2022-11-05
Il piano per i migranti della sinistra danese. Espulsione in Ruanda e carcere in Kosovo
Il primo ministro danese Mette Frederiksen (Ansa)
Il governo progressista di Copenaghen vuole arrivare a zero ingressi. Accordi con Kigali e Pristina per smaltire i flussi.Tunisino violenta una ragazza a Roma e si fa un selfie accanto alla vittima. Le foto scattate con il cellulare sono adesso una prova a suo carico nel processo.Lo speciale contiene due articoli.Carceri sovraffollate, quartieri ghetto, criminalità diffusa, baby gang etniche che scorrazzano per le città. Sono questi i problemi che ogni governo europeo deve affrontare quando scorre l’agenda e si ferma alla voce «immigrazione». Certo, per la stampa di sinistra, il quesito neanche si pone: sono gli effetti collaterali dell’«accoglienza», ci dicono. Anzi, se l’integrazione non funziona, è colpa del razzismo strisciante che impregna le nostre società xenofobe ed etnocentriche. L’unico imperativo che vale è sempre lo stesso: «Restiamo umani». Naturalmente con il fondoschiena degli altri: tutti ricordano quando un paio di anni fa, a Capalbio, ci fu una vera sollevazione di popolo (pardon: di élite) per impedire l’installazione di un centro accoglienza nella ridente località maremmana. Accoglienti sì, insomma, ma mai all’interno delle Ztl.Eppure, retorica no border a parte, il problema rimane: non è solamente «percepito» dalla popolazione, come dicono quelli bravi, ma è tragicamente vissuto soprattutto dalle fasce più deboli, cioè dalle «classi subalterne» di gramsciana memoria. Che poi, chissà perché, votano in massa i partiti di destra. Elementare, a questo punto, che persino alcuni governi di sinistra ne abbiano un po’ le tasche piene di ricevere applausi in televisione e ceffoni nelle urne. Basti vedere quello che sta succedendo in Danimarca. Malgrado la fine prematura del primo governo di Mette Frederiksen, caduto soprattutto per una controversa gestione della pandemia, i socialdemocratici hanno comunque vinto le elezioni anticipate, registrando il loro miglior risultato da vent’anni a questa parte. Tuttavia, il punto qualificante del partito non erano mascherine obbligatorie vita natural durante, vaccinazione dei neonati, matrimoni Lgbt, adozioni arcobaleno e tutto il caravanserraglio che tanto piace alla sinistra italiana. No, il piatto forte della proposta era rappresentato dalla madre di tutte le battaglie della combattiva Frederiksen: «Zero immigrati in Danimarca».Esatto: un partito di sinistra - peraltro di quella sinistra scandinava che per molti, dalle nostre parti, sarebbe un modello - ha vinto un’elezione con un programma di destra. Anzi, a leggere il progetto dei socialdemocratici danesi, si tratta di un programma che neanche Giorgia Meloni o Marine Le Pen hanno mai anche solo sognato di concepire: clandestini spediti in Ruanda e delinquenti immigrati mandati a scontare la loro pena nelle carceri kosovare. Ma attenzione: non si trattava affatto di una sparata elettorale destinata a finire in cavalleria a urne chiuse. Al contrario, è circa un anno che la Frederiksen sta portando avanti questo progetto, rallentato solo dalla caduta del suo primo esecutivo, avvenuta lo scorso ottobre. La questione è semplice: la Danimarca ha raggiunto il 100 per cento del sovraffollamento delle sue carceri. Di conseguenza, alcuni detenuti possono scontare la loro pena in «prigioni aperte», dove la sorveglianza è ridotta ai minimi termini, oppure beneficiando di numerosi permessi. Cosa che, ovviamente, non garba più di tanto ai cittadini danesi. Di qui l’estremo rimedio: liberarsi di questi indesiderati ospiti inviandoli in Kosovo. L’accordo con il governo di Pristina è stato messo a punto già diversi mesi fa: Copenaghen ha affittato 300 celle nel carcere di Gjilan, che costeranno 15 milioni all’anno. Di più: una volta scontata la pena, i detenuti non faranno ritorno in Danimarca, ma sarà lo stesso governo kosovaro a espellerli dal territorio dell’Unione europea. Si tratta di una «decisione storica», come la definì nel dicembre del 2021 Nick Hækkerup, l’allora ministro della Giustizia danese. Che poi spiegò: «Uno dei vantaggi di tale misura è che i prigionieri non dovranno essere risocializzati per tornare nella società, perché non dovranno trovarsi in Danimarca in seguito. Pertanto, possiamo comodamente spostare l’intero gruppo in modo che servano in un altro posto». Con tanti saluti ai talebani dell’accoglienza. Ma non è finita qui. Il governo di Copenaghen non ha solo intenzione di liberarsi degli immigrati macchiatisi di gravi reati, ma sta definendo anche un progetto per bloccare totalmente l’afflusso di stranieri, regolari o clandestini che siano. Di qui il dialogo avviato già da tempo con la Repubblica del Ruanda. In pratica i richiedenti asilo verranno trasportati nel Paese terzo, dove resteranno per tutto il periodo in cui sarà vagliata la domanda. In caso di successo, il rifugiato sarà autorizzato a rimanere nel Paese terzo. In caso di rifiuto, verrà espulso anche da lì. Si tratta di un progetto molto simile a quello stilato da Boris Johnson, per cui BoJo fu crocifisso a reti unificate. L’ex primo ministro britannico, infatti, intendeva sborsare la bellezza di 120 milioni di sterline alla nazione africana per installarvi una sorta di centro di smistamento per i richiedenti asilo (i cosiddetti «hub offshore»). Tuttavia, a proporre il piano Ruanda era, appunto, il «cattivo» Boris, non certo la «buona» Frederiksen. Che anzi, in fatto di immigrazione, ha sempre usato il pugno di ferro, con decisioni che neanche Viktor Orbán ha osato prendere in considerazione. La leader socialdemocratica, infatti, ha sempre dichiarato di voler ridurre a zero anche il numero di permessi di soggiorno concessi. E non c’è solo il Ruanda nella mente del ministro di Stato danese: per installare altri centri di smistamento in terra africana, Copenaghen guarda anche a Etiopia, Egitto e Tunisia, con cui sono già stati avviati dialoghi e trattative. Non male per un governo socialdemocratico.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/migranti-sinistra-danese-ruanda-kosovo-2658602711.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="tunisino-violenta-una-ragazza-a-roma-e-si-fa-un-selfie-accanto-alla-vittima" data-post-id="2658602711" data-published-at="1667613193" data-use-pagination="False"> Tunisino violenta una ragazza a Roma e si fa un selfie accanto alla vittima Ha servito ai magistrati su un piatto d’argento la prova di una brutale violenza sessuale scattandosi dei selfie con il suo cellulare. Il protagonista è un ventottenne tunisino senza fissa dimora, la vittima una ragazza ubriaca che gironzolava nei giardini di piazza Vittorio a Roma, quartiere Esquilino. Nelle fotografie, che si sono trasformate nella prova regina del procedimento giudiziario in cui il tunisino è indagato, lui è sorridente davanti alla telecamera anteriore dello smarphone, lei, invece, a terra, priva di sensi. Sono le 9 del mattino del 30 luglio scorso. E la vittima, dopo una serata di bisboccia, stava smaltendo una sbornia. I due si conoscevano e il tunisino l’avrebbe avvicinata. Quando ha capito che era vulnerabile avrebbe cominciato a molestarla, per poi violentarla. In pieno giorno e in pubblico. Senza mostrare tentennamenti. Né cercando un riparo. Come se il tutto fosse lecito e legittimo. Una signora che passava di lì con il suo cane, però, ha assistito alla scena e ha cominciato a chiedere aiuto. Immaginava che, da sola, non sarebbe riuscita a strappare la vittima da quella furia. La ragazza era a terra, sul prato, e non riusciva a reagire agli abusi. Era evidente che non era in sé. Giaceva distesa senza reagire. Sembrava quasi addormentata. La testimone, quindi, si è spostata sulla strada. Ed è riuscita a intercettare una pattuglia della polizia municipale del Gruppo Trevi. Ha raccontato tutto d’un fiato quello che aveva appena visto. «C’è uno straniero nei giardini di via Vittorio che sta violentando una ragazza. Lei è a terra e non reagisce, correte». E gli agenti, che si sono precipitati sul posto, hanno potuto verificare subito con i loro occhi che non si trattava del racconto di una mitomane. Lui era ancora lì, accanto alla ragazza ancora a terra. E si riprendeva cercando di fare in modo che nell’obiettivo della fotocamera finisse inquadrata anche la vittima. L’episodio a fine luglio era finito sulla cronaca di Roma come uno dei tanti casi di violenza sessuale che hanno fatto piombare in un incubo la Capitale la scorsa estate. Ma senza il particolare agghiacciante: quello delle foto scattate durante la violenza sessuale. La descrizione della scena, con il tunisino che ha tirato fuori lo smartphone per immortalare il tutto e che stava ancora armeggiando con lo strumento elettronico, è finita nelle relazioni di servizio degli agenti della municipale ed è diventata la pistola fumante dell’inchiesta. Dall’analisi del telefono, poi, sono saltate fuori le foto, che sarebbero quindi state sequestrate. Il tunisino finisce in manette. La ragazza, che, si è scoperto, viveva di espedienti (e non si sa se abbia sporto denuncia né se abbia intenzione di costituirsi parte civile in un eventuale futuro processo), viene soccorsa e portata al pronto soccorso dell’ospedale San Giovanni, dove, dopo le cure, è stata sottoposta alla visita ginecologica. Che ha accertato la violenza. Ma durante le analisi è stato accertato anche che aveva abusato di sostanze alcoliche. E, forse, ha ricostruito ieri Repubblica sulla cronaca locale, anche di qualcos’altro. E quindi non era in grado di intendere e di volere. «Una condizione», riporta il quotidiano, «che l’ha resa vulnerabile». Per il codice penale questa è anche un’aggravante, visto che il tunisino avrebbe approfittato della situazione di inferiorità della vittima, condita dall’ulteriore agghiacciante sfregio: i selfie per portare con sé il trofeo di quella mattinata da film horror.
Giorgia Meloni e Donald Trump (Getty Images)
il ministro degli Esteri iraniano, Abbas Araghchi (Ansa)
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