2018-04-03
Bruxelles costretta ad ammettere che l'austerità ha azzoppato l'Italia
L'ultimo report della Commissione sulla sostenibilità del debito mostra che il nostro Paese sta molto peggio rispetto a 5 anni fa. Il rigore sui conti tanto invocato dall'Ue ha massacrato la domanda interna danneggiando la finanza pubblica.Che Mario Monti, Elsa Fornero o Emma Bonino pontifichino su quotidiani e televisioni costituisce, per il nostro Paese, contemporaneamente un segno di civiltà e di inciviltà. Di civiltà, perché nessuna sedizione popolare ha ancora costretto all'esilio quei personaggi; di inciviltà, perché giornalisti e intellettuali continuano a prendere in giro gli italiani, propinando loro le ricette economiche che li hanno ridotti sul lastrico. A fine gennaio, è uscito il «Debt sustainability monitor 2017», un documento con il quale la Commissione europea «fornisce una visione d'insieme sulle sfide di sostenibilità fiscale affrontate dagli Stati membri dell'Ue nel breve, medio e lungo periodo». In sostanza, una mappa della salute dei conti pubblici dei Paesi membri, che certifica il fallimento delle manovre di deflazione salariale, venduteci da Monti come «salvataggi». Quelle misure non hanno salvato nessuno, anzi, hanno aggravato la salute di una nazione la quale, almeno sul piano della sostenibilità del debito, non era poi così malata come volevano farci credere. E a dirlo non sono i populisti, bensì proprio le istituzioni europee idolatrate da montiani e boniniani. Cosa mostrano i dati? Negli anni dell'austerità, i report di Bruxelles giudicavano la situazione dell'Italia, in termini di futura sostenibilità del debito, «sfavorevole», mentre non registravano difficoltà nel breve periodo. Il Paese, infatti, godeva di un avanzo primario superiore persino a quello tedesco (dal 1996, Roma ha accumulato un surplus medio del 2%, contro lo 0,7% di Berlino). La nostra era pertanto una «posizione fiscale iniziale favorevole»: tradotto, ciò significa che quando i sacerdoti dell'austerity ci catechizzavano sulla necessità di «fare sacrifici», oppure lo Stato non sarebbe riuscito a pagare stipendi e pensioni, ci stavano prendendo per i fondelli. Loro erano bocconiani, noi abbiamo abboccato. Così, non ci accorgemmo che, di anno in anno, la «posizione fiscale iniziale favorevole» si andava lentamente tramutando nel suo contrario. Fino ad arrivare al 2016, allorché, con la sostenibilità di lungo termine del debito pubblico solo lievemente migliorata, era però nettamente peggiorata la posizione fiscale iniziale dell'Italia. Ossia, essenzialmente, il rapporto debito/Pil, che l'esecutivo Monti aveva ereditato al 116%, per poi riconsegnarlo al 131% in meno di un anno e mezzo di mandato. I numeri del 2017, come mostrato dal neo senatore della Lega Alberto Bagnai nel suo blog (https://goo.gl/E2PbrZ), hanno confermato la tendenza; e tutto questo non è accaduto nonostante le blasonate «riforme», a cominciare da quella delle pensioni, ma esattamente a causa di quelle politiche. Il fatto è che i governi, da Monti in poi, hanno trattato come una crisi del debito pubblico quella che persino il vicepresidente della Banca centrale europea, Vitor Constancio, riconobbe essere una crisi dell'indebitamento privato. Innescata dalla lotta senza quartiere alla domanda interna, a colpi di riforme del mercato del lavoro (dalla legge Treu del 1997, l'anno in cui l'Italia si agganciò all'Ecu, la valuta scritturale che precedeva l'euro, al jobs act renziano) e moneta unica, lo strumento deflattivo per eccellenza. Curiosamente, alla combinazione di tali fattori è associato quel crollo della produttività del lavoro che gli analisti considerano il principale vulnus del nostro sistema. Non che siamo diventati all'improvviso fannulloni: banalmente, in un mercato di impieghi meno garantiti e mal retribuiti, dipendenti e imprenditori sono indotti a usare in modo inefficiente la forza lavoro. Inoltre, è ovvio che, in presenza di una pressione ribassista sui salari, di cui la progressiva soppressione dei diritti dei lavoratori e l'importazione di manodopera a basso costo gabellata per «accoglienza dei migranti», rappresentano il primo e il secondo atto, le famiglie, per mantenere tenore di vita e di consumi, tendono a indebitarsi. E le banche a entrare in sofferenza, poiché prestano denaro a debitori sempre meno solvibili. Ecco la formula magica del disastro: l'austerità, ossia gli aumenti delle tasse, la riforma delle pensioni targata Fornero e i tagli dei servizi sociali, hanno accresciuto l'indebitamento privato, il cui incremento era già all'origine della crisi. Nei primi sette anni dell'euro, il rapporto tra debito privato e Pil è aumentato di 27 punti; nell'era Monti, ha oscillato tra il 125% e il 127%.Rimane aperto il dibattito sulla buona o la cattiva fede di chi ci ha condotto ad ampie falcate sull'orlo del precipizio. In entrambi i casi, quella classe dirigente non ne esce bene. Se i «professori» hanno scambiato lucciole per lanterne, allora i titoloni accademici non sono serviti a niente e le categorie di «competenti» e «incompetenti», che dominano il dibattito pubblico ai tempi del tramonto delle élite, non hanno più senso. Ma se i «professori» hanno deliberatamente consegnato il Paese al Fondo salva Stati e agli speculatori, se i pianti della Fornero erano spia dei rimorsi di chi era consapevole dei propri misfatti, non si comprende come i soloni dell'austerità possano godere di tanta stima. Non si capisce come possano permettersi di gettare ipoteche sui programmi politici di un eventuale governo composto da Lega, alla guida del centrodestra, e 5 stelle, col pretesto della sostenibilità dei conti pubblici che loro stessi hanno distrutto. I loro sermoni andrebbero ignorati. E dopo il Quantitative easing, con cui Mario Draghi ha cercato di facilitare il rifinanziamento del debito pubblico, ma che rischia di naufragare se, nel 2019, i tedeschi piazzassero il «rigorista» Jens Weidmann alla Bce, bisogna agire sull'unica leva capace di mantenere sotto controllo il debito pubblico ed eventuali aumenti di spesa: la crescita. Come ci insegnavano alle elementari, difatti, per diminuire un quoziente (il rapporto debito/Pil), bisogna aumentare il divisore. Più crescita significa più occupazione, più consumi, maggiori entrate per lo Stato e, dunque, la possibilità di rifinanziare il debito agevolmente e, magari, di ripristinare un sistema di servizi degno di tale nome. Se un medico, anziché guarirlo, finisce quasi con l'ammazzare l'ammalato, a costui resta un'unica opzione: cambiare medico e cambiare terapia.
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