2020-01-29
Nell’epoca della censura militante il buonismo sta ammazzando l’arte
L'infuocato pamphlet della filosofa Carole Talon-Hugon lancia l'allarme: «Nel mondo della creatività si è diffuso un virus chiamato politicamente corretto. E il valore delle opere passa in secondo piano».Più che un pamphlet sull'arte, sembra un romanzo horror. I primi capitoli di L'arte sotto controllo. Nuova agenda sociale e censure militanti (Johan & Levi editore) della filosofa francese Carole Talon-Hugon contengono un elenco di censure che sembra non finire mai. La studiosa si concentra su un arco di tempo piuttosto breve, diciamo gli ultimi due o tre anni, e gli episodi che riporta sono agghiaccianti e numerosissimi. «Oggi i casi di censura, o di richiesta censura, sono in aumento», scrive. «La proposta di boicottare i film di Woody Allen, le contestazioni contro una rassegna di Roman Polanski, la richiesta di ritirare dalle sale cinematografiche I love you, daddy, di Louis C.K., quella di distruggere dipinti di Graham Ovenden e foto di Pierre Louÿs». Messi uno in fila all'altro, gli episodi risultano veramente spaventosi. C'è, ad esempio, quello riguardante Balthus: «Una petizione lanciata sotto l'hashtag #metoo reclama la rimozione del dipinto di Balthus, Thérèse rêvant, sospetto di incitare alla pedofilia. E se il Metropolitan Museum di New York non cede», racconta la Talon-Hugon, «un'altra istituzione, il museo Folkwang di Essen, ha rinunciato nel 2014 a esporre le polaroid che Balthus aveva scattato alla fine della sua vita alla giovane modella Anna». È andata anche peggio a un altro gigante della pittura: «A Vienna, nel 2018, i poster di nudi di Egon Schiele (Uomo nudo seduto, 1910, e Ragazza con calze arancioni, 1914) che ne annunciavano la retrospettiva al Leopold Museum sono stati censurati con banner recanti la scritta: “Scusate, nonostante siano passati cent'anni il tema è sempre scandaloso"». A Manchester, invece, il Museum of Fine Arts ha deciso di togliere dalle pareti il quadro Hylas e le Ninfe (1896) di John William Waterhouse, un capolavoro preraffaellita. Al suo posto è stata affissa una didascalia che recita: «Questo museo presenta il corpo delle donne in “forma passiva e decorativa" o come “femme fatale". Lasciamoci alle spalle questo vecchiume vittoriano! Il museo vive in un mondo attraversato da problemi di gender, di etnia, di sessualità e di classe sociale che ci riguardano tutti. Come possono le opere d'arte parlarci in modo più contemporaneo e pertinente?». Oggi si chiede la censura di film e di dipinti, di spettacoli teatrali, e ovviamente pure la letteratura non sfugge alla mannaia. Alla Columbia University di New York hanno tolto le Metamorfosi di Ovidio dal programma: contengono troppi stupri e rapimenti. La capanna dello Zio Tom di Harriet Beecher Stowe va messo al bando perché razzista. Ci sono persino casi allucinanti come quello del quadro Open Casket di Dana Schutz, risalente al 2016. Il dipinto raffigura il «volto tumefatto dell'adolescente afroamericano Emmett Till, vittima di un linciaggio nel 1955». Si tratta dunque di un'opera «socialmente impegnata» sul fronte dell'antirazzismo, eppure alcune associazioni di neri americani hanno chiesto al Whitney Museum di New York di rimuoverla. Motivo? La pittrice che l'ha realizzata è bianca, dunque «non era legittimata a rappresentare la sofferenza afroamericana». Potremmo continuare a lungo, ma il concetto è chiaro. Mai come in questi ultimi anni la censura è tornata di moda. Assistiamo a un'ondata moralizzatrice che da un lato impone la mordacchia, dall'altro causa un proliferare di mostre, eventi, rassegne e carrozzoni «socialmente impegnati». C'è la Carmen di Leo Muscato vista al Maggio fiorentino del 2018, in cui il finale è stato cambiato di modo che non fosse Don José a pugnalare Carmen ma lei a uccidere lui, così da prefigurare «la fine del dominio sulle donne e la loro rivincita sugli uomini che le maltrattano». C'è l'edizione del festival teatrale d'Avignone, sempre del 2018, dedicata alla «trans-identità» e alla «costruzione sociale e culturale dei ruoli femminili e maschili». Dalla Biennale di Venezia alla Frieze Art Fair di Londra, dal riconoscimento artistico Turner Prize a Manifesta di Palermo, ovunque è un fiorire di spettacoli, esposizioni, romanzi e film dedicati ai migranti, al gender, alla «identità africana», ai trans, alle lotte femministe contro il patriarcato e via di questo passo. Censura da una parte, moralismo dall'altra. Qualcuno potrebbe obiettare che, in realtà, l'idea di un'arte «etica» è stata a lungo preponderante nella storia. Soltanto intorno all'Ottocento si è cominciato a parlare di un'arte moderna indipendente dalla morale. Stiamo tornando al passato, dunque? Non proprio, secondo Carole Talon-Hugon. Un tempo, spiega l'autrice, «l'arte faceva parte di un programma morale generale». Si pensava, cioè, che dovesse promuovere la virtù e i valori umani. Oggi, invece, «è meno forte la causa dell'umanità in generale che non le cause particolari di gruppi specifici che si incaricano di difendere in maniera aggressiva un certo numero di opere, respingendo alcune critiche». In buona sostanza, oggi la censura si esercita in nome della difesa delle minoranze, l'ondata moralizzatrice va di pari passo con le politiche dell'identità dedicate proprio a questi gruppi specifici sempre in cerca di nuovi diritti e più visibilità. È un fenomeno che si verifica da qualche decina d'anni, in realtà. Il grande critico letterario Harold Bloom, autore nel 1994 del Canone occidentale, parlava a questo proposito di «scuola del risentimento». Si riferiva agli accademici secondo cui un'oscura poetessa caraibica lesbica ha lo stesso valore letterario di Shakespeare, in virtù della sua appartenenza a una minoranza o a una serie di minoranze. Bloom pensava ai critici secondo cui i canoni estetici vanno demoliti e sostituiti con criteri che hanno a che fare con l'appartenenza sociale. Il problema è che la tendenza che Bloom aveva notato a livello accademico ormai ha tracimato e si è diffusa un po' ovunque nell'universo artistico, producendo un significativo cambio di mentalità. Un tempo, infatti, a chi invocava la censura si rispondeva solitamente rivendicando la libertà d'espressione dell'artista. Ora, invece, si oppone «a un'accusa di immoralità un intento morale che non è stato compreso ma è ben presente». Tradotto, significa che gli artisti, per rispondere ai moralizzatori che vogliono castrarli, si mettono sullo stesso piano dei censori. Non dicono: «Lasciateci in pace, l'arte dev'essere libera». Dicono piuttosto: «Non avete capito l'opera: se guardate bene, troverete che le istanze sociali sono presenti e e rispondono alle vostre richieste». Sempre più spesso, poi, censure e processi per immoralità si svolgono nell'arena mediatica: basta che un ignorante opinionista catodico a caso accusi un'opera di razzismo per scatenare una bagarre senza fine. Il risultato è drammatico. Secondo la Talon-Hugon si sta avverando la profezia di Harold Bloom: «La preoccupazione artistica della forma, della messa in opera dei contenuti, dell'invenzione plastica, letteraria o teatrale passano in secondo piano». Si dimentica che «le opere devono poggiare sulla loro potenza intrinseca prima di servire una causa». L'artista diviene una sorta di «ricercatore in scienze umane». Così l'arte muore, uccisa dal buonismo.
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