2019-02-27
Nei rapporti commerciali con la Cina Trump può giocare la carta Taiwan
Mentre prende il via il summit ad Hanoi tra il presidente americano e il dittatore nordcoreano Kim Jong Un, l'obiettivo di The Donald è conseguire un buon accordo con Pechino, che rassicurerebbe anche Pyongyang.La riforma della Casa Bianca aveva due obiettivi: creare posti di lavoro e fare rientrare i capitali. Nel 2018 i contratti in più sono stati 2,6 milioni, mentre Netflix ha chiuso con 845 milioni di utile, zero tasse e 22 milioni di rimborsi grazie alla politica delle stock option.Lo speciale contiene due articoliIl summit che si tiene in questi giorni ad Hanoi tra Donald Trump e Kim Jong Un mostra come la distensione tra Stati Uniti e Corea del Nord stia pian piano procedendo. Per quanto non poche incognite incombano sui negoziati, il clima risulta relativamente ottimista, anche alla luce del fatto che le relazioni commerciali tra Washington e Pechino siano migliorate nelle ultime settimane. Non è del resto un mistero che, nel rapporto tra lo Zio Sam e Pyongyang, la Cina svolga da sempre un ruolo decisivo. Eppure, a ben vedere, c'è una nube che si staglia all'orizzonte. La questione di Taiwan.Recentemente i senatori repubblicani Ted Cruz, Marco Rubio, Tom Cotton, Cory Gardner e John Cornyn hanno scritto una lettera, chiedendo alla Speaker della Camera, Nancy Pelosi, di invitare la presidentessa di Taiwan, Tsai Ing-wen, a tenere un discorso davanti al Congresso americano. Una richiesta che mira ovviamente a rinsaldare i rapporti con l'antico alleato, comportando inevitabilmente un messaggio critico nei confronti della Cina. Si tratta a ben vedere di un fattore che si inserisce nella più complessa questione delle relazioni tra Pechino e Taipei. Dai tempi della nascita della Repubblica popolare nel 1949, la Cina ha sempre ritenuto Taiwan un territorio di sua appartenenza, laddove per lungo tempo Washington ne ha radicalmente difeso la libertà e l'autonomia da quello che considerava uno dei suoi nemici più feroci e pericolosi. La situazione cambiò negli anni Settanta: con la distensione, promossa da Richard Nixon verso Pechino, la Casa Bianca optò per normalizzare i rapporti diplomatici con il suo antico avversario. Un cambio di rotta che avrebbe portato Jimmy Carter, nel 1979, a rompere le relazioni con Taiwan per abbracciare la cosiddetta «politica di una sola Cina». Evento, questo, che condusse il Congresso ad approvare il Taiwan relations act: una legge che manteneva in vigore de facto le relazioni con le autorità dell'isola. Da allora, Washington ha spesso oscillato tra Pechino e Taipei, cercando di tenere così due piedi in una staffa: un comportamento che si palesò in tutta la sua evidenza durante la presidenza di Ronald Reagan.Del resto, la spinosa questione continua ancora oggi ad attanagliare la politica statunitense. E il problema di Taiwan riemerge costantemente in quelle che sono le burrascose relazioni che intercorrono tra Trump e la Repubblica popolare. Durante la campagna elettorale, il magnate newyorchese aveva adottato una durissima retorica anticinese, tacciando Pechino di concorrenza sleale ai danni degli Stati Uniti. In questo clima, a dicembre del 2016 Trump, da presidente in pectore, ebbe una telefonata proprio con la presidentessa di Taiwan: il fatto - neanche a dirlo - mandò su tutte le furie la Repubblica popolare. Tanto che molti parlamentari americani (soprattutto tra i repubblicani) credevano che il magnate fosse intenzionato ad usare il pugno duro verso Pechino. Gli eventi successivi mostrarono tuttavia ben altro.In questi due anni di presidenza, nei suoi rapporti con la Cina la Casa Bianca ha alternato momenti di rottura a momenti di distensione. Un'autentica altalena, che sta mostrando come, forse, l'obiettivo del presidente non sia tanto quello di arrivare a uno scontro con Pechino quanto - semmai - quello di conseguire un buon accordo sul fronte commerciale. Perché se è nella memoria di tutti la dura guerra dei dazi dell'estate scorsa, bisogna altrettanto ricordare che in quel periodo ci fosse, in America, la campagna elettorale per le elezioni di metà mandato. E che il presidente americano nutrisse tutto l'interesse a mantenere alta la tensione verso Pechino, visto l'astio anticinese espresso da buona parte della sua storica base elettorale (la classe operaia impoverita della Rust belt). Inoltre, anche sul fronte geopolitico, per Trump la rottura con la Cina minerebbe seriamente la distensione con la Corea del Nord: un Paese legato alla Repubblica popolare sia dal punto di vista commerciale che geopolitico. Ecco che allora, forse, episodi come la telefonata alla presidentessa taiwanese potrebbero essere ricondotti in seno a una più generale strategia negoziale che il magnate starebbe portando avanti per arrivare a un'intesa commerciale con Pechino. D'altronde, che il presidente non nutra obiettivi troppo «bellicosi» è testimoniato anche dal fatto che abbia ufficiosamente richiamato in servizio il vecchio Henry Kissinger: proprio colui che, da segretario di Stato, fu l'artefice del disgelo tra Washington e la Repubblica popolare.Il punto è che il presidente potrebbe ritrovarsi delle serpi in seno su questa strada. E la lettera dei senatori repubblicani potrebbe proprio per questo rivelarsi alla fine come manifestazione di una fronda che voglia mettergli i bastoni tra le ruote. Non dimentichiamo, del resto, come nel 2018 il Congresso abbia varato svariate leggi in questa direzione: dal Taiwan travel act (che incoraggia le visite tra funzionari statunitensi e taiwanesi ad ogni livello) al Taipei Act (una proposta che mira al rafforzamento diplomatico di Taiwan). Norme che - neanche a dirlo - hanno irritato non poco la Cina. In questo senso, non è esattamente chiaro quanto simili provvedimenti legislativi siano apprezzati da Trump. E, lo stesso fatto che dietro queste iniziative compaia spesso il nome di un suo ex avversario come Marco Rubio, effettivamente lascia intendere che qualcuno a Washington non apprezzi la linea morbida né con Pechino né - di riflesso - con Pyongyang. E che, forse, voglia complicare la vita a un presidente in cerca di rielezione nel 2020.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/nei-rapporti-commerciali-con-la-cina-trump-puo-giocare-la-carta-taiwan-2630091586.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-fisco-di-trump-alla-fine-grazia-i-big-del-web" data-post-id="2630091586" data-published-at="1758065078" data-use-pagination="False"> Il fisco di Trump alla fine grazia i big del Web Riforma fiscale di Donald Trump all'insegna di più occupazione e di una maggiore elusione da parte delle multinazionali. Gli incentivi fiscali e la riduzione dell'aliquota per le società hanno infatti aiutato le multinazionali americane a pagare molte meno tasse in patria ed a ottenere profitti da record nel 2018. Il pacchetto «Tax reform» voluto dalla Casa Bianca aveva però un duplice obiettivo. Da una parte incentivare le multinazionali a riportare in patria i capitali detenuti all'estero. E dall'altra rafforzare il mercato americano creando maggiore occupazione. Il primo obiettivo non è però stato centrato, dato che molte multinazionali hanno sfruttato le agevolazioni per la ricerca e lo sviluppo e il meccanismo della compensazione in forma di azioni, per pagare meno tasse in patria. A tutto ciò si aggiungono anche altre due questioni. La prima riguarda le scappatoie fiscali, che non sono state chiuse, e la seconda l'abbassamento del livello di corporate tax, tassa sui profitti della società, dal 35% al 21%. Le multinazionali possono dunque ancora non pagare le tasse sulle somme non riportate in patria. E se investono in ricerca e sviluppo o ha venduto azioni hanno ricevuto un'ingente somma di rimborso che andrà a compensare le tasse pagate (21%) Il mix di incentivi, scappatoie fiscali e corporate tax hanno dunque portato le società Usa a realizzare profitti in crescita e tasse vicino allo 0. Netflix, Amazon e Google hanno infatti pubblicato i conti del 2018, da dove sono emersi profitti record e imposte pagate molto basse. Andando in ordine cronologico, Netflix, la prima a rendere pubblici i dati, ha realizzato profitti pari a 845 milioni di dollari, risultato in netta crescita rispetto agli anni passati. E tasse pari allo 0%. Inoltre, la società è riuscita a ottenere anche un rimborso fiscale pari a 22 milioni di dollari. Se si confronta la situazione rispetto al passato non sembrano però esserci molti cambiamenti. Stando infatti all'ultimo rapporto dell'Institute on taxation and economic politicy (Itep, organizzazione no profit che si occupa di analisi fiscali ed economiche), pubblicato nel 2017, Netflix era stata identificata come una delle 100 società di Fortune 500, che ha pagato tra il 2008 e il 2015 un'aliquota fiscale federale dello 0%. Tassazione che non ha dunque visto variazioni prima e dopo la riforma fiscale di Trump. Unica differenza, l'aver ottenuto maggiori rimborsi fiscali rispetto al passato. Stessa situazione per Google. La società è infatti riuscita ad ottenere più di 10 milioni di dollari in agevolazioni fiscali, grazie alle attività di ricerca e sviluppo nel 2018. Infine l'ultima big ad aver pubblicato i conti è Amazon. La società ha realizzato un profitto pari a 11 miliardi di dollari (il 2017 si era chiuso con 5,6 miliardi di dollari), tasse pagate pari allo 0%. E il credito fiscale, come nei casi precedenti è decollato. Amazon è riuscita ad ottenere agevolazioni fiscali grazie alle attività di ricerca e sviluppo e alle azioni vendute. Da diversi anni la società ha infatti iniziato a premiare i dipendenti dandogli azioni. Questa politica di incentivi aziendali ha però avuto un notevole effetto fiscale, soprattutto dopo la riforma di Trump, dato che lo stock dato ai dipendenti risulta essere deducibile. Inoltre, più le azioni vanno meglio, più aumenta il rimborso che Amazon ottiene. Anche in questo caso si può notare come la situazione rispetto al passato non sia cambiata più di tanto. Tra il 2009 e il 2018, sottolinea l'Itep, il colosso del Web ha realizzato 27 miliardi di profitti e pagato tasse per un miliardo (aliquota effettiva del 3%). Se dunque da una parte è innegabile affermare che l'ultima riforma fiscale abbia agevolato le finanze delle multinazionali americane, dandogli maggiori incentivi fiscali. Dall'altra non si può negare che le misure prese per stimolare il mercato del lavoro interno abbiano funzionato. Nel 2018, stando ai dati del dipartimento del lavoro Usa, l'economia americana ha creato 2,64 milioni di posti di lavoro. Il dato non è da sottovalutare dato che rappresenta uno dei migliori risultati ottenuto dal 2009. A dicembre le società americane hanno infatti assunto più di quanto gli analisti stessi avessero previsto. 312.000 nuovi posti di lavoro contro i 176.000 annunciati. I settori che hanno contribuito maggiormente all'incremento dell'occupazione sono: le costruzioni 280.000 (+12%), il manifatturiero 32.000 e le vendite al dettaglio 24.000. Il numero degli occupati tocca è un risultato record, dato che si tratta del maggior numero di assunti da inizio 2018