2025-07-22
No ai ricorsi dei pm contro chi è assolto. Diventi la regola, stop alle eccezioni
Matteo Salvini (Getty Images)
Aggiungere gradi di giudizio rende più facile la pluralità di decisioni difformi. Come dimostra il delitto di Garlasco.Presidente di sezione emerito della Corte di CassazioneSe c’era al mondo qualcosa di prevedibile era che la Procura della Repubblica di Palermo, dopo essersi impegnata fino allo spasimo per ottenere la condanna di Matteo Salvini, mai e poi mai avrebbe fatto acquiescenza all’assoluzione. Nessun motivo di stupore, quindi, per il fatto che la sentenza assolutoria sia stata impugnata. Giustificato, semmai, può apparire lo stupore per il fatto che la Procura, invece di proporre appello, abbia optato per il ricorso diretto per Cassazione; cosa, peraltro, espressamente consentita non solo per il pubblico ministero ma anche per l’imputato e per tutte le altre parti private da un’apposita norma, pur se di rara applicazione costituita dall’art. 569, comma 1, del codice di procedura penale.Di tale norma potrebbe discutersi l’opportunità e l’utilità, ma discutibile non sembra il fatto che, avverso le sentenze di assoluzione, siano esse di primo o di secondo grado, debba necessariamente ammettersi la proponibilità del ricorso per Cassazione da parte del pubblico ministero. Ciò in base all’art. 111 della Costituzione, dove è espressamente stabilito che avverso ogni sentenza sia sempre ammesso «il ricorso per Cassazione per violazione di legge», senza differenziazione alcuna, circa la possibilità di proporlo, tra pubblico ministero ed imputato o altre parti private. Non può, quindi, essere presa alla lettera l’affermazione attribuita al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, secondo cui l’impugnabilità, in genere, di pronunce assolutorie sarebbe cosa di per sé «non degna di un Paese civile», ed alla quale, pertanto, occorrerebbe porre rimedio. D’altra parte, è di solare evidenza che sarebbe del tutto assurdo eliminare l’unico strumento, costituito appunto dal ricorso per Cassazione da parte del pubblico ministero, mediante il quale possa impedirsi che diventino definitive pronunce di assoluzione alle quali - come ben può, non di rado avvenire - il giudice di merito sia pervenuto violando ovvero ignorando o male applicando (il che è lo stesso) norme di legge, sostanziali o processuali, che aveva l’obbligo di osservare. Ciò non significa, però, che (indipendentemente dalla vicenda Salvini) non siano ravvisabili, nell’attuale disciplina del ricorso diretto per Cassazione, incongruenze alle quali sarebbe opportuno porre rimedio. La principale appare quella derivante dal fatto che, in caso di annullamento con rinvio della sentenza assolutoria, in accoglimento del ricorso del pubblico ministero, il giudice di rinvio, in base al comma 4 del citato art. 569 del codice di procedura, è quello che sarebbe stato competente a decidere sull’appello, se questo fosse stato proposto. La conseguenza è che, se quest’ultimo decide per la condanna, l’imputato potrà a sua volta soltanto ricorrere per Cassazione per motivi di legittimità, ma non ottenere, prima dell’eventuale ricorso, un secondo giudizio di merito sulla fondatezza dell’accusa di cui è stato chiamato a rispondere. Quel secondo giudizio di merito al quale, invece, si sarebbe dato luogo se avverso la sentenza assolutoria di primo grado il pubblico ministero avesse proposto appello anziché ricorso diretto per Cassazione. E proprio a tale inconveniente ha accennato - come riferito sulla Verità del 20 luglio scorso - lo stesso ministro Nordio, ragionevolmente proponendo come corretta soluzione quella di «rifare da capo il processo». Il che facilmente potrebbe ottenersi con una semplice modifica normativa in cui si stabilisse che, in caso di accoglimento del ricorso diretto del pubblico ministero, il giudice di rinvio debba essere - ovviamente in persona fisica diversa - il giudice di primo grado, avverso la cui decisione, quindi, se sfavorevole, l’imputato potrebbe poi, secondo la disciplina ordinaria, proporre appello. Se una tale modifica fosse introdotta prima della decisione della Cassazione sul ricorso proposto avverso l’assoluzione di Matteo Salvini, essa dovrebbe trovare applicazione anche in favore di quest’ultimo, in base al principio generale secondo cui le norme processuali sono, di regola, di immediata applicazione anche nei processi già in corso. Ed alla facile accusa di quanti subito sosterrebbero che si è voluta fare una legge «ad personam» per Salvini ben si potrebbe rispondere (ammesso che ne valesse la pena) che essa, come pure ricordato dal ministro Nordio, altro non farebbe se non adeguare l’ordinamento italiano ai principi affermati in materia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Altro discorso è poi quello - privo di attinenza, in realtà, con il processo Salvini ma dal quale esso ha tratto nuovo spunto - concernente i limiti che si vorrebbero imporre alla proponibilità, da parte del pubblico ministero, non del ricorso per Cassazione ma dell’appello avverso le sentenze assolutorie pronunciate dal giudice di primo grado. Al riguardo (senza entrare troppo in inutili dettagli tecnici) appare sufficiente ricordare che, in realtà, al pubblico ministero è già preclusa, in base alla vigente disciplina, l’appellabilità di sentenze relative a reati contravvenzionali o a delitti punibili con pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni o con la multa, sola o congiunta alla pena detentiva nonché ad una lunga serie di altri delitti molto comuni indicati nell’art. 550 del codice di procedura penale. L’appellabilità, quindi, è già di fatto divenuta per il pubblico ministero un’eccezione più che una regola, trovando essa applicazione solo per i delitti generalmente ritenuti più gravi. Il che appare, però, del tutto priva di logica, dal momento che l’appellabilità, aggiungendo un grado di giudizio e rendendo più facile la pluralità di decisioni difformi relativamente a una stessa vicenda, fa sì che proprio con riguardo a quei delitti per i quali è maggiormente avvertita l’esigenza che alla condanna dell’imputato si pervenga solo quando egli risulti colpevole «al di là di ogni ragionevole dubbio» - come espressamente previsto dall’art. 533 del codice di procedura penale -, quella stessa esigenza corra il maggior rischio di rimanere insoddisfatta. Emblematico, al riguardo, è il delitto di Garlasco, di cui è stato ritenuto colpevole, in via definitiva, Alberto Stasi, nei cui confronti, per due volte, era stata pronunciata sentenza assolutoria. Sarebbe auspicabile che quella dell’inappellabilità delle sentenze assolutorie da parte del pm diventi una regola senza eccezioni.
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