro la Russia (ricordate la famosa atomica finanziaria, ossia l’esclusione della banche russe dal circuito delle transazioni internazionali, che avrebbe dovuto mettere Putin con le spalle al muro in un amen?) sia sugli armamenti decisivi del conflitto che America ed Europa avrebbero potuto mettere a disposizione di Kiev. Per non dire poi delle iniziative Ue, con i volenterosi a spacciare patacche per soluzioni. Anche in questo caso l’Italia era descritta come una Cenerentola, tenuta ai margini delle iniziative concordate da quei due fulmini di guerra di Keir Starmer e Emmanuel Macron: fosse per loro, e per i giornalisti che gli hanno dato credito, la tregua forse si raggiungerebbe nel secolo prossimo venturo. Tralascio quelli che spingevano per il riconoscimento della Palestina, invitando a seguire l’esempio di Francia e Spagna: come si è visto, le varie dichiarazioni non sono servite a nulla e l’unica speranza per Gaza era e resta il piano di Trump.
Che dire? Se i giornaloni volessero riconoscere di aver scritto una montagna di sciocchezze andremmo avanti per settimane. Ma state tranquilli, nemmeno questa volta ammetteranno gli errori. Sono giornalisti con l’eskimo, mica cretini.
Continua a leggereRiduci
Roberto Gualtieri (Ansa)
Già da circa un anno il deflusso dei visitatori è contingentato, con un tetto massimo di 400 persone che possono sostare nell’area. Ma dal nuovo anno la novità sembrerebbe essere tutta nelle code: due corsie separate, una per i romani e l’altra per i turisti che dovranno pagare il ticket.
La scelta, voluta dall’assessore al Turismo e grandi eventi Alessandro Onorato e condivisa dall’amministrazione comunale guidata dal sindaco Roberto Gualtieri, va nella direzione di salvaguardare la fontana più grande di Roma, capolavoro tardo-barocco di Nicola Salvi. I numeri, del resto, parlano chiaro: soltanto nei primi sei mesi di quest’anno la Fontana di Trevi ha registrato oltre 5,3 milioni di visitatori, più di quanti ne ha totalizzati il Pantheon nell’intero 2024 (4.086.947 ingressi).
Ma la decisione sembrerebbe non essere ancora ufficiale. «Si tratta solo di una ipotesi di lavoro», precisa il Campidoglio in una nota, «su cui l’amministrazione capitolina, come è noto, sta ragionando da tempo. Tuttavia, ad oggi, non sono state decise date, né sono state prese decisioni in merito».
Nonostante questo, già insorgono voci contro il ticket per i turisti. «Siamo da sempre contrari alla monetizzazione di monumenti, piazze, fontane e siti di interesse storico e culturale, e crediamo che istituire biglietti di ingresso a pagamento sia un danno per i turisti», tuona il Codacons, «i soldi raccolti non vengono utilizzati per migliorare i servizi all’utenza ma solo per coprire i buchi di bilancio». L’associazione dei consumatori, pur opponendosi al ticket, sostiene gli ingressi contingentati.
Ancora più duro il vicepresidente del Senato e responsabile Turismo della Lega, Gian Marco Centinaio: «Il Comune di Roma non può impedire la libera circolazione dei turisti su uno spazio pubblico. È come fare uscire Fontana di Trevi dall’Unione europea». Secondo Centinaio, «Gualtieri e Onorato vogliono solo fare cassa a scapito di chi viene a visitare la Capitale».
Che ci sia bisogno di una regolamentazione dei flussi turistici per evitare sovraffollamenti è fuori discussione. Ma la sensazione è che l’amministrazione capitolina, dopo aver incassato per anni le monetine che i turisti lanciano nella fontana (tradizione che vale circa 1,5 milioni di euro annui devoluti alla Caritas), ora voglia tassare anche l’ingresso.
Se l’ipotesi diventasse realtà, il turista del futuro pagherebbe 2 euro per entrare, poi lancerebbe la sua monetina per tornare a Roma, spendendo di fatto 3 euro per un solo desiderio. Una sorta di tassa anticipata sul gesto più iconico della Capitale. Del resto, perché aspettare che i visitatori lancino spontaneamente le monete quando si potrebbe riscuotere subito alla porta? L’amministrazione Gualtieri avrebbe semplicemente tagliato i tempi: il Comune incasserebbe prima, la Caritas dopo. Il turista, nel frattempo, girerebbe le spalle alla fontana e lancerebbe la sua moneta, ignaro di averla già praticamente pagata al botteghino. Magari con carta di credito e scontrino fiscale. La leggenda dice che chi lancia una moneta nella Fontana di Trevi tornerà a Roma. E probabilmente è vero: per vedere cos’altro sia diventato a pagamento nel frattempo.
Continua a leggereRiduci
Keir Starmer (Ansa)
Le roboanti promesse di porre un argine all’illegalità diffusa, ovviamente, sono rimaste lettera morta. Eppure, non tutto è perduto. Per dare un segnale forte ai cittadini, l’esecutivo laburista ha avuto un’idea geniale: elaborare una nuova definizione di «odio anti musulmano». Pochi giorni dopo l’efferata strage di matrice islamista a Sydney, infatti, la Bbc ha reso noto che il lungo lavoro del ministero per le Comunità e gli enti locali ha partorito una bozza quasi ufficiale. Stando al documento, divulgato in anteprima dall’emittente britannica, ecco la nuova definizione di islamofobia: «L’ostilità anti musulmana è il compimento o l’incitamento ad atti criminali, compresi atti di violenza, vandalismo contro la proprietà, molestie e intimidazioni - fisiche, verbali, scritte o veicolate elettronicamente - dirette contro i musulmani o contro persone percepite come musulmane a causa della loro religione, etnia o aspetto». In tale fattispecie, «rientrano inoltre l’uso di stereotipi pregiudiziali e la “razzializzazione” dei musulmani come gruppo collettivo dotato di caratteristiche prefissate».
Effettivamente, si fa fatica a prendere sul serio un documento del genere: per esempio, che vorrà mai dire «persone percepite come musulmane»? Mistero della fede progressista. Eppure, la gestazione di questa perla di vacuità dialettica ha tenuto impegnata un’intera commissione per la bellezza di quasi un anno: il gruppo di lavoro era stato istituito lo scorso febbraio, con a capo l’ex procuratore generale Dominic Grieve, e i suoi risultati erano stati presentati all’esecutivo in ottobre.
Tra i passaggi più controversi - e futili - c’è anche il riferimento al concetto di «razzializzazione», ennesimo neologismo cacofonico che tanto piace ai sacerdoti del politicamente corretto. Per difendere la scelta, è scesa in campo Shaista Gohir in persona, baronessa di origine pachistana e membro di punta della commissione. Stando alla pasionaria islamica, che siede nella Camera dei Lord, «questa definizione riconosce anche che i musulmani sono spesso presi di mira non solo per le loro convinzioni religiose, ma anche per l’aspetto, la razza, l’etnia o altre caratteristiche», ha spiegato. «L’inclusione del concetto di razzializzazione dà riconoscimento a queste esperienze vissute».
Chiacchiere a parte, occorre specificare che questa definizione di «odio anti musulmano» non avrà valore normativo: non sarà cioè né sancita per legge né giuridicamente vincolante, ma offrirà una formulazione di riferimento che gli enti pubblici potranno adottare. Eppure, è proprio qui che sta la fregatura. Non a caso, contro quest’obbrobrio politicamente corretto si è scagliata con forza la Free speech union, autorevole organizzazione britannica nata nel 2020 per tutelare la libertà d’espressione dai deliri dei questurini progressisti: «Questa definizione è superflua, perché è già un reato incitare all’odio religioso ed è già illegale per datori di lavoro o fornitori di servizi discriminare le persone sulla base della loro religione o delle loro convinzioni», ha tuonato il fondatore e presidente dell’associazione, il lord conservatore Toby Young. «Concedere ai musulmani tutele aggiuntive non estese ad altri», ha aggiunto, «avrà l’effetto di aumentare l’ostilità anti musulmana, anziché ridurla». In effetti, di fronte al fallimento del multiculturalismo reale, i laburisti rispondono con il multiculturalismo lessicale. Non potendo controllare le strade, tentano di controllare il linguaggio. Con il risultato paradossale di rendere ancor più fragile la libertà di parola e ancor più esplosivo il conflitto che fingono di voler disinnescare.
Continua a leggereRiduci