
Spiazzata dall'ingresso del Carroccio nella maggioranza, la sinistra cambia strategia e ora gioca sporco. Lo stop allo sci come un dispetto al nemico: dai governatori interessati ai neoministri di centrodestra.L'ingloriosa vicenda dell'ennesimo stop alla stagione sciistica crea non solo problemi di merito (ancora chiusure e umiliazioni per imprese e lavoratori), non solo questioni di metodo (l'ormai arcinota sequenza per cui la danza macabra del Cts e dei virologi prepara la strada al niet finale di Roberto Speranza), ma pure tre rilevantissimi problemi politici. Il primo ha a che fare con il lutto non ancora elaborato da Pd-M5s-Leu per il fatto di essersi ritrovati Matteo Salvini in maggioranza. Inutile girarci intorno: la presenza della Lega è vissuta come un «incidente» da parte di chi avrebbe voluto il Conte ter, al limite allargato alla sola Forza Italia (cosiddetto schema Ursula). Ma poiché la Lega ha compiuto la scommessa politica di infilare un piede nella porta, evitandone la chiusura, il vecchio nucleo giallorosso è passato al «piano b»: una strategia di provocazioni per far saltare i nervi a Salvini, per indurlo al fallo di reazione. Prima, per tutta la scorsa settimana, si ricorderà l'uso dell'«europeismo» come clava da dare in testa al leader leghista; poi sono venute le conferme di Speranza e di Luciana Lamorgese, due dita nell'occhio per i leghisti; e infine, domenica, è giunto questo calcio negli stinchi dello stop allo sci. Chi lo ha deciso, ad ogni livello, non poteva non sapere che le vittime politiche sarebbero state tutte di centrodestra: i governatori delle regioni interessate, i neoministri Massimo Garavaglia (Lega) e Mariastella Gelmini (Fi), e soprattutto Salvini, che aveva investito politicamente sul «tornare a vivere». La logica dei provocatori anti Lega è dunque fin troppo chiara: o costringere Salvini a far saltare tutto, oppure imporgli dei prezzi politici costosissimi agli occhi del suo elettorato. Per ora Salvini è stato misuratissimo, e anche ieri ha calibrato ogni parola al millimetro: lasciando a verbale un solenne dissenso su questo primo passo falso, ma evitando di fare ciò che i suoi avversari avrebbero desiderato. Interpellato su richieste di dimissioni per Domenico Arcuri, Salvini ha detto: «Non chiediamo niente, chiediamo un cambio di passo. Arcuri, fra le altre cose, sul tavolo ha il dossier dell'Ilva. Non mi sembra che stia risolvendo molte delle questioni aperte, dai vaccini alla scuola. Penso che avrà bisogno di una mano». Poi il leader leghista è passato a occuparsi di Walter Ricciardi: «L'Italia è piena di bravi medici che non sentono la necessità di parlare tutti i giorni in tv e terrorizzare le persone. Ne parleremo con il presidente Draghi che avrà piena libertà di scelta. Noi non chiediamo niente ma un cambio di passo sì».Certo, però, se è razionale (dal loro punto di vista), benché altamente fastidioso, che le forze di sinistra vogliano sgambettare Salvini, non si capisce perché Mario Draghi si sia già due volte prestato all'operazione, prima attraverso le conferme delle facce ministeriali più impresentabili del Conte bis, e ora con questa storia dello sci (vicenda nella quale il premier pare sia stato effettivamente interpellato da Speranza). Razionalità vorrebbe che Draghi non si consegnasse all'abbraccio mortale di Pd-M5s-Leu, che non guastasse i rapporti con la Lega (e con parte rilevante di Fi), e anzi facesse tesoro della linea sviluppista del centrodestra per marcare una differenza rispetto al vecchio governo. E qui emerge il secondo problema, che ha a che fare proprio con la forma mentis del neopremier, abituato, nella sua vita precedente, a una dimensione da gran violinista o da gran pianista, insomma da solista. Oggi invece - gli piaccia o no - dirige un'orchestra, con alcuni suonatori che non ha scelto o che si è fatto imporre, e che possono creargli un problema dopo l'altro. Sarebbe un'illusione (ammesso che Draghi la coltivi) quella di far da sé sui dossier che più contano (Recovery plan e preparazione della prossima legge di bilancio), e di disinteressarsi di tutto il resto. È comprensibile che Draghi abbia il riflesso di tenersi alla larga dalle contese di politica domestica: ma il modo migliore per farlo è prevenirle e sminarle, anche costruendo un rapporto diretto con i leader non di sinistra. Se invece il premier lascia che da sinistra i soliti noti avvelenino i pozzi, poi sarà il primo a pagarne un prezzo in termini di tensioni e fibrillazioni. Il terzo problema ci riporta al merito della questione. Alla prima decisione ascrivibile al nuovo governo, è arrivata una prima chiusura, in linea con il peggio del gabinetto precedente. Perfino dinanzi a provvedimenti regionali che erano stati scritti con ammirevole prudenza (capienza al 30%: quindi nessuno poteva dire che la Lombardia o il Veneto volessero giocare la carta di riapertura esagerate e irresponsabili), è giunto un no categorico. Ora non solo la Lega ma ampi settori di opinione pubblica avevano scommesso sull'idea di una riapertura (sia pure graduale e in sicurezza) del Paese. A maggior ragione nel momento in cui, vista la non-partenza della campagna vaccinale, i tempi della vaccinazione richiederanno almeno 10-12 mesi, sarebbe stato logico attendersi un cambio di paradigma: non più protocolli di chiusura, ma protocolli di ragionevole riapertura. Scoprire che invece tutto è rimasto fermo alle logiche del Conte bis è stata una doccia fredda.
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