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2019-11-29
Niente pace nel M5s Paragone guida la rivolta anti fondo
Ansa
Mes con una «s» sola vuol dire Meccanismo europeo di stabilità, con due «s» invece in inglese vuol dire «pasticcio». Ed è proprio un gran pasticcio quello che va in scena anche in casa 5 stelle sulla riforma del Fondo salva Stati in caso di default in arrivo per uno dei Paesi membri dell'Unione monetaria.
Nel programma elettorale dei grillini, da sempre, ci sono affermazioni e promesse incompatibili con qualunque cessione di sovranità in cambio di paracadute monetario, come ha dovuto fare la Grecia con la Troika. Nella risoluzione parlamentare con la quale la Lega chiedeva a Giuseppe Conte di non firmare il nuovo Mes ci sono le firme anche di vari deputati pentastellati. Il «capo politico» del Movimento, Luigi Di Maio, è in buona misura contrario al nuovo Mes così com'è (anche se in sette giorni la sua posizione si è ammorbidita), mentre il premier è a favore e in cuor suo tifa per un rinvio. Poi c'è Beppe Grillo, che ormai da mesi ha abbracciato posizioni più europeiste per convergere sempre più sul Pd in un patto non scritto che dovrebbe culminare anche nell'elezione di Romano Prodi al Colle.
A mettere tutti i compagni di partito con le spalle al muro è il senatore Gianluigi Paragone, che sventola il programma elettorale della primavera 2018. Nel capitoletto sull'economia e l'Ue, si poteva leggere: «Riteniamo indispensabile, nei trattati e nel quadro normativo europeo, alcune specifiche procedure tecniche, economiche e giuridiche che consentano agli Stati membri di recedere dall'unione monetaria». Ovvero l'opposto del Mes, prima e seconda versione, che invece lega le mani ai Paesi in difficoltà e li costringe ad accettare il commissariamento dall'estero.
E nelle nuove regole del fondo salva Stati non sono neppure previste delle vie di fuga democratiche, come la possibilità di abbandonare anche temporaneamente la moneta unica. Intervistato da Affaritaliani.it, l'ex giornalista osserva: «Quello del Movimento non mi sembra un programma di una forza europeista, il Mes è da modificare radicalmente a favore dei popoli e non della finanza. Il Mes è assolutamente un trattato costruito per la finanza speculativa».
Diventa quindi complicato votarlo, per un deputato grillino, quando il programma prometteva una svolta in senso contrario sulla moneta unica e si rischia il bis di un'altra battaglia in qualche modo tradita come quella contro la Tav.
Di Maio lo sa e anche ieri è tornato a parlare contro il trattato, augurandosi con i suoi collaboratori più stretti lo stesso rinvio che anche Conte prepara da giorni. Anche se il premier, lunedì prossimo in Senato, probabilmente non sconfesserà del tutto la linea favorevolissima del ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri. Ospite di Radio Anch'io, il ministro degli Esteri anticipa che «nelle prossime ore, a livello di maggioranza, avremo bisogno di valutare se tutto questo pacchetto, il meccanismo europeo di stabilità, e altre riforme europee come l'unione bancaria e l'assicurazione sui depositi, convengono all'Italia oppure no». E poi azzarda una battuta in stile Salvini: «Una cosa è un Fondo salva Stati, altro uno stritola Stati sul modello della Grecia. Noi come M5s abbiamo espresso anche in Parlamento molte perplessità e preoccupazioni ma sono confidente nel fatto che nelle prossime ore riusciremo a trovare una soluzione». Pregevole l'inglesismo di «confidente», che conferma il suo ruolo di ministro degli Esteri. Va detto che una settimana fa, intervistato dal Corriere della Sera, Di Maio era però sembrato un po' più duro, quando aveva detto: «In Europa siamo stati abituati a colpi bassi in passato, che non abbiamo più intenzione di subire». E un «colpo basso», però, è anche la risoluzione approvata il 19 giugno alla Camera (seduta numero 192), presentata dal capogruppo della Lega, Riccardo Molinari e dall'allora capogruppo M5s Francesco D'Uva. Prevedeva esplicitamente che il governo non impegnasse l'Italia a riforme del Mes che fossero sfavorevoli a quelle economie che hanno bisogno di più pesanti «riforme strutturali» e di «maggiori investimenti» per uscire dalla crisi iniziata nel 2007. Come noi, insomma.
Beppe Grillo ha provato a uscire dall'impasse con un tocco di illusionismo. E sulla sua pagina Facebook nei giorni scorsi ha sparso ottimismo con un video: «È un momento magico. Noi non possiamo continuare a fare dei Facebook in cui si dice questo qua non va bene. Adesso le cose devono essere chiare, il capo politico è lui, quindi non rompete i c… perché sennò ci rimettiamo tutti». Il «lui» era Di Maio, alle prese con il messy Mes. Nelle truppe parlamentari, c'è una netta spaccatura: quelli che parlano sono contrari, ma tra i silenziosi ci sono tanti che la pensano come il Pd.
Francesco Bonazzi
Il trattato già inizia a fare danni: l’asta dei Btp si rivela una delusione
Scherzare con il fuoco può essere pericoloso e le proposte di modifica al trattato istitutivo del Meccanismo europeo di stabilità (noto come fondo salva Stati) iniziano a turbare gli investitori. Ad alimentare le perplessità non è tanto lo spread, in lieve aumento a circa 170 punti. Il differenziale nel rendimento fra Btp e Bund è infatti un termometro inattendibile per misurare il sentimento degli operatori sul nostro debito. Ciò che lascia perplessi è l'aumento dei rendimenti sulle nuove emissioni. Questa è una misura più accurata per testare il gradimento sul nostro debito. Ieri la Repubblica italiana ha collocato due Btp: uno con scadenza a cinque anni, l'altro a dieci, assieme a un Cct rimborsabile a sei anni.
L'asta non è stata un successo, per due motivi. Per collocare il primo Btp lo Stato ha dovuto offrire un rendimento dello 0,64%. Una cifra in sé più che «giusta», ma in aumento rispetto alla precedente analoga asta del 30 ottobre, che aveva segnato lo 0,43%. In altre parole, il costo annuo del Btp a cinque anni è aumentato di quasi il 50%. E questo è un costo «vero», che si riverbera - in misura proporzionale all'importo di questa emissione - sul bilancio dello Stato. Pure il Btp a dieci anni ha segnato un aumento di 23 punti base nel rendimento offerto in asta, attestandosi all'1,29% rispetto all'1,06% del 30 ottobre. In proporzione, un aumento del costo inferiore rispetto a prima, ovvero poco meno del 22%. Ma il fatto che a dieci anni i timori degli operatori siano inferiori rispetto alla più breve scadenza di cinque non fa che alimentare ulteriori perplessità.
Gli investitori, in altre parole, iniziano a ipotizzare possibili tensioni che nel lungo termine potrebbero mitigarsi. Quanto più gli aumenti di rendimento si trasmetteranno sulle fasce di scadenza più corte, tanto più alti saranno i timori degli operatori. Infine, anche il Cct a sei anni ha mostrato un aumento nel rendimento offerto chiudendo a 0,71% annuo contro lo 0,52% del 27 ottobre. Cifre in sé non allarmanti, ma che evidenziano un timore crescente.
Ma vi è un secondo motivo per giudicare insoddisfacente il risultato delle aste di ieri. La domanda degli investitori non è stata copiosa rispetto ai nostri standard. Abbiamo collocato nelle tre aste 5,7 miliardi di titoli e la richiesta degli investitori è stata di circa 7,6 miliardi, superiore del 32%. Può sembrare un risultato di tutto rispetto, ma non è così. Nei primi dieci mesi del 2019 la domanda ha mediamente superato del 70% l'offerta nelle aste di titoli di Stato. Pure nel secondo semestre del 2018, nei momenti di maggiore tensione sui rendimenti, la domanda ha superato l'offerta di circa il 65%. Uno scarto addirittura superiore rispetto al primo semestre, quando ancora non si era insediato il governo Conte.
Ciò che gli operatori iniziano a valutare con attenzione è l'introduzione a partire dal 2022 di nuove clausole di azione collettiva diverse da quelle attualmente in essere (in gergo Cac, e verrebbe da scrivere «nomen omen») su tutte le emissioni superiori a un anno. Di che si tratta? Proviamo a spiegarlo nella maniera più semplice possibile. A partire dal 2013, i regolamenti delle emissioni dei titoli di Stato con scadenza superiore a un anno riportano regole procedurali da seguire in caso di ristrutturazione del debito. E questa è già una prima nefandezza, dal momento che si ammette urbi et orbi che il debito sovrano nell'Eurozona, a differenza di tutti gli altri debiti sovrani, può fare default.
Ristrutturare il debito significa infatti che il capitale restituito può essere inferiore e gli interessi magari più bassi; il tutto pagato in scadenze più lunghe. Affinché questa scemenza possa verificarsi, le vecchie Cac esigevano che la maggioranza degli investitori fosse d'accordo a subire questi sacrifici, non solo nel complesso ma anche a livello di singola emissione. Lo Stato, che ha cioè emesso titoli spezzettati in 100 emissioni diverse, poteva ristrutturare il debito soltanto se la maggioranza degli investitori era d'accordo nel complesso e in ogni singola emissione. Bastava una maggioranza contraria anche in una sola emissione, magari piccolissima, e la ristrutturazione non andava in porto. Ovviamente il solo scrivere queste casistiche ha alimentato spinte speculative non indifferenti sui debiti dell'Eurozona.
Ma poiché una volta toccato il fondo si può sempre scavare, ecco che con il nuovo trattato si prova a peggiorare la situazione, prevedendo che dal 2022 le emissioni riportino una nuova Cac. Basterà una sola maggioranza, a livello di debito complessivo. In altre parole, è vero - come dice il ministro Roberto Gualtieri - che chiedere la ristrutturazione del debito non sarà più semplice rispetto a ieri. Ma una volta imboccata questa strada, tosare gli investitori sarà più semplice. «Ti dico con certezza matematica che se passa questa schifezza diamo loro lo short Btp della vita, e avremo tutto il mercato a vendere» è uno degli sms che gira fra gli addetti ai lavori a Londra. Tradotto, significa: «Venderemo a mani basse».
Fabio Dragoni
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Il partito è spaccato fra favorevoli e contrari, che ricordano il programma elettorale: fra le promesse c'era l'addio al Mes.Richieste sotto la media e crescita dei rendimenti dei titoli a cinque e dieci anni. Gli esperti temono la ristrutturazione del debito unita alle nuove norme sulle emissioni: «Se passa il Mes vendiamo tutto».Lo speciale contiene due articoliMes con una «s» sola vuol dire Meccanismo europeo di stabilità, con due «s» invece in inglese vuol dire «pasticcio». Ed è proprio un gran pasticcio quello che va in scena anche in casa 5 stelle sulla riforma del Fondo salva Stati in caso di default in arrivo per uno dei Paesi membri dell'Unione monetaria.Nel programma elettorale dei grillini, da sempre, ci sono affermazioni e promesse incompatibili con qualunque cessione di sovranità in cambio di paracadute monetario, come ha dovuto fare la Grecia con la Troika. Nella risoluzione parlamentare con la quale la Lega chiedeva a Giuseppe Conte di non firmare il nuovo Mes ci sono le firme anche di vari deputati pentastellati. Il «capo politico» del Movimento, Luigi Di Maio, è in buona misura contrario al nuovo Mes così com'è (anche se in sette giorni la sua posizione si è ammorbidita), mentre il premier è a favore e in cuor suo tifa per un rinvio. Poi c'è Beppe Grillo, che ormai da mesi ha abbracciato posizioni più europeiste per convergere sempre più sul Pd in un patto non scritto che dovrebbe culminare anche nell'elezione di Romano Prodi al Colle. A mettere tutti i compagni di partito con le spalle al muro è il senatore Gianluigi Paragone, che sventola il programma elettorale della primavera 2018. Nel capitoletto sull'economia e l'Ue, si poteva leggere: «Riteniamo indispensabile, nei trattati e nel quadro normativo europeo, alcune specifiche procedure tecniche, economiche e giuridiche che consentano agli Stati membri di recedere dall'unione monetaria». Ovvero l'opposto del Mes, prima e seconda versione, che invece lega le mani ai Paesi in difficoltà e li costringe ad accettare il commissariamento dall'estero. E nelle nuove regole del fondo salva Stati non sono neppure previste delle vie di fuga democratiche, come la possibilità di abbandonare anche temporaneamente la moneta unica. Intervistato da Affaritaliani.it, l'ex giornalista osserva: «Quello del Movimento non mi sembra un programma di una forza europeista, il Mes è da modificare radicalmente a favore dei popoli e non della finanza. Il Mes è assolutamente un trattato costruito per la finanza speculativa». Diventa quindi complicato votarlo, per un deputato grillino, quando il programma prometteva una svolta in senso contrario sulla moneta unica e si rischia il bis di un'altra battaglia in qualche modo tradita come quella contro la Tav. Di Maio lo sa e anche ieri è tornato a parlare contro il trattato, augurandosi con i suoi collaboratori più stretti lo stesso rinvio che anche Conte prepara da giorni. Anche se il premier, lunedì prossimo in Senato, probabilmente non sconfesserà del tutto la linea favorevolissima del ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri. Ospite di Radio Anch'io, il ministro degli Esteri anticipa che «nelle prossime ore, a livello di maggioranza, avremo bisogno di valutare se tutto questo pacchetto, il meccanismo europeo di stabilità, e altre riforme europee come l'unione bancaria e l'assicurazione sui depositi, convengono all'Italia oppure no». E poi azzarda una battuta in stile Salvini: «Una cosa è un Fondo salva Stati, altro uno stritola Stati sul modello della Grecia. Noi come M5s abbiamo espresso anche in Parlamento molte perplessità e preoccupazioni ma sono confidente nel fatto che nelle prossime ore riusciremo a trovare una soluzione». Pregevole l'inglesismo di «confidente», che conferma il suo ruolo di ministro degli Esteri. Va detto che una settimana fa, intervistato dal Corriere della Sera, Di Maio era però sembrato un po' più duro, quando aveva detto: «In Europa siamo stati abituati a colpi bassi in passato, che non abbiamo più intenzione di subire». E un «colpo basso», però, è anche la risoluzione approvata il 19 giugno alla Camera (seduta numero 192), presentata dal capogruppo della Lega, Riccardo Molinari e dall'allora capogruppo M5s Francesco D'Uva. Prevedeva esplicitamente che il governo non impegnasse l'Italia a riforme del Mes che fossero sfavorevoli a quelle economie che hanno bisogno di più pesanti «riforme strutturali» e di «maggiori investimenti» per uscire dalla crisi iniziata nel 2007. Come noi, insomma.Beppe Grillo ha provato a uscire dall'impasse con un tocco di illusionismo. E sulla sua pagina Facebook nei giorni scorsi ha sparso ottimismo con un video: «È un momento magico. Noi non possiamo continuare a fare dei Facebook in cui si dice questo qua non va bene. Adesso le cose devono essere chiare, il capo politico è lui, quindi non rompete i c… perché sennò ci rimettiamo tutti». Il «lui» era Di Maio, alle prese con il messy Mes. Nelle truppe parlamentari, c'è una netta spaccatura: quelli che parlano sono contrari, ma tra i silenziosi ci sono tanti che la pensano come il Pd. Francesco Bonazzi<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/niente-pace-nel-m5s-paragone-guida-la-rivolta-anti-fondo-2641475184.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-trattato-gia-inizia-a-fare-danni-lasta-dei-btp-si-rivela-una-delusione" data-post-id="2641475184" data-published-at="1766777380" data-use-pagination="False"> Il trattato già inizia a fare danni: l’asta dei Btp si rivela una delusione Scherzare con il fuoco può essere pericoloso e le proposte di modifica al trattato istitutivo del Meccanismo europeo di stabilità (noto come fondo salva Stati) iniziano a turbare gli investitori. Ad alimentare le perplessità non è tanto lo spread, in lieve aumento a circa 170 punti. Il differenziale nel rendimento fra Btp e Bund è infatti un termometro inattendibile per misurare il sentimento degli operatori sul nostro debito. Ciò che lascia perplessi è l'aumento dei rendimenti sulle nuove emissioni. Questa è una misura più accurata per testare il gradimento sul nostro debito. Ieri la Repubblica italiana ha collocato due Btp: uno con scadenza a cinque anni, l'altro a dieci, assieme a un Cct rimborsabile a sei anni. L'asta non è stata un successo, per due motivi. Per collocare il primo Btp lo Stato ha dovuto offrire un rendimento dello 0,64%. Una cifra in sé più che «giusta», ma in aumento rispetto alla precedente analoga asta del 30 ottobre, che aveva segnato lo 0,43%. In altre parole, il costo annuo del Btp a cinque anni è aumentato di quasi il 50%. E questo è un costo «vero», che si riverbera - in misura proporzionale all'importo di questa emissione - sul bilancio dello Stato. Pure il Btp a dieci anni ha segnato un aumento di 23 punti base nel rendimento offerto in asta, attestandosi all'1,29% rispetto all'1,06% del 30 ottobre. In proporzione, un aumento del costo inferiore rispetto a prima, ovvero poco meno del 22%. Ma il fatto che a dieci anni i timori degli operatori siano inferiori rispetto alla più breve scadenza di cinque non fa che alimentare ulteriori perplessità. Gli investitori, in altre parole, iniziano a ipotizzare possibili tensioni che nel lungo termine potrebbero mitigarsi. Quanto più gli aumenti di rendimento si trasmetteranno sulle fasce di scadenza più corte, tanto più alti saranno i timori degli operatori. Infine, anche il Cct a sei anni ha mostrato un aumento nel rendimento offerto chiudendo a 0,71% annuo contro lo 0,52% del 27 ottobre. Cifre in sé non allarmanti, ma che evidenziano un timore crescente. Ma vi è un secondo motivo per giudicare insoddisfacente il risultato delle aste di ieri. La domanda degli investitori non è stata copiosa rispetto ai nostri standard. Abbiamo collocato nelle tre aste 5,7 miliardi di titoli e la richiesta degli investitori è stata di circa 7,6 miliardi, superiore del 32%. Può sembrare un risultato di tutto rispetto, ma non è così. Nei primi dieci mesi del 2019 la domanda ha mediamente superato del 70% l'offerta nelle aste di titoli di Stato. Pure nel secondo semestre del 2018, nei momenti di maggiore tensione sui rendimenti, la domanda ha superato l'offerta di circa il 65%. Uno scarto addirittura superiore rispetto al primo semestre, quando ancora non si era insediato il governo Conte. Ciò che gli operatori iniziano a valutare con attenzione è l'introduzione a partire dal 2022 di nuove clausole di azione collettiva diverse da quelle attualmente in essere (in gergo Cac, e verrebbe da scrivere «nomen omen») su tutte le emissioni superiori a un anno. Di che si tratta? Proviamo a spiegarlo nella maniera più semplice possibile. A partire dal 2013, i regolamenti delle emissioni dei titoli di Stato con scadenza superiore a un anno riportano regole procedurali da seguire in caso di ristrutturazione del debito. E questa è già una prima nefandezza, dal momento che si ammette urbi et orbi che il debito sovrano nell'Eurozona, a differenza di tutti gli altri debiti sovrani, può fare default. Ristrutturare il debito significa infatti che il capitale restituito può essere inferiore e gli interessi magari più bassi; il tutto pagato in scadenze più lunghe. Affinché questa scemenza possa verificarsi, le vecchie Cac esigevano che la maggioranza degli investitori fosse d'accordo a subire questi sacrifici, non solo nel complesso ma anche a livello di singola emissione. Lo Stato, che ha cioè emesso titoli spezzettati in 100 emissioni diverse, poteva ristrutturare il debito soltanto se la maggioranza degli investitori era d'accordo nel complesso e in ogni singola emissione. Bastava una maggioranza contraria anche in una sola emissione, magari piccolissima, e la ristrutturazione non andava in porto. Ovviamente il solo scrivere queste casistiche ha alimentato spinte speculative non indifferenti sui debiti dell'Eurozona. Ma poiché una volta toccato il fondo si può sempre scavare, ecco che con il nuovo trattato si prova a peggiorare la situazione, prevedendo che dal 2022 le emissioni riportino una nuova Cac. Basterà una sola maggioranza, a livello di debito complessivo. In altre parole, è vero - come dice il ministro Roberto Gualtieri - che chiedere la ristrutturazione del debito non sarà più semplice rispetto a ieri. Ma una volta imboccata questa strada, tosare gli investitori sarà più semplice. «Ti dico con certezza matematica che se passa questa schifezza diamo loro lo short Btp della vita, e avremo tutto il mercato a vendere» è uno degli sms che gira fra gli addetti ai lavori a Londra. Tradotto, significa: «Venderemo a mani basse». Fabio Dragoni
Da sx in alto: americani della 92ª Divisione, alpini della Divisione «Monterosa», paracadutisti tedeschi e la frazione di Sommocolonia oggi. Garfagnana, 26 dicembre 1944
La battaglia della Garfagnana, nota come Operazione «Wintergewitter» (tempesta invernale) fu l’ultima controffensiva delle forze dell’Asse sul fronte italiano. Iniziò la notte tra Natale e Santo Stefano del 1944 per terminare tre giorni più tardi. L’obiettivo, pur presentando scarse se non nulle possibilità di raggiungerlo, era quello di arrestare l’avanzata alleata lungo il fronte della linea Gotica allora in stallo per l’inverno rallentando l’avanzata degli angloamericani che puntavano verso Bologna e la Pianura Padana. Il teatro delle operazioni fu la valle del Serchio nella Garfagnana, in provincia di Lucca, dove gli americani del 92° Infantry Regiment, i famosi «Buffalo Soldiers» a maggioranza afroamericana, si erano acquartierati nei giorni precedenti al Natale, ritenendo le ostilità in pausa. L’effetto sorpresa era proprio il punto cardine dell’operazione pianificata dal comando tedesco guidato dal generale Otto Fretter-Pico. Le forze dell’Asse consistevano sostanzialmente di reparti da montagna, i «Gebirgsjaeger» tedeschi e gli alpini italiani della Divisione «Monterosa», uno dei primi reparti addestrati in Germania dopo la nascita della Repubblica Sociale. L’attacco fu fissato per la mezzanotte, tra il 25 e il 26 dicembre e procedette speditamente. I reparti speciali tedeschi e gli alpini iniziarono una manovra di accerchiamento da Montebono per Bobbio, Tiglio e Pian di Coreglia, mentre un reparto leggero prendeva in poche ore Sommocolonia. Contemporaneamente tutti i reparti si muovono, compreso un nucleo del Battaglione «San Marco», che in poco tempo occupava Molazzana. Entro la sera di Santo Stefano la linea dei Buffalo Soldiers era sfondata, mentre i reparti americani arretravano in massa. I prigionieri erano circa 250, mentre numerose armi e munizioni venivano requisite. Anche vettovaglie e generi di conforto cadevano nelle mani degli attaccanti.
Gli americani praticamente non reagirono, ma si spostarono in massa verso la linea difensiva di Bagni di Lucca. Per un breve tempo sembrò (soprattutto agli italiani, mentre i tedeschi sembravano paghi della riuscita sorpresa) che il fronte potesse cedere fino in Versilia e verso Livorno. L’ordine di Fretter-Pico di arrestare l’avanzata fu una doccia fredda. Le ragioni dell'arresto risiedevano principalmente nella difficoltà di mantenere le posizioni, la scarsità ormai cronica di uomini e munizioni (c’era solo l’artiglieria, nessun carro armato e soprattutto nessun supporto dall’Aviazione, praticamente sparita dai cieli del Nord Italia). Gli americani invece avevano il dominio assoluto del cielo, con i cacciabombardieri che potevano decollare dai vicini aeroporti della Toscana occupata, come quelli di Grosseto e Rosignano. Tra il 27 e il 30 dicembre 1944 i P-47 Thunderbolt dell’Usaf bombardarono a tappeto, mietendo vittime soprattutto tra la popolazione civile. La linea difensiva dell’Asse ritornò nei giorni successivi alle posizioni di partenza, mentre il fronte si assestava fino all’inizio del febbraio 1945 quando gli alleati lanciarono l’operazione «Fourth Term», che portò in pochi giorni alla conquista della Garfagnana. Durante l’operazione «Wintergewitter» lo scontro più violento si verificò nell’abitato di Sommocolonia dove la guarnigione americana perse quasi tutti gli uomini, compreso il proprio comandante tenente John R. Fox che, vistosi ormai circondato dai tedeschi, chiese all’artiglieria della 92ª di sparare sull’abitato nel tentativo disperato di rallentare l’attacco a sorpresa. Morì sotto le macerie della sua postazione e solamente nel 1997 fu insignito della medaglia d’onore.
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Lee Raybon avrebbe ambizioni da detective. Non da investigatore tout court. Piuttosto, vorrebbe essere un reporter, di quelli capaci - forti solo delle proprie risorse - di portare a termine indagini e inchieste, di dar forma alle notizie prima ancora che queste vengano diffuse dalle autorità competenti.
L'ambizione, tuttavia, è rimasta tale, nel corso di un'esistenza che ha costretto Raybon a ripiegare su altro per il mero sostentamento. Si è reinventato libraio, Lee Raybon, gestendo di giorno un negozio di libri rari. La notte, però, ha continuato a seguire il cuore, dando spazio alle sue indagini scalcagnate. Qualcuna è riuscito a trasformarla in articolo di giornale, venendola alle pagine di cronaca locale di Tulsa, città che ospita il racconto. E sono i pezzi ritagliati, insieme ai libri ormai giallognoli, ad affollare l'apportamento di Raybon, che la moglie ha mollato su due piedi, quando ben ha realizzato che non ci sarebbe stato spazio per altro nella vita di quell'uomo. Raybon, dunque, è rimasto solo. Non solo come il crime, per lo più, ha raccontato i suoi detective. Non è, cioè, una solitudine disperata, quella di Raybon. Non c'è tristezza né emarginazione. C'è passione, invece: quella per un mestiere cui anche la figlia dell'uomo sembra guardare con grande interesse.
Francis, benché quattordicenne, ha sviluppato per il secondo mestiere del padre una curiosità quasi morbosa, in nome della quale ha cominciato a seguirlo in ogni dove, partecipando lei pure alle indagini. Cosa, questa, che si ostina a fare anche quando la situazione diventa insolitamente complicata. Lee Raybon ha messo nel mirino i Washberg, una tra le famiglie più potenti di Tulsa. Ma uno di loro, Dale, si è tolto la vita, quando l'articolo di Raybon sulle faccende losche della dinastia è stato pubblicato su carta. Perché, però? Quali segreti nascondo i Washberg? Le domande muovono la nuova indagine di Raybon, la sostanziano. E, attorno alla ricerca di risposte, si dipana The Lowdon, riuscendo a bilanciare l'irrequietezza del suo protagonista, il suo cinismo, con il racconto di una dinamica familiare di solito estranea al genere crime.
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Secondo i calcoli di Facile.it, il 2025 si chiuderà con un calo di circa 50 euro per la rata mensile di un mutuo variabile standard, scesa da 666 euro di inizio anno a circa 617 euro. Un movimento coerente con il progressivo rientro delle componenti di costo indicizzate (Euribor) e con l’aspettativa di stabilizzazione di breve periodo.
Sul versante dei mutui a tasso fisso, il 2025 è stato invece caratterizzato da un lieve aumento dei costi per i nuovi mutuatari, in larga parte legato alla risalita dell’indice IRS (il riferimento tipico per i fissi). A gennaio 2025 l’IRS a 25 anni è stato in media pari a 2,4%; nell’ultimo mese è arrivato al 3,1%. L’effetto, almeno parziale, si è trasferito sulle nuove offerte: per un finanziamento standard la rata risulta oggi più alta di circa 40 euro rispetto a inizio anno.
«Il 2025 è stato un anno positivo sul fronte dei tassi dei mutui: i variabili sono scesi a seguito dei tagli della Bce, mentre i fissi, seppur in lieve aumento, offrono comunque buone condizioni per chi vuole tutelarsi da possibili futuri aumenti di rata. Oggi, quindi, l’aspirante mutuatario può godere di un’ampia offerta di soluzioni: scegliere il tasso variabile significa partire con una rata più contenuta, ma il vantaggio economico iniziale può essere ritenuto da molti ancora non sufficiente per giustificare il rischio connesso a questo tipo di finanziamento. Per chi non è disposto a rischiare, invece, i fissi garantiscono comunque condizioni favorevoli, oltre alla certezza che la rata resti uguale per tutte la durata del mutuo. Non esiste in assoluto una soluzione giusta o sbagliata, la scelta va presa da ciascun richiedente secondo le proprie caratteristiche; un consulente esperto può essere d’aiuto per valutare pregi e difetti di ciascuna proposta e identificare quella più adatta», spiegano gli esperti di Facile.it
Guardando in avanti, un’indicazione operativa sui variabili arriva dai Futures sugli Euribor (aggiornati al 10 dicembre 2025): per il 2026 non vengono prezzate grandi variazioni. L’Euribor a 3 mesi, oggi sotto il 2,1%, è atteso su livelli simili anche nel prossimo anno.
«In questo momento il mercato non prevede ulteriori tagli da parte della BCE nel 2026 e al netto di qualche piccola oscillazione al rialzo verso fine anno, nei prossimi 12 mesi le rate dovrebbero rimanere tendenzialmente stabili», continuano gli esperti di Facile.it
Lo snodo resta l’inflazione: se dovesse tornare ad accelerare, non si potrebbero escludere nuove mosse restrittive della Bce, con un impatto immediato sugli indici e quindi sulle rate dei variabili. Più difficile, invece, «leggere» i fissi: finché i rendimenti dei titoli europei resteranno in salita, è complicato immaginare una traiettoria diversa per gli Irs e, a cascata, per i mutui collegati.
Per chi deve scegliere adesso, lo scenario è nettamente diverso rispetto a inizio anno. Nel 2025, il tasso variabile è tornato mediamente più conveniente. Secondo l’analisi** di Facile.it sulle migliori offerte online, per un mutuo da 126.000 euro in 25 anni (LTV 70%) i variabili partono da un TAN del 2,54%, con rata di 554,5 euro. A parità di profilo, i fissi partono da un TAN del 3,10%, con rata di 604 euro: circa 50 euro in più al mese.
«Scegliere oggi un tasso variabile significa partire con una rata più contenuta, ma il vantaggio economico iniziale può essere ritenuto da molti ancora non sufficiente per giustificare il rischio connesso a questo tipo di finanziamento. Per chi non è disposto a rischiare, invece, i fissi garantiscono comunque condizioni favorevoli, oltre alla certezza che la rata resti uguale per tutte la durata del mutuo. Non esiste in assoluto una soluzione giusta o sbagliata, la scelta va presa da ciascun richiedente secondo le proprie caratteristiche; un consulente esperto può essere d’aiuto per valutare pregi e difetti di ciascuna proposta e identificare quella più adatta», concludono gli esperti di Facile.it.
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Brahim Diaz esulta dopo aver segnato un gol durante la partita inaugurale della 35ª Coppa d'Africa tra Marocco e Comore allo stadio Prince Moulay Abdellah di Rabat (Getty Images)
Serve a spostare l’immaginario: non più periferia, non più frontiera, ma piattaforma. Il governo marocchino non lo nasconde. «La Coppa d’Africa è una prova generale per il Mondiale 2030 e un simbolo della nostra capacità di organizzare eventi globali con standard elevati», ha dichiarato recentemente un portavoce del governo di Rabat, sottolineando l’utilizzo dello sport come leva di soft power e di consolidamento di immagine internazionale. Il re Mohammed VI ha insistito pubblicamente sul ruolo dello sport come strumento di dialogo e cooperazione regionale, definendo iniziative come Afcon e il Mondiale 2030 parte integrante della «strategia marocchina di apertura e modernizzazione». Questa visione è stata ripresa anche dai media di Stato come elemento di legittimazione politica e di promozione dell’identità nazionale. I numeri aiutano a capire la traiettoria. Il Marocco conta oggi circa 37 milioni di abitanti e una crescita demografica relativamente contenuta dell’1 per cento annuo circa, molto più bassa rispetto a molte economie subsahariane.
Questo rallentamento demografico consente una pianificazione a medio-lungo termine più sostenibile. Sul piano economico, il pil ha superato i 140 miliardi di dollari nel 2023, con un pil pro capite attorno ai 3.700 dollari, superiore a molti Paesi dell’Africa subsahariana e stabile negli ultimi anni. Il calcio entra qui. La Coppa d’Africa diventa una vetrina perché cade in un momento preciso. Il Paese è nel pieno di un ciclo di investimenti pubblici legati a grandi eventi. Strade, aeroporti, linee ferroviarie ad alta velocità, stadi. Secondo stime ufficiali, tra infrastrutture sportive e opere collegate il Marocco ha messo sul piatto investimenti nell’ordine di oltre 21 miliardi di dirham — quasi 2 miliardi di euro — per modernizzare stadi e città in vista di Afcon 2025 e del Mondiale 2030. Questa spinta è percepita anche a livello diplomatico.
Nel corso degli ultimi anni Rabat ha promosso nuove alleanze economiche in Africa occidentale, con piani di investimento in energia, telecomunicazioni e infrastrutture. La Coppa d’Africa è intesa come un elemento di “soft power” che attraversa i confini: non solo uno spettacolo sportivo, ma un’occasione per creare reti di relazioni, far visita a delegazioni internazionali e mostrare un’immagine di stabilità e apertura. Il messaggio è rivolto prima di tutto al continente africano. Il Marocco si propone come modello alternativo: africano per storia e geografia, ma sempre più occidentale per governance, modelli economici e partner strategici. “Lo sport è parte integrante della nostra politica estera e interna”, ha detto un consigliere politico marocchino parlando della Coppa d’Africa come di un evento che rafforza l’influenza regionale di Rabat. La Coppa d’Africa serve anche a rafforzare una narrativa interna. Il Paese viene da anni di riforme graduali, non sempre popolari, tra cui la promozione di miglioramenti nei servizi pubblici. Il consenso passa anche dalla capacità di offrire orgoglio nazionale e visibilità internazionale.
Dopo il quarto posto al Mondiale 2022, la nazionale è diventata un moltiplicatore emotivo, un simbolo di successo collettivo. Ma non mancano le critiche. In un anno segnato da proteste giovanili e richieste di maggiori investimenti in sanità ed educazione, alcuni osservatori ricordano che infrastrutture sportive e servizi sociali competono per risorse limitate. «Vogliamo ospedali, non stadi» è stato lo slogan di manifestazioni che hanno investito diverse città marocchine nei mesi scorsi, sottolineando il rischio di disallineamento tra spesa per eventi e bisogni sociali. Nel contesto internazionale il torneo assume un ulteriore significato. La Coppa d’Africa 2025 arriva pochi anni prima del Mondiale 2030, che il Marocco ospiterà insieme a Spagna e Portogallo. Non come semplice partecipante, ma come Paese co-organizzatore, una delle prime volte che un Paese africano riveste questo ruolo congiunto nel calcio globale. Il Marocco conta di vincere la Coppa D'Africa. Il risultato sportivo conterà. Ma conterà meno del messaggio lasciato. Rabat vuole usare il calcio per ribadire che il centro può spostarsi, che l’Africa non è solo luogo di risorse e problemi, ma anche piattaforma, regia e snodo geopolitico. E nel 2030, quando il mondo guarderà lo stesso pallone rimbalzare tra Europa e Africa, quella storia sarà già stata scritta.
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