2023-08-20
Morto l’imprenditore della sinistra a debito e re delle due ruote
Addio a Roberto Colaninno, presidente Piaggio, da lui risanata. Guidò la scalata Telecom e i «capitani coraggiosi» di Alitalia.Addio a Roberto Colaninno. Lo scorso 16 agosto aveva spento 80 candeline sulla torta. Ieri l’annuncio della sua morte è arrivato da Omniaholding, la holding di famiglia. Colaninno ha sempre rifiutato l’etichetta di finanziere spregiudicato. Molti però lo ricordano come il «capitano coraggioso» delle scalate a debito che tanto piacciono alla sinistra e a quel Pd di cui è stato deputato, nonché responsabile economico, il primogenito Matteo (ora in Italia viva). Di certo, nella vita di Roberto Colaninno c’è stato sempre un prima e un dopo. Prima dell’Olivetti, dopo l’Opa Telecom, prima della «razza padana», dopo il tentato salvataggio di Alitalia, prima di Silvio Berlusconi, dopo Massimo D’Alema. Poi è arrivata la Piaggio. Nasce a Mantova il 16 agosto 1943, figlio di un sottufficiale dell’esercito e di una sarta, studi di ragioneria, università a Parma interrotta per lavorare. Presenta una domanda di assunzione in banca. Ma all’Agricola, la banca per antonomasia per un mantovano, gli rispondono picche. Ventiquattro anni dopo di quella stessa banca sarà nominato consigliere di amministrazione. A scommettere per primo su di lui è Walter Francesconi, titolare di una piccola azienda, la Fiaam filter, produttrice di accessori per auto. Colaninno in poco tempo ne diventa amministratore delegato. Non si accontenta di lavorare per conto terzi, vuole entrare in prima persona in tutti i business. Quando Francesconi decide di vendere la società, Colaninno trova il compratore: la britannica Turner & Newall. Come mediazione ottiene una piccola quota del capitale. Qualche anno dopo la storia si ripete: gli inglesi lasciano e lui si dà da fare per collocare altrove la maggioranza. Questa volta la strada di Colaninno si incrocia con quella di Carlo De Benedetti: l’ingegnere piemontese accetta di rilevare la Fiaam, collocandola nella Sogefi, altra società, mantovana di origine, concentrata sull’attività immobiliare e destinata a diventare il secondo polo industriale del gruppo, dopo l’Olivetti. Il ragioniere di Mantova conquista la fiducia dell’ingegnere. Fino a quando, nel 1996, viene chiamato da lui a gestire la stessa Olivetti che in quel momento è con l’acqua alla gola. Nel 1997 dice all’Espresso: «L’Olivetti non ha le forze per coltivare tutti questi business: Omnitel e forse Infostrada hanno un domani, il resto è da vendere o da chiudere». Grazie anche a una serie di accordi internazionali, i conti vengono risanati e il gruppo di Ivrea si trasforma in una grande holding delle Tlc con quote di controllo in Omnitel e Infostrada. Intanto, Colaninno si porta a casa una ricca stock option acquistando a 1.000 lire l’una 12 milioni di azioni Olivetti. Consigliato da banchieri d’affari a caccia di commissioni stellari e incoraggiato dal primo ministro del tempo, Massimo D’Alema, decide di vendere Omnitel e Infostrada e di tentare la conquista di Telecom. Nel febbraio del 1999, in tandem con i soci bresciani capitanati da Emilio Gnutti, lancia l’Opa da 60 miliardi su Telecom. La madre di tutte le scalate. Nonostante la difesa dell’amministratore delegato Franco Bernabè, il nocciolo di controllo di Telecom Italia cede il passo ai cosiddetti «capitani coraggiosi». Il momento decisivo è l’assemblea straordinaria del 10 aprile 1999: Bernabè vuole lanciare un’Opa su Tim, per incorporarla e far lievitare il valore delle azioni Telecom, così da bloccare Colaninno. D’Alema ordina al ministero del Tesoro di non presentarsi, per far mancare i voti necessari. Nonostante un tentativo di Mario Draghi, potente direttore generale del Tesoro, il ministro, Carlo Azeglio Ciampi, si adegua e il progetto difensivo fallisce. Colaninno vince. Diventa presidente e ad della società di Tlc, oltre che della controllata Tim. Mantiene le cariche fino al 31 luglio 2001 quando la Pirelli di Marco Tronchetti Provera convince gli scalatori a vendere Telecom. Colaninno non ha abbastanza denaro per resistere alla cordata Tronchetti. Nel settembre 2002 costituisce insieme ad altri soci Omniainvest, una società di partecipazioni che investe in aziende industriali. Non solo. Con il denaro incassato per l’uscita da Telecom bussa alla porta della famiglia Agnelli per entrare in Fiat e lavorare al suo rilancio. Ma i vertici del Lingotto respingono l’offerta al mittente e allora Colaninno sale sulla Vespa. Nel luglio del 2003 conclude l’accordo di acquisizione della Piaggio con il fondo Morgan Grenfell, il proprietario di allora: il marchio delle due ruote famoso in tutto il mondo torna in mani italiane. Nel 2004 lo sbarco in Cina e soprattutto l’acquisto dell’Aprilia, altro storico marchio del settore. Nel luglio 2006 porta l’azienda di Pontedera in Borsa. Ma nel 2008 arriva una nuova sfida. Silvio Berlusconi inaugura il suo quarto governo. Il cda di Alitalia porta i libri in tribunale, il governo modifica la legge Marzano per permettere un fallimento controllato. Il titolo è cancellato dal listino di Borsa, e ne faranno le spese tanti piccoli azionisti e risparmiatori. Si fa avanti la Compagnia aerea italiana (Cai) una cordata guidata dallo stesso Colaninno e di cui fanno parte investitori come Benetton, Riva, Ligresti, Marcegaglia, Caltagirone e anche Intesa Sanpaolo allora guidata da Corrado Passera. La parte sana della compagnia viene rilevata da Cai per 300 milioni mentre tutto il passivo scivola nel debito dello Stato. Con il 2009 il nuovo vettore riparte con 8.000 dipendenti in meno. Fra gli azionisti, accanto a Cai c’è anche Air France ma Alitalia non decolla nonostante altri 2.400 esuberi e un taglio del 20% degli stipendi dei manager. Nel 2013 serve un aumento di capitale altrimenti gli aerei restano a terra. Arriva l’aiutino pubblico attraverso Poste italiane che entra nella compagine azionaria, mentre Air France preferisce diluire la propria quota. Nell’ottobre dello stesso anno Colaninno formalizza le sue dimissioni da presidente nella Cai per continuare il suo viaggio sulle due ruote della Piaggio portando avanti un risanamento industriale che da alcuni è stato paragonato al lavoro di Sergio Marchionne in Fiat.