2019-11-29
Niente pace nel M5s Paragone guida la rivolta anti fondo
Il partito è spaccato fra favorevoli e contrari, che ricordano il programma elettorale: fra le promesse c'era l'addio al Mes.Richieste sotto la media e crescita dei rendimenti dei titoli a cinque e dieci anni. Gli esperti temono la ristrutturazione del debito unita alle nuove norme sulle emissioni: «Se passa il Mes vendiamo tutto».Lo speciale contiene due articoliMes con una «s» sola vuol dire Meccanismo europeo di stabilità, con due «s» invece in inglese vuol dire «pasticcio». Ed è proprio un gran pasticcio quello che va in scena anche in casa 5 stelle sulla riforma del Fondo salva Stati in caso di default in arrivo per uno dei Paesi membri dell'Unione monetaria.Nel programma elettorale dei grillini, da sempre, ci sono affermazioni e promesse incompatibili con qualunque cessione di sovranità in cambio di paracadute monetario, come ha dovuto fare la Grecia con la Troika. Nella risoluzione parlamentare con la quale la Lega chiedeva a Giuseppe Conte di non firmare il nuovo Mes ci sono le firme anche di vari deputati pentastellati. Il «capo politico» del Movimento, Luigi Di Maio, è in buona misura contrario al nuovo Mes così com'è (anche se in sette giorni la sua posizione si è ammorbidita), mentre il premier è a favore e in cuor suo tifa per un rinvio. Poi c'è Beppe Grillo, che ormai da mesi ha abbracciato posizioni più europeiste per convergere sempre più sul Pd in un patto non scritto che dovrebbe culminare anche nell'elezione di Romano Prodi al Colle. A mettere tutti i compagni di partito con le spalle al muro è il senatore Gianluigi Paragone, che sventola il programma elettorale della primavera 2018. Nel capitoletto sull'economia e l'Ue, si poteva leggere: «Riteniamo indispensabile, nei trattati e nel quadro normativo europeo, alcune specifiche procedure tecniche, economiche e giuridiche che consentano agli Stati membri di recedere dall'unione monetaria». Ovvero l'opposto del Mes, prima e seconda versione, che invece lega le mani ai Paesi in difficoltà e li costringe ad accettare il commissariamento dall'estero. E nelle nuove regole del fondo salva Stati non sono neppure previste delle vie di fuga democratiche, come la possibilità di abbandonare anche temporaneamente la moneta unica. Intervistato da Affaritaliani.it, l'ex giornalista osserva: «Quello del Movimento non mi sembra un programma di una forza europeista, il Mes è da modificare radicalmente a favore dei popoli e non della finanza. Il Mes è assolutamente un trattato costruito per la finanza speculativa». Diventa quindi complicato votarlo, per un deputato grillino, quando il programma prometteva una svolta in senso contrario sulla moneta unica e si rischia il bis di un'altra battaglia in qualche modo tradita come quella contro la Tav. Di Maio lo sa e anche ieri è tornato a parlare contro il trattato, augurandosi con i suoi collaboratori più stretti lo stesso rinvio che anche Conte prepara da giorni. Anche se il premier, lunedì prossimo in Senato, probabilmente non sconfesserà del tutto la linea favorevolissima del ministro dell'Economia, Roberto Gualtieri. Ospite di Radio Anch'io, il ministro degli Esteri anticipa che «nelle prossime ore, a livello di maggioranza, avremo bisogno di valutare se tutto questo pacchetto, il meccanismo europeo di stabilità, e altre riforme europee come l'unione bancaria e l'assicurazione sui depositi, convengono all'Italia oppure no». E poi azzarda una battuta in stile Salvini: «Una cosa è un Fondo salva Stati, altro uno stritola Stati sul modello della Grecia. Noi come M5s abbiamo espresso anche in Parlamento molte perplessità e preoccupazioni ma sono confidente nel fatto che nelle prossime ore riusciremo a trovare una soluzione». Pregevole l'inglesismo di «confidente», che conferma il suo ruolo di ministro degli Esteri. Va detto che una settimana fa, intervistato dal Corriere della Sera, Di Maio era però sembrato un po' più duro, quando aveva detto: «In Europa siamo stati abituati a colpi bassi in passato, che non abbiamo più intenzione di subire». E un «colpo basso», però, è anche la risoluzione approvata il 19 giugno alla Camera (seduta numero 192), presentata dal capogruppo della Lega, Riccardo Molinari e dall'allora capogruppo M5s Francesco D'Uva. Prevedeva esplicitamente che il governo non impegnasse l'Italia a riforme del Mes che fossero sfavorevoli a quelle economie che hanno bisogno di più pesanti «riforme strutturali» e di «maggiori investimenti» per uscire dalla crisi iniziata nel 2007. Come noi, insomma.Beppe Grillo ha provato a uscire dall'impasse con un tocco di illusionismo. E sulla sua pagina Facebook nei giorni scorsi ha sparso ottimismo con un video: «È un momento magico. Noi non possiamo continuare a fare dei Facebook in cui si dice questo qua non va bene. Adesso le cose devono essere chiare, il capo politico è lui, quindi non rompete i c… perché sennò ci rimettiamo tutti». Il «lui» era Di Maio, alle prese con il messy Mes. Nelle truppe parlamentari, c'è una netta spaccatura: quelli che parlano sono contrari, ma tra i silenziosi ci sono tanti che la pensano come il Pd. Francesco Bonazzi<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/niente-pace-nel-m5s-paragone-guida-la-rivolta-anti-fondo-2641475184.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-trattato-gia-inizia-a-fare-danni-lasta-dei-btp-si-rivela-una-delusione" data-post-id="2641475184" data-published-at="1758062702" data-use-pagination="False"> Il trattato già inizia a fare danni: l’asta dei Btp si rivela una delusione Scherzare con il fuoco può essere pericoloso e le proposte di modifica al trattato istitutivo del Meccanismo europeo di stabilità (noto come fondo salva Stati) iniziano a turbare gli investitori. Ad alimentare le perplessità non è tanto lo spread, in lieve aumento a circa 170 punti. Il differenziale nel rendimento fra Btp e Bund è infatti un termometro inattendibile per misurare il sentimento degli operatori sul nostro debito. Ciò che lascia perplessi è l'aumento dei rendimenti sulle nuove emissioni. Questa è una misura più accurata per testare il gradimento sul nostro debito. Ieri la Repubblica italiana ha collocato due Btp: uno con scadenza a cinque anni, l'altro a dieci, assieme a un Cct rimborsabile a sei anni. L'asta non è stata un successo, per due motivi. Per collocare il primo Btp lo Stato ha dovuto offrire un rendimento dello 0,64%. Una cifra in sé più che «giusta», ma in aumento rispetto alla precedente analoga asta del 30 ottobre, che aveva segnato lo 0,43%. In altre parole, il costo annuo del Btp a cinque anni è aumentato di quasi il 50%. E questo è un costo «vero», che si riverbera - in misura proporzionale all'importo di questa emissione - sul bilancio dello Stato. Pure il Btp a dieci anni ha segnato un aumento di 23 punti base nel rendimento offerto in asta, attestandosi all'1,29% rispetto all'1,06% del 30 ottobre. In proporzione, un aumento del costo inferiore rispetto a prima, ovvero poco meno del 22%. Ma il fatto che a dieci anni i timori degli operatori siano inferiori rispetto alla più breve scadenza di cinque non fa che alimentare ulteriori perplessità. Gli investitori, in altre parole, iniziano a ipotizzare possibili tensioni che nel lungo termine potrebbero mitigarsi. Quanto più gli aumenti di rendimento si trasmetteranno sulle fasce di scadenza più corte, tanto più alti saranno i timori degli operatori. Infine, anche il Cct a sei anni ha mostrato un aumento nel rendimento offerto chiudendo a 0,71% annuo contro lo 0,52% del 27 ottobre. Cifre in sé non allarmanti, ma che evidenziano un timore crescente. Ma vi è un secondo motivo per giudicare insoddisfacente il risultato delle aste di ieri. La domanda degli investitori non è stata copiosa rispetto ai nostri standard. Abbiamo collocato nelle tre aste 5,7 miliardi di titoli e la richiesta degli investitori è stata di circa 7,6 miliardi, superiore del 32%. Può sembrare un risultato di tutto rispetto, ma non è così. Nei primi dieci mesi del 2019 la domanda ha mediamente superato del 70% l'offerta nelle aste di titoli di Stato. Pure nel secondo semestre del 2018, nei momenti di maggiore tensione sui rendimenti, la domanda ha superato l'offerta di circa il 65%. Uno scarto addirittura superiore rispetto al primo semestre, quando ancora non si era insediato il governo Conte. Ciò che gli operatori iniziano a valutare con attenzione è l'introduzione a partire dal 2022 di nuove clausole di azione collettiva diverse da quelle attualmente in essere (in gergo Cac, e verrebbe da scrivere «nomen omen») su tutte le emissioni superiori a un anno. Di che si tratta? Proviamo a spiegarlo nella maniera più semplice possibile. A partire dal 2013, i regolamenti delle emissioni dei titoli di Stato con scadenza superiore a un anno riportano regole procedurali da seguire in caso di ristrutturazione del debito. E questa è già una prima nefandezza, dal momento che si ammette urbi et orbi che il debito sovrano nell'Eurozona, a differenza di tutti gli altri debiti sovrani, può fare default. Ristrutturare il debito significa infatti che il capitale restituito può essere inferiore e gli interessi magari più bassi; il tutto pagato in scadenze più lunghe. Affinché questa scemenza possa verificarsi, le vecchie Cac esigevano che la maggioranza degli investitori fosse d'accordo a subire questi sacrifici, non solo nel complesso ma anche a livello di singola emissione. Lo Stato, che ha cioè emesso titoli spezzettati in 100 emissioni diverse, poteva ristrutturare il debito soltanto se la maggioranza degli investitori era d'accordo nel complesso e in ogni singola emissione. Bastava una maggioranza contraria anche in una sola emissione, magari piccolissima, e la ristrutturazione non andava in porto. Ovviamente il solo scrivere queste casistiche ha alimentato spinte speculative non indifferenti sui debiti dell'Eurozona. Ma poiché una volta toccato il fondo si può sempre scavare, ecco che con il nuovo trattato si prova a peggiorare la situazione, prevedendo che dal 2022 le emissioni riportino una nuova Cac. Basterà una sola maggioranza, a livello di debito complessivo. In altre parole, è vero - come dice il ministro Roberto Gualtieri - che chiedere la ristrutturazione del debito non sarà più semplice rispetto a ieri. Ma una volta imboccata questa strada, tosare gli investitori sarà più semplice. «Ti dico con certezza matematica che se passa questa schifezza diamo loro lo short Btp della vita, e avremo tutto il mercato a vendere» è uno degli sms che gira fra gli addetti ai lavori a Londra. Tradotto, significa: «Venderemo a mani basse». Fabio Dragoni