2025-11-19
Lo strano strabismo dei magistrati che si fanno la guerra su cellulari e chat
La gip che fece spiare Palamara per accuse risultate infondate parla di «gogna» se pubblichiamo messaggi messi agli atti.I magistrati si fanno la guerra e poi accusano i giornali. Il 10 novembre abbiamo intervistato l’ex avvocato Piero Amara e lui ci ha rivelato che un pm, Mario Formisano, nel giugno del 2019, gli avrebbe chiesto, «in ginocchio» e «scherzosamente», di fargli «fare l’inchiesta della vita su Luca Palamara», in quel momento accusato di corruzione dalla Procura di Perugia. Non basta. Da alcune chat sequestrate in un procedimento per accesso abusivo ai danni di un ex cancelliere della Procura, emergeva anche che Formisano con altri colleghi si era adoperato per far trapelare sui media notizie che riguardavano l’ex procuratore aggiunto di Perugia Antonella Duchini, in quel momento indagata per corruzione. Una gogna mediatica che oggi la giunta della sezione perugina dell’Associazione nazionale magistrati prova a contestare a chi, come noi, si è limitato a registrare delle notizie.Di così evidente interesse pubblico che il procuratore generale di Perugia Sergio Sottani ha chiesto informazioni al procuratore Raffaele Cantone, capo di Formisano e degli altri pm coinvolti, e ha poi inviato una relazione alla Procura generale della Cassazione (che si occupa dei procedimenti disciplinari dei magistrati) per le opportune valutazioni. Contemporaneamente tre consiglieri del Csm (due laici, Isabella Bertolini e Claudia Eccher, e uno togato, Andrea Mirenda) hanno sollecitato l’apertura di una pratica per incompatibilità ambientale e una valutazione di natura disciplinare.Invece l’Anm ha diramato un comunicato abbastanza straniante.Per la giunta nessuno può occuparsi dei giudici se non i giudici stessi, notoriamente super partes: «La valutazione delle condotte professionali dei magistrati è demandata alle sedi istituzionali preposte, nel rispetto delle garanzie di legge e dei principi di imparzialità e terzietà che presidiano l’ordinamento giudiziario».I nostri articoli, che denunciano fatti gravi, per le toghe, sarebbero «diretti ad alimentare un clima di sospetto e delegittimazione nei confronti degli uffici giudiziari perugini».I magistrati provano a darci una lezione di deontologia, denunciando una presunta «gogna mediatica» in atto e accusandoci di «accostamenti allusivi» e di «ricostruzioni non verificate».La prima firmataria del documento è la presidente della sezione distrettuale Lidia Brutti, la gip che ha affiancato Formisano e la pm Gemma Miliani nella caccia a Palamara, autorizzando, per esempio, l’uso del trojan sulla base di un’accusa di corruzione che si è sciolta come neve al sole, la famosa vicenda dei 40.000 euro pagati per una nomina che, velocemente, la stessa Procura di Perugia cancellò dall’elenco delle contestazioni rivolte all’ex presidente dell’Anm.«Il quadro indiziario in relazione alle ipotesi di corruzione […] appare sufficientemente grave, da legittimare il ricorso allo strumento investigativo captativo» scrisse la Brutti nel decreto di autorizzazione.In definitiva, quando alla gip la situazione appare grave, anche se il reato non c’è, si può inoculare un trojan nel cellulare di un collega, quando, invece, i giornalisti intervistano un indagato eccellente o riportano il contenuto di chat depositate agli atti, prima di scrivere, dovrebbero attendere il via libera della magistratura, anche se questo, magari, non arriverà mai.A giudizio dell’Anm i nostri articoli punterebbero addirittura «a minare la credibilità dell’intero sistema giudiziario» e lo farebbero in un momento «particolare», alla vigilia del referendum. Le toghe, insomma, a pochi mesi dall’Armageddon elettorale, vogliono lavare i panni sporchi in famiglia, per non dare utili argomenti a chi chiede la separazione delle carriere.Ma, involontariamente, è la Brutti a consegnarcene uno formidabile: il giudice scende in campo, come se giocassero nella stessa squadra, a favore dei pm (Formisano e Miliani) che aveva autorizzato a effettuare intercettazioni invasive sulla base di accuse dimostratesi infondate e liquida le chat squadernate dalla Verità e le parole di Amara come «elementi decontestualizzati» e «accostati in modo gratuito e strumentale». Ma a che titolo la Brutti afferma ciò? Un giudice, a nostro giudizio, dovrebbe pretendere dai sostituti procuratori, ancora più che dai giornalisti, comportamenti irreprensibili, anziché straparlare di «gogna mediatica» e anticipare le assoluzioni.Ma un altro esempio di possibile strabismo arriva da Brescia. Nell’ultimo mese e mezzo la Procura lombarda si è vista annullare dal Tribunale del Riesame tre decreti di sequestro emessi ai danni dell’ex procuratore aggiunto Mario Venditti e del pm Paolo Pietro Mazza. Secondo i giudici per rendere i provvedimenti proporzionati sarebbero stati necessari l’utilizzo di parole chiave per scandagliare le copie forensi dei dispositivi elettronici e «una delimitazione dell’ambito temporale dei dati». Ma ciò non si è verificato. L’ostinazione della Procura bresciana ricorda quella dell’ex aggiunto di Firenze Luca Turco, il quale per ben tre volte si è fatto bocciare dalla Corte di Cassazione il sequestro di mail e chat effettuato nei confronti dell’ex consigliori di Matteo Renzi, Marco Carrai, assistito dallo stesso avvocato di Mazza, Massimo Dinoia. Una triplice decisione che è diventata un giudicato insuperabile, un vero e proprio spartiacque sul delicatissimo tema dell’utilizzabilità della corrispondenza elettronica e delle intercettazioni a strascico, e che è stato confermato dalla Corte costituzionale. Ma Brescia avrebbe provato lo stesso ad aggirare il muro eretto dalla Consulta e dal Palazzaccio. Eppure, proprio nella Procura della Leonessa d’Italia, in altri casi e con altri magistrati, la caccia al telefonino è stata meno affannata, come svelò La Verità a inizio 2022. L’inchiesta riguardava la presunta omissione di atti d’ufficio da parte dell’ex procuratore di Milano Francesco Greco durante le indagini sulla Loggia Ungheria, innescate dalle dichiarazioni del solito Amara. Pier Camillo Davigo e Paolo Storari, che si erano scambiati quei verbali, si lamentarono della scarsa incisività delle investigazioni iniziali e sostennero che le prime iscrizioni avvennero solo dopo che l’allora procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi aveva avvertito Greco delle lamentele dello stesso Storari, invitandolo a trovare una soluzione.La Procura di Brescia ha provato a recuperare le presunte comunicazioni tra Salvi e Greco, ma nei tabulati ha trovato solo un messaggio senza testo e allora il procuratore di Brescia Francesco Prete ha chiesto ai due colleghi, nel luglio del 2021 e a 14 mesi dai fatti sotto osservazione, di esibire quell’sms. Come sia finita lo ha raccontato lo stesso inquirente nella richiesta di archiviazione per Greco: «Non è stato possibile rinvenire sul telefonino del procuratore Salvi il contenuto di quel messaggio in quanto lo stesso procuratore ha dichiarato di avere smarrito l’apparecchio che aveva all’epoca» e «anche sul versante del procuratore Greco la ricerca è stata infruttuosa avendo questi a sua volta cambiato telefono dopo maggio 2020». E nessuno delle due toghe ha ammesso di avere fatto quello che facciamo noi comuni mortali ovvero un semplice backup dei dati. La conclusione di Prete è quasi rassegnata: «Non vi è conferma quindi che Greco sia stato indotto a effettuare le iscrizioni in quanto sollecitato dal procuratore generale della Cassazione». Certo il reato contestato a Greco era meno grave di quello di cui sono accusati Venditti e Mazza (corruzione e peculato), ma il suo cellulare e quello di Salvi sono stati inseguiti con meno pervicacia.Stesso discorso per Davigo, che la Procura è, comunque, riuscita a fare condannare per rivelazione di segreto (il contenuto dei verbali di Amara). Anche l’ex pm del pool di Milano, agli inquirenti che cercavano le sue chat con Storari, ha spiegato candidamente di avere «rivenduto» il proprio cellulare a un centro di telefonia, come un adolescente qualsiasi. Pure in questo caso la Procura si è accontentata della versione dell’indagato e non ha ordinato perquisizioni e sequestri.
Ecco #DimmiLaVerità del 19 novembre 2025. Con il nostro Alessandro Rico commentiamo lo scoop sul Quirinale e tutti gli sviluppi.
Nel riquadro Lorenzo Greco, amministratore delegato di Cegeka Italia (iStock)
Cegeka ha presentato oggi a Milano la piattaforma TPRM (Third Party Risk Management) che aiuta le aziende a gestire meglio i rischi dei fornitori, con l’ausilio dell’intelligenza artificiale e controlli continui. «Non ci limitiamo a rispondere alle normative» - spiega Lorenzo Greco, ad di Cegeka Italia - «Trasformiamo la gestione del rischio in un vantaggio competitivo che rafforza trasparenza e velocità decisionale».