2020-01-10
Trump non colpisce alla cieca. Ecco chi c'è nella squadra che ha gestito il dossier Iran
Mike Pompeo, il capo del Pentagono Mark Esper e il consigliere per la sicurezza nazionale Robert O'Brien sono criticati perché non arrivano dall'establishment. Ma hanno fatto centro. La gestione della crisi iraniana da parte di Donald Trump ha mostrato come il presidente americano non sia l'incompetente lunatico che una certa vulgata non fa che dipingere. Se è ancora presto per mettere la parola fine a questa intricata vicenda, risulta tuttavia altrettanto vero che - al momento - l'inquilino della Casa Bianca possa dirsi più che soddisfatto. Con l'eliminazione di Qasem Soleimani, Trump ha infatti ristabilito la deterrenza anti-iraniana e ha decapitato un pezzo importante della classe dirigente di Teheran, creando le premesse per avviare una trattativa con la repubblica islamica da una posizione di maggior forza. La crisi iraniana sembra quindi offrire uno spunto, per cercare di superare l'ormai stantia interpretazione di un Trump folle o sconclusionato. Al di là di come infatti la si possa pensare nel merito, il presidente ha mostrato di agire secondo una strategia. E, nonostante il suo proverbiale decisionismo, non ha condotto questa linea in solitaria. Sul dossier iraniano, Trump si è appoggiato ad una squadra. Persone non esattamente ben viste dall'establishment statunitense, tanto che - appena domenica scorsa - il Washington Post lamentava l'assenza di esperienza dei consiglieri presidenziali in materia di rapporti con Teheran. Innanzitutto un ruolo decisivo nella questione iraniana sarebbe stato giocato dal segretario di Stato, Mike Pompeo, una delle figure cui Trump risulta maggiormente legato all'interno dell'amministrazione. Nonostante non condividano esattamente la stessa prospettiva (Pompeo è un falco, mentre il presidente nutre tendenze più realiste), i due hanno consolidato un rapporto profondo che li porta a operare - generalmente - in armonia. L'attuale segretario di Stato è spesso tacciato di inesperienza sul fronte internazionale, visto che prima di ricoprire l'incarico aveva esclusivamente servito come deputato alla Camera (eccetto una breve parentesi da direttore della Cia). Questo genere di accuse viene spesso rivolto anche al consigliere per la sicurezza nazionale, Robert O'Brien, altra figura che ha seguito il dossier Soleimani e il dipanarsi della crisi iraniana. O'Brien è un avvocato con limitate esperienze di politica internazionale ai tempi di Bush e Obama: un personaggio che, secondo i critici, risulterebbe tra l'altro troppo accondiscendente nei confronti dell'attuale presidente. Nonostante un curriculum di tutto rispetto, accuse di scarsa conoscenza delle dinamiche mediorientali vengono riservate anche al capo del Pentagono, Mark Esper: ulteriore figura che sta assistendo in prima persona Trump nella crisi mediorientale. Ciononostante, se questo team di «inesperti» ha portato a casa il risultato, qualcosa vorrà pur dire. Quello che una certa vulgata mediatica non ha mai troppo digerito è che l'attuale presidente si affidi spesso a figure che non provengono dall'establishment di Washington: quegli influenti tecnici, cioè, che restano ancorati a una politica estera tendenzialmente favorevole alle dinamiche del cambio di regime e dell'esportazione della democrazia. Una visione che Trump, nella sua svolta nazionalista (ma non isolazionista), ha sempre avversato. Prova ne è il difficilissimo rapporto da lui intrattenuto con l'ormai ex consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton: un falco di area neoconservatrice, particolarmente aggressivo e sostenitore di un cambio di regime in Iran. Una prospettiva che ha determinato frequenti tensioni con Trump che - a settembre - lo ha silurato. E non sarà un caso che, sabato scorso, a lasciare il Consiglio per la sicurezza nazionale americano (formalmente per motivi personali) sia stato Richard Goldberg: uomo molto vicino a Bolton, che continuava a invocare un approccio sempre più bellicoso verso Teheran. Discorso in parte analogo vale per l'ex segretario alla Difesa, James Mattis, che si era ai tempi opposto al ritiro americano dal trattato sul nucleare del 2015. Trump vuole insomma tenersi alla larga da quegli «esperti» che giudica tra gli artefici dei principali disastri statunitensi degli ultimi anni: si pensi a Paul Wolfowitz per il conflitto in Iraq o a Samantha Power per l'intervento bellico in Libia. Nel suo programma di contrasto alle «guerre senza fine», il presidente sa quindi di non poter puntare sugli intellettuali di riferimento dell'establishment di Washington, cercando così figure alternative per sparigliare le carte e scardinare schemi geopolitici ormai logori. Sotto questo aspetto, il caso iraniano è emblematico: stretto originariamente tra l'iperattivismo di Bolton e l'immobilismo di Mattis, Trump si è alla fine liberato dai lacci e ha perseguito una strategia originale. Rischiosa, sì, ma per ora efficace. Attenzione: ciò non significa che nell'entourage di Trump non compaiano anche personaggi più versati nelle questioni mediorientali. Sul dossier iraniano, per esempio, il presidente si è avvalso negli scorsi giorni di un esperto di politica internazionale come il senatore Lindsey Graham. L'approccio di Trump non sarà quindi troppo sistematico e lineare, però derubricarlo a un guazzabuglio insensato è un errore. Un errore che non tiene conto del cambio di paradigma che questo presidente sta cercando di imprimere alla politica estera statunitense.